Scusi, ha visto Dio? Sì…

… nel 2019 ed era morto: così parlò Philip Dick
di Fabrizio – «Astrofilosofo» – Melodia (*)  

Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io mi sento tanto bene: era la fulminante considerazione filosofica-ontologica di Woody Allen, maestro dell’umorismo ebraico newyorkese.
Un pochino, ne sono sicuro, la pensava così pure Philip K. Dick, che nella sua vita attraversa un cammino paragonabile a quello di Dante Alighieri nella «Divina Commedia», lineare quanto distruttivo.
Il grande padre della lingua italiana attraversa la concezione del mondo che nel medioevo andava per la maggiore: quella visione perfetta, mutuata dall’aristotelismo più lineare, causato dalla caduta di Satana sulla Terra, conficcato nella profondità della naturale burella, tanto da generare una specie di ernia da schiacciamento alla crosta terrestre, dalla quale si erge la zona del Purgatorio. Dal mal di schiena del mondo, alla fine, si può salire direttamente alla rosa beata dei pianeti aristotelici, animati da molti angeli (le divinità di cui parlava il politeista Aristotele).
Dante Alighieri compie un viaggio a spirale: i gironi infernali e i quadri del Purgatorio sono in realtà una gigantesca rampa di lancio per la nave stellare che andrà alla ricerca dell’«amor, che muove il cielo e l’altre stelle».
La stessa ricerca a cui Dick si dedicava anima e corpo. Sentite questo dialogo nel romanzo «I nostri amici di Frolix 8».
«Dio è morto  – disse Nick. Hanno trovato il suo cadavere nel 2019. Galleggiava nello spazio, nei pressi di Alfa».
«Hanno trovato i resti di un organismo migliaia di volte più progredito di noi – disse Charley. Ed era evidente che poteva creare mondi abitabili e popolarli di organismi viventi derivati da lui stesso. Ma questo non dimostra che fosse Dio».
«Io credo che lo fosse».
A parte la bellissima citazione da Nietzsche, nell’opera di Dick la prima apparizione di Dio (o di qualcuno che gli somiglia) è un gigante, dal corpo nebuloso ma non del tutto immateriale, come nel romanzo «La città sostituita» ma il titolo originale era «A glass of darkness», chiara citazione dalla lettera ai Corinzi di Paolo di Tarso quando afferma: «Videmus nunc per speculum in aenigmate; tunc autem facie ad faciem. Nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum» (che più o meno si traduce: «ora vediamo attraverso uno specchio nell’oscurità, ma poi vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte ma poi conoscerò come anch’io sono conosciuto»).
Tale citazione verrà ripresa anche nel titolo dickiano di «A scanner darkly»  (tradotto in italiano in molti modi forse proprio per la scarsa comprensione della suddetta citazione). Ted Barton e la sua irascibile moglie Peg stanno cercando di raggiungere in auto Millgate, la cittadina natale da cui Ted manca ormai da diciotto anni. Quando vi arrivano Ted scopre che Millgate non è più la sua bella cittadina, ma è stata sostituita da un’altra, un luogo brutto, arido e polveroso; nessuno si ricorda più di lui o della sua famiglia, i dati sul giornale locale sono errati e l’unico Ted Barton di cui si ha memoria è morto di scarlattina nell’ottobre del 1935, cioè l’anno in cui i suoi genitori emigrarono. Comincia così la ricerca da parte di Ted del proprio passato, mentre è in corso una strana guerra che vede opporsi Peter (il figlio della pensionante dove Ted ha trovato una camera) e Mary, la figlia del dottor Meade, direttore della clinica locale. I due bambini, poiché di bambini si tratta, controllano alcune forze della natura; uno infonde vita a minuscoli golem d’argilla e guida ragni, serpenti e topi, l’altra manovra api, falene, mosche e gatti. Alla fine emerge la verità: l’universo, secondo l’insegnamento zoroastriano, è teatro di una gigantesca battaglia fra il principio del male, Ahriman, e quello del bene, Ormazd, di cui Peter e il dottor Meade sono le incarnazioni; entrambi hanno perso e dimenticato le loro origini e combattono nella valle, ma grazie a Mary – incarnazione terrena della figlia di Ormazd, Armaiti (in realtà uno degli Amesha Spenta,  devozione , ma anche  armonia) – Ted è stato fatto entrare affinché avvenga il miracolo. E finalmente la città cambia, si evolve rapidamente, diventa non la vecchia Millgate, ma quella del futuro, mentre i protagonisti della vicenda vengono riassorbiti nel flusso del tempo e dimenticano tutta la vicenda.
