Sette suggestioni sulle opere di Yerka -2: L’Agguato

di Mauro Antonio Miglieruolo

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“O la borsa, o la vita!” gridai con il vigore della disperazione, dopo le cento e cento volte che l’avevo pensato e poi urlato, senza risultare convincente. Afferrai un coltellaccio, lo puntai davanti a me e nuovamente contro l’immagine di ferocia poco credibile che occupava i frammenti dello specchio. Ne mancavano un paio di spicchi, il resto una ragnatela di fenditure. Non facevo una gran figura in mezzo ai risultati di quell’antico crepitare di vetri.

Andava bene comunque fosse rotto. Almeno non riproduceva fedelmente la stanza alle mie spalle, il tutto macinato di oggetti guasti oppure obsoleti. Vecchi arnesi, vecchi attrezzi, superati dai quelli ultratecnologici portati dagli invasori. Niente vendemmie, mietiture, raccolte delle olive, soste al chiaro di Luna, passeggiate nel bosco, dopo di loro. Non donne che cantavano. Uomini sudati attaccati alle zappe, alle pale, alle scuri, facendo aahan! ahann! han! Ogni colpo di scure frammenti di legna che volavano attorno. Da un giorno all’altro tutto disperso. Le pratiche, le abitudini, la comunità intera. Erano arrivati i Galattici (con la maiuscola, come pretendeva d’essere definiti) con le collanine di vetro, gli smart, le telecamere di sorveglianza, i paralizza tori al plasma e gli anelli al naso… ma anche agli orecchi, sul pancino, o in altre parte inattendibili e poco urbane. In un batter d’occhi la montagna, colonizzata attraverso dissennati e logici e necessari secoli di sacrifici e schiene spezzare dalla fatica, era tornata preda della natura primordiale.

Tutti fuggiti per un qualsiasi altrove civilizzato, a far da schiavi ai Galattici, con la speranza, non sempre concretizzata, di migliorare la propria vita. Solo IO ostinato aveva rifiutato la soluzione, perseverando nel barricarsi dietro la nostalgia e i ricordi. Il ricordo di Lucia, amica dalle lunghe trecce nere, le occhiate fugaci, il modo in cui piegava di lato la testa, il sorriso lieve ogni volta che le recitavo la storia sempre più lunga del mio amore. La casa dove ero nato, piccola, povera, in grado di riassumere tutto ciò che consideravo mio. La vita di stenti, il pane guadagnato con i sudore della fronte, che quello sì valeva la pena mangiare! Avevo resistito a lungo, solo orgoglioso di quella solitudine, infine anche per me era scoccata l’ora della presa d’atto, accertando che in quel modo non potevo continuare.

Purtroppo non intendevo comunque arrendermi. Modificare sì lo stile di vita, i principi, la morale, non piegare la testa di fronte all’invasore. Non IO, non il pazzo fatto e rifinito, compatito dai compaesani, pregando ognuno che non mi ostinassi, avrei fatto una brutta fine. Anche mia madre, convinto avrei fatto una brutta fine. Sempre il naso ficcato nei libri, perché non esci e giochi a sopraffare il prossimo, come fanno tutti? Io non ero tutti, certi giochi non mi piacciono. Stare nei libri invece sì. La casa dei libri è quella più sicura. Sì, era tutto quello che volevo. Stare nei libri. Qualunque cosa pur di non piegare la schiena davanti ai Galattici. O forse avrei dovuto dire, piegare la schiena di fronte alle prove della vita? Lucia aveva sposato un altro. Se n’era andata a far da serva ai galattici. Tutti se n’erano andati. Ero rimasto solo io. Solo nella mia solitudine. Eremita per scelta e per costrizione.

Ma IO ero IO, comportamenti differente non potevo tenere, nemmeno riuscire a immaginarli. Non farmi capire, come non ero riuscito a farmi intendere da Lucia, non adattarmi al nuovo infernale della civiltà incivile portata dai barbari dello spazio.

“La borsa, o la vita!” tornai a gridare, il coltellaccio sollevato per colpire.

Suonava un po’ meglio, c’era stato un progresso, constatai compiaciuto. Il pensiero dei Galattici aveva stimolato la mia determinazione. “La borsa, o la vita!” esplosi.

Bene, in quel modo andava bene, risultava credibile. Se prima di aggredire avessi lasciato balenare il ricordo di ciò che i Galattici avevano commesso a danno della colonia, ero sicuro che sarei riuscito a intimorire adeguatamente la vittima prescelta.