La seconda apparizione di Dio in Philip Dick è un gigantesco occhio che sovrasta la Terra e incendia con il suo sguardo i due pellegrini in ascesa attaccati a un ombrello nel romanzo «L’occhio nel cielo» . Dick qui si mostra molto irriverente verso la stramba religione babista, e anche Dio quindi ne fa le spese. Ma bisogna capire (e lo si può fare solo leggendo tutto il romanzo) che quel “dio-occhio” esiste soltanto in uno dei possibili mondi.
Si possono già notare in questi due “incontri” alcune tematiche ricorrenti nell’analisi di Dick, a cominciare dalla questione della teodicea, ovvero: perché se Dio è buono permette il male nel mondo?
I romanzi «Le tre stimmate di Palmer Eldritch» e «Ubik»  sono pieni di riferimenti teologici e filosofici. Nel primo non troviamo solo l’esplicita sfida tanto spesso citata («Dio promette la vita eterna, noi possiamo metterla in commercio»): viene avanzata più volte l’ipotesi che la misteriosa entità che pare essersi impadronita di Eldritch sia, se non Dio stesso, qualcosa di divino. C’è soprattutto la terrifica visione del 1963, il volto malvagio che riempiva il cielo e che ispira  il romanzo; è lo stesso Dick a mettere in mezzo l’essere supremo: «Era immensa, riempiva un quarto del cielo e aveva scanalature vuote al posto degli occhi. Era metallica e crudele e, cosa peggiore di tutte, era Dio»  (così Sutin 1990, p. 151; vedi la bibliografia in coda). Un discorso simile riguarda Ubik; questa  forza che preserva la vita è chiaramente analoga a Dio: per il suo nome (dal latino ubique, che è la radice di ubiquità, uno degli attributi del Dio cristiano), per le sue funzioni e, più esplicitamente, per l’epigrafe dell’ultimo capitolo, che richiama l’inizio del Vangelo di Giovanni, «All inizio era il Verbo». In entrambi i romanzi l’esplicito riferimento alla merce e al capitalismo rendono vacuo il discorso teologico, tutto viene ridotto a icona, e la paura è piè che altro verso un feticcio ammantato di superstizioso timore ancestrale. I personaggi non riescono a scoprire alcun significato finale, alcuna spiegazione onnicomprensiva, e Joe Chip quanto incontra Jory si rende conto che dietro a quella realtà non c’è nulla.
Anche «La fede dei nostri padri», scritto nello stesso anno (1966) di «Ubik» , potrebbe essere letto in modo analogo, anzi in modo forse ancora più radicale. In «La fede dei nostri padri» il rigetto della metafisica pare mettersi al servizio di una critica estrema del potere, la malvagità di Dio essendo direttamente al servizio dell’oppressione politica di tutta l’umanità: «Era un globo sospeso nella stanza, con cinquantamila occhi, un milione di occhi… miliardi: un occhio per ciascuna cosa vivente, mentre attendeva che ciascuna cosa cadesse, per poi lanciarsi su di essa, immobile e frantumata al suolo. Per questo motivo aveva creato le cose, e Chien lo sapeva; capiva. […] I morti vivranno, i vivi moriranno. Io uccido ciò che vive, e dò vita a ciò che muore. E ti dirò  una cosa: ci sono cose peggiori di me. Ma tu non le incontrerai, perché per allora io ti avrò  ucciso. Adesso ritorna nella sala da pranzo e preparati per il pasto. Non chiederti che cosa sto facendo; lo faccio da molto prima che esistesse un certo Tung Chien e continuerò a farlo per molto tempo».
Tre tappe successive segnano il rapporto fra Dick e Dio: nel 1976 venne pubblicato l’articolo (o il saggio, se preferite) «Uomo, androide e macchina»; nel 1977 ci fu il discorso di Metz; e nel 1981 uscì «VALIS».