Restava da capire del perché di quei preparativi, qual’era l’impulso effettivo al quale soggiacevo. Di cosa andavo in cerca? Volevo forse una vita, la prima mi fosse venuta incontro? E quale oscura vendetta allora intendevo consumare? O erano invece i soldi della vittima a interessarmi, per approdare a quella sorta di autocorruzione con aggravante che era la rapina? Poteva anche essere, bisognava metterlo in conto, che fossi io il destinatario di tutto quel plateale atteggiarsi e prepararsi. Per farmi bello ai miei stessi occhi, pagando uno scotto; per assurgere nella considerazione della comunità, una comunità che mi aveva sempre osservato con un certo scetticismo, al rango di eroe. Vile è colui che ritiene di dover comprovare il proprio coraggio. E diviso chi finge di ignorare che non è mai uno, ma è mille. E che per poter essere quell’uno deve ammettere in se quei mille; e gli altri milioni denominati prossimo.

La figura nello specchio non è l’unica con la quale mi rendo conto di me stesso. In atteggiamenti meno plateali la posso scorgere nello specchio d’acqua dell’abbeveratoio. La deduco dall’ombra che si allunga e sembra volersene fuggire. La percepisco nell’affanno con il quale salgo le scale; e non sembro uno, siamo in dieci ad ansimare, a estrinsecarsi in sibili e colpi di tosse. In realtà nessuno mai è veramente solo, sono mille quelli che lo accompagnano. Essere soli non esiste, è un mero sentire. Bisognerebbe tutti gli uomini non ci fossero per essere tali. E forse neanche allora.

Non stetti  perdere ulteriore tempo nei pensieri e nei preparativi. Bisognava mi affrettassi. Non sarei riuscito a resistere ancora a lungo nel villaggio. Soltanto nuove risorse avrebbero potuto garantirmi la sopravvivenza. Risorse che speravo di recuperare da qualcuno di quelli che ce li avevano bruscamente tolte, i Galattici. Misi insieme il poco che poteva risultarmi utile e mi avviai. Sacco in spalla.

Organizzai nel seguente modo il sacco. La spinta immateriale della disperazione a far da base alle provviste; sopra la forza che mi aveva sempre fornito l’essere in solitudine, una solitudine, moltiplicata negli ultimi mesi. Sopra ancora i beni essenziali che mi erano avanzati. Il coltello, una incerata, il lettino da campo (non era abituato a dormire sulla terra nuda), alcune bottiglie d’acqua, una barretta di cioccolata… quel poco del tanto accumulato durante il periodo d’oro dell’abbondanza e che doveva bastare (confidavo bastasse) il tempo necessario a portare a compimento l’agguato. Fui indeciso esclusivamente su un particolare. Se portare con me il largo cappello in feltro anodizzato che mio nonno aveva portato dal pianeta madre. Ci pensai su e lo lasciai dov’era. Attaccato al battente della camera da letto, unica superfice di una certa ampiezza sopravvissuta all’attacco dei Galattici. Sì, lo lasciai dov’era.

Raggiunsi il luogo dell’appostamento poco dopo il tramonto. Non faticai a trovarlo, nonostante gli invasori avessero modificato l’orografia del territorio. Pezzi di montagna fatti saltare, ponti tra l’uno e l’altro declivio gettati, vecchie case coloniche rase al suolo, nuove montagne edificate. Il tutto per fare spazio a una grande spianata utile ai bisogni commerciali dei Galattici.

Era stato necessario costruirla, necessità condivisa da tutti. Gli stessi coloni cacciati dai villaggi parevano averne accolte le ragioni. Astronavi trasporto carichi di preziose merci galattiche dovevano atterrarvi. Dovevano partire, tornare, di nuovo partire, affinché la macchina infernale del Potere chiamata Libero Scambio potesse ancora macinare uomini e cose, per produrre sudditi. Un scopo troppo importante, vitale, benessere e felicità, per lasciarlo in balia di poche decine di migliaia di indigeni, i quali ignoravano cosa fosse stare al mondo, il carico di doveri che vivere comportava. L’astroporto perciò, nonostante le ribellioni, era stato costruito, il commercio salvato. Il benessere però non era arrivato. Aveva fatto prima a arrivare la distruzione per il villaggio, insieme ad altri villaggi fonte della ribellione. Quel benessere ora, se pure avesse trovata la strada per arrampicarsi in quei luoghi, poteva beneficiare qualche Galattico spartano, innamorato dei luoghi, innamorato dei paesaggi, che decidesse di installarsi in qualcuna delle vecchie case abbandonate. Tra l’altro la posizione era favorevole. Comoda per andare e tonare all’astroporto. E poi con tutti quegli edifici vuoti, si potevano installare postriboli, case da gioco, case per lo spaccio, depositi e uffici govarnativi…

Per arrivare al punto prescelto fui aiutato dai pochi punti caratteristici sopravvissuti alle ruspe e agli esplosivi. In particolare dal cerchio di pini che qualcuno, forse cinquanta, forse duecento anni prima aveva piantato in cima al cucuzzolo di una collinetta laterale. Degli scopi iniziali era perduta la memoria. I miei contemporanei, anche io qualche volta, nei primi tempi dell’adolescenza, l’utilizzavano per amoreggiare protetti da sguardi indiscreti dall’alto e dal basso. All’interno del cerchio, bomboniera di romanticherie, era possibile sia quel particolare occhi negli occhi che, pur essendo già amore, serve a risvegliare l’amore; sia volgere lo sguardo verso le cime degli alberi e scrutare tra i rami le evoluzioni dei satelliti. Riempirsi il cuore di quella finestra sull’infinito.

Il cerchio era rimasto intatto per volontà dei Galattici medesimi. Anche i loro giovani avevano imparato a usarlo. La strada che vi si arrampicava era sbarrata da un pale di legno sul quale era appeso: Zona militare – proibito l’ingresso.

Superai il cerchio di pini. Per affrontare, cento metri oltre,  un lungo dritto pendio che conduceva al luogo scelto per l’agguato. Il luogo ideale per la realizzazione dei desideri oscuri dei malintenzionati. Si trattava di un tunnel lungo alcuni metri, largo in alcuni punti meno di una cinquantina di centimetri, formato dall’elevarsi improvviso di due parete di arenaria. La strettoia poteva essere percorso da una sola persona alla volta. Prima di affrontarlo il viandante dava voce per avvisare a valle, o a monte, che il passaggio stava per essere occupato. Altrimenti poi toccava a uno dei due voltarsi e tornare. E poteva essere che nessuno dei due volesse e che uno solo ne uscisse vivo. Poco centinaia di metri oltre il sentiero si raccordava con la vecchia carrozzabile che collegava le tre antiche ex colonie del pianeta: la marina, quella a mezza costa e la montana, a oltre mille metri di altitudine. Strada e sentiero erano rimaste nelle condizioni precedenti l’invasione. La strada sconnessa, interrotta in più punti dalle frane, un lavoro continuo di pulizia e rifacimento dell’asfalto per mantenerla agibile ai mezzi pesanti; il sentiero invece, nonostante fosse sempre più invaso dalle erbacce e costituisse l’unica via percorribile per chi non avesse la disponibilità di mezzi di trasporto, era abbandonato a se stesso. Ugualmente più di uno si ostinava a percorrerlo. Fare a piedi la strada destinata ai mezzi pesanti che andavano e venivo dall’astroporto comportava, a causa delle curve, controcurve e tornanti da cui era costellata, almeno 4 ore di cammino per arrivare a destinazione. Il sentiero, per chi avesse buone gambe, permetteva invece di andare e tornare in un’ora o poco più. Nonostante l’indubbio vantaggio erano pochi quelli che vi si avventuravano. I coloni non più, erano altrove. Solo qualche Galattico, che durante le ore di libertà scendeva a valle per divertirsi un po’ nei locali a luci rosse spuntati come funghi al loro arrivo; o coppie alla ricerca di un luogo tranquillo in cui sostare, salendo al vicino cerchio dei pini.

Le lune in cielo, spuntate in una favorevole congiunzione, offrirono il chiarore necessario per la sistemazione. Mia e della trappola. Pioveva ma l’intensità della doppia luce lunare riusciva a penetrare la coltre di nubi abbastanza da permettere di orientarsi. Disposi in fretta il lettino, prima che la seconda luna, più veloce, compisse il suo arco veloce nel cielo. Sopra il lettino disposi la tela incerata, quattro pali per tenerla larga e alta sul leggero declivio dove mi ero sistemato. Alcuni sensori a valle, per avvisare in tempo, l’arrivo di un qualche viandante. Dopodiché scostai la tela che scendeva a coprire il lettino fin quasi a terra e mi abbandonai al sonno. Un sonno agitato, nel quale cercavo me stesso, nascosto da qualche ignota parte del non so dove.

Mi svegliò una prima volta il ritorno della seconda luna. L’intensificarsi del chiarore improvviso, come fosse l’alba… Accidenti, bofonchiando! Di solito sarei andato all’aperto, a guardare le lune che si rincorrevano. Pioveva, ero stanco, lasciai perdere. Mi girai sull’altro fianco e mi addormentai di nuovo. Senza coscienza di sogni, questa volta.

In prossimità dell’alba fui nuovamente svegliato. Dai sensori che, ronzio lieve di mosca infastidita, segnalarono la presenza di qualcuno che arrancava ansimando in direzione del passo. Aveva fretta, a quanto pareva dall’ansimare. Un Galattico, certamente. Solo un galattico, non abituato a quei luoghi montuosi, poteva respirare in quel modo a causa di una piccola salita. Un galattico e un indigeno come io ero, perennemente perso dietro ai libri o seduto sul ramo di un albero intento a scrutare l’orizzonte e sull’oltre l’orizzonte sognare.

Aveva smesso di piovere