Quest’ultimo romanzo è incentrato sull’amicizia fra un alter ego letterario dell’autore, che come lui fa lo scrittore e come lui si chiama Phil Dick (l’io narrante del romanzo), e un perdigiorno sballato di nome Horselover Fat che è il vero protagonista. Fat è convinto di essere stato contattato da Dio, o meglio da una rete di intelligenza divina chiamata VALIS (Vast Active Living Intelligence System); quest’ultima avrebbe scaricato nel suo cervello un enorme quantità di informazioni che Fat non sa come interpretare, e per questo chiede l’aiuto di Phil. Buona parte del romanzo è una tragicomica indagine teologica che funziona come un giallo: Dio è lo scomparso e i due detective dilettanti devono rintracciarlo, decifrando gli indizi più improbabili. Come sempre accade nei romanzi di Dick, esiste anche la possibilità che VALIS sia una truffa e che Fat sia semplicemente impazzito di dolore per il suicidio della sua amica Gloria. Nella migliore tradizione narrativa americana, poi – che risale a Henry James e prima ancora a Hawthorne – non c’è da fidarsi neanche del narratore, perché Horselover Fat potrebbe essere null’altro che la metà di una personalità schizoide scissa, quella dello stesso Dick, autore del libro. Phil allora sarebbe la sua metà ragionevole e letteraria, mentre Fat corrisponderebbe a quella sballata e mistica. L’inchiesta dei due protagonisti è sempre sull’orlo di una rivelazione clamorosa (viviamo nell’illusione di duemila anni di storia? In realtà ci troviamo ancora a Roma nel 70 dopo Cristo, prigionieri dell’Impero che non è mai crollato?) regolarmente smentita o trasformata in una nuova verità della quale la precedente era solo un’ ombra. Inframmezzate alla narrazione troviamo una serie di citazioni del libro che Horselover Fat sta scrivendo, l’Exegesis, commento infinito all’esperienza mistica nella quale Dio avrebbe colpito Fat con un misterioso raggio rosa, versione psichedelica delle visioni dei mistici cristiani. I frammenti altro non sono che parti della «Exegesis» che Dick stesso aveva scritto cercando di decifrare le proprie esperienze mistiche (o psicotiche?) del febbraio-marzo 1974. Ma questi frammenti complicano il romanzo, nella misura in cui implicano l’idea che Phil Dick sia l’ invenzione di Horselover Fat (quest’ultimo nelle primissime pagine sostiene di stare scrivendo in terza persona per dare oggettività alla propria vicenda) e non viceversa.
Dunque tutte le letture di Dick che lo interpretavano come anticapitalista, antiborghese e anche un po’ ateo irriverente sono sbagliate?
Vediamo se qualche altro passaggio dickiamo ci aiuta o capire o magari ci confonde ulteriormente le idee.
Una seduta dal dentista può essere un buon momento per incontrare Dio, soprattutto se sei sotto l’effetto dell’etere, come raccontava Dick, il quale lo vide come una commistione di colori, fra l’arancio e il blu. Il  2-3-74 Dio era entrato direttamente nella sua vita: «Per diversi anni avevo sentito in opera, segretamente, forze divine che mi guidavano, mi proteggevano e mi aiutavano. Ma nel 2-3-74 io le vidi». (Così nel primo capitolo di «Pursuit of Valis»).
Come non pensare all’esperienza analoga vissuta dallo psicologo svizzero Carl Gustav Jung, e di cui Dick apprezzava passionalmente le opere, tanto da consigliarne caldamente la lettura ai giovani scrittori di fantascienza? E come non ricordare l’uso dell’ I-Ching nella stesura del romanzo «La svastica sul sole» (il titolo originale era invece «The Man in the High Castle») quando lo stesso autore raccontava di essersi ritirato in clausura e di aver messo su carta solo i nomi dei personaggi e di aver chiesto all’oracolo come farli muovere? E l’oracolo aveva pure risposto bene, tanto da dirgli tutto e raccomandargli, attraverso gli esagrammi che man mano uscivano dalle monete, quali personaggi dovessero incontrarsi e quali avrebbero invece avuto la visione netta che la realtà in cui vivevano fosse falsa, come il signor Nobosuke Tagomi.
Jung ne aveva studiato per primo in modo scientifico e preciso tutti i risvolti, arrivando a sostenere non solo precise ricorrenze psicologiche ma che addirittura nel mondo non potessero esistere coincidenze, introducendo il concetto di sincronicità, desunto dalle ricerche del fisico tedesco Wolfgang Pauli, che di lì a poco avrebbe reso noto al mondo scientifico l’esistenza dello «spin» degli elettroni, causando un profondo scompiglio e portando Einstein a rivedere la propria teoria della relatività sotto una nuova luce, introducendo le equazioni di campo e la teoria degli orbitali.
Dick ci insegna a non credere alle coincidenze, proprio come suggeriva Jung, il quale affermava, rispondendo candidamente alla sagace affermazione di Albert Einstein «L’universo è perfetto e conchiuso, Dio non gioca a dadi», che «Probabilmente lo fa, ma non sappiamo con quali regole». Ecco dunque come una esperienza d’incontro con Dio si trasforma in realtà nel rapporto dialettico fra un «noi» non meglio definito e in continua mutazione con l’«Altro» che non implica una personificazione divina, semmai un senso ulteriore come potrebbe essere il rapporto del regolamento degli scacchi con la scacchiera medesima.
Il romanzo «VALIS» si apre in modo quasi parodistico e molto irriverente. Il problema della teodicea come è posto da Kevin con la sua irresistibile tirata contro Dio – il gatto morto tirato fuori da sotto la giacca e le invettive a Dio perché l’ha lasciato morire – e l’unica difesa di Dio che David tira fuori David:  perché il gatto era stupido. Tutto questo può far pensare che siamo ancora dalle parti di «Ubik». Ma basta che il romanzo prenda ritmo, e il divino travolge tutto, i dubbi di Kevin e il buonsenso di Phil, e anche noi atei che amiamo Phil Dick dobbiamo arrenderci; nel terzo capitolo di «Valis» dice così: «se accettate la possibilità di un’entità divina non potete negarle il potere dell’autosvelamento; ovviamente qualsiasi entità o essere degno del termine “dio” possiederebbe senza sforzo questo potere. Il vero problema (come lo vedo io) non è: perché le teofanie? ma: perché non ce ne sono di più? Il concetto chiave per spiegare la cosa è l’idea del deus absconditus, il dio nascosto, segreto, sconosciuto. Per qualche ragione Jung considera questa un idea malfamata. Ma se Dio esiste, deve essere un deus absconditus, con l’eccezione delle sue rare teofanie; altrimenti non esiste per niente».
Forse la metafisica di Dick è particolare, poco mistica e molto razionalista. Dick ama il deus absconditus perché solo un Dio che si nasconde consente di giocare a nascondino con lui, di farsi incastrare dai suoi trabocchetti, di provare a porgliene a nostra volta. Fra i mistici del passato Dick cita Meister Eckhart e Jakob Böhme, non Giovanni della Croce o Teresa d’Ávila. Perché il Dio che gli piace certo lo salva, gli svela la malattia nascosta del figlio Christopher, lo conforta e lo assiste, ma soprattutto gli consente di cimentarsi con i giochi da filosofo “dilettante” che egli più ama, gli fa provare il brivido del regresso all’infinito come Achille che non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga con uno scarto dimensionale che la filosofia greca ci aveva abituato grazie al buon Zenone di Elea.
Nel suo lavoro di ricerca sulla «Exegesis», Sutin ha trovato una teofania che lo ha particolarmente colpito, tanto da riportarla sia nell’edizione di brani scelti dall’opera segreta di Dick, sia nella biografia («In Pursuit of Valis», primo capitolo pagg. 45-51; Sutin 1990, pp. 300-304: la citazione che segue è da quest’ultima). «Dio si manifesta a Dick il 17 novembre 1980. Non era un Dio straniero, ma era il Dio dei miei padri. Era affettuoso, gentile e aveva una sua personalità». Sono pagine molto belle (una visione dickiana un po’ favola e un po’ elegia meditabonda, scrive Sutin) e gettano una luce indiretta sui processi della creatività di Dick.
Dio gli dice infatti: «Io sono l’infinito. Ti farò  vedere. Dove io sono, c è l’infinito; dov’è l’infinito, io sono. Costruisci sistemi di pensiero grazie ai quali capirai la tua esperienza del 1974. Scenderò  in campo contro la loro natura cangiante. Pensi che siano logici, ma non lo sono: sono creativi, all’infinito».
Per Dick, Dio è il vuoto infinito. È l’essenza stessa del dubbio e della ricerca. Dick aveva bisogno di comprendere quegli eventi, che erano la chiave di volta della sua vita, ma non poteva comprenderli se non riepilogando tutta la sua attività di scrittore, di inventore di trame, personaggi, situazioni, ipotesi sul mondo e sulla storia. A questa attività potenzialmente infinita egli diede il nome di Dio. È un nome ambiguo, certo. Un nome equivoco, che ha coperto nefandezze, iniquità e oppressioni. Ma per Dick era il nome dell’amore e delle infinite possibilità della mente umana. Era il Dio di Spinoza, più che quello di Pascal. È un Dio che possiamo comprendere anche noi atei (così Antonio Caronia e Domenico Gallo in «La macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana» – alla voce «Dio»  – edizione Agenzia X, 2006).
In realtà, il buon Philip, da inconsapevole seguace di Dante, ha percorso a spirale le sue cantiche, parlando incessantemente con tutti i suoi personaggi, con alcuni provando una grande affinità, con altri un aperto contrasto mentre altri ancora erano persone della sua vita di cui aveva fatto a meno o che odiava moltissimo come il governo e la Cia.
Alla fine Phil ha sperimentato pure la condizione dei beati, arrivando a comprendere che è l’essere per gli altri, l’amore e l’attenzione verso i bisogni dell’altro, a essere la vera chiave di volta di tutto, non il freddo e vacuo razionalismo e tantomeno il fideismo della morale da schiavi, contro cui si scagliava violentemente Friedrich Nietsche.
L’interesse che Phil Dick condivideva con Carl Gustav Jung non solo per l’I-Ching ma anche per lo gnosticismo, porta a considerare come in realtà lo scrittore californiano non fosse altro che un presocratico alle prese con le idee platoniche e in continua discussione con Socrate in qualche caffetteria malfamata all’angolo della strada. Ad averlo capito perfettamente è stata nientemeno che Ursula K. Le Guin, che con Phil condivideva non solo una K. nel nome, ma un approccio molto antiutopico per analizzare il reale: fu lei a definirlo «il Borges statunitense».
Grande scrittore metafisico, Jorge Luis Borges definiva la filosofia e la teologia come due branche della letteratura fantastica, due generi splendidi, mostrando apprezzamenti per gli infiniti attributi di Spinoza e le architettoniche costruzioni di Cartesio. E come Philip, mostrava che l’universo, che altri chiamano la biblioteca, non è altro che un sistema di stanze esagonali, esistenti «Ab aeterno» in pieno rispetto dei canoni gnostici, in cui è possibile l’esistenza di ogni libro pensabile, quindi di un sistema periodico e ricorrente, infinito anche se finito, circondato dall’anello più esterno che è il Dio inconoscibile, mentre gli arconti, gli dèi minori dello gnosticismo, ritengono se stessi divinità pur essendo anche loro figli del deus absconditus, gettati in questa biblioteca che ritengono di dover preservare.
Ecco dunque come il cerchio si chiude e l’esperienza del divino assume in Philip K. Dick la cifra del «Lord» dell’empirista inglese George Berkeley, il quale riteneva che un’intelligenza superiore fosse alla base di ogni possibile conoscenza, che la realtà esterna non esistesse e che in realtà tutto fosse segno della volontà di un qualcosa che l’essere umano non può esperire, proprio perché è la base stessa della conoscenza sensibile. Dunque anche il tempo non esiste.
Philip Kindred Dick alla fine non era né un ateo militante né un fanatico religioso, ma un filosofo che ha usato non solo la fantascienza per illustrare la realtà nei suoi recessi più profondi e tremendi, non senza lasciare aperta una via alla vita etica e felice.
Esattamente come fecero Socrate e Platone, ben lontani dall’essere religiosi e rispettosi delle divinità della  polis greca: il Demiurgo platonico non è Dio, ma l’intelligenza umana che forma la realtà nel processo di conoscenza, illuminato dall’idea universale del bene e della giustizia, rese perfette dall’Amore.
L’amore che Dick, qui in relazione all’«ama il prossimo tuo con tutta la tua anima e con tutte le tue forze», davvero cercava di portare avanti.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
A parte la fondamentale e monumentale opera dei bravissimi Antonio Caronia e Domenico Gallo («Philip K.Dick La macchina della paranoia», Agenzia X, 2006) ecco una bibliografia – ampia ma inevitabilmente parziale – di saggi su Dick.
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Bordoni C. (2005), postfazione a P.K. Dick, «Lotteria dello spazio», introduzione e cura di C. Pagetti, traduzione italiana D. Gallo, Fanucci.
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(*) Due brevi note.
Anzitutto mi permetto un’aggiunta alla bella bibliografia: secondo me è imperdibile, addirittura geniale l’opera intitolata «Philip K. Dick» – ovvero «la biografia a fumetti di uno dei più grandi scrittori di fantascienza» – di Francesco Matteuzzi e Pier Luigi Ongarato (pubblicata da Becco Giallo nel 2012 e già entusiasticamente recensita in codesto blog).
La seconda nota riguarda la confessione “dal sen sfuggita” a Melodia che, con la sua autorizzazione, riporto: «eccolo finalmente, perdona la lungaggine ma è una mezza sfida con me stesso, anche a causa del fatto che mi suscita ricordi ancestrali, risalenti al rifiuto che i miei professori opposero alla proposta di laurearmi su Dick con la motivazione “Ma non è un filosofo”… Quindi l’articolino è stato steso con molta gioia e un pizzico di terrore. La bibliografia è composta da titoli che sono tutti in mio possesso e che in questi giorni ho girato e rigirato tra le mani, prima di buttarmi nella folle corsa… E i miei prof mi avevano s/motivato ulteriormente dicendomi “non trovi bibliografia” e alla mia replica “la costruisco io nel cammino” avevano alzato le spalle… Che vadano…».

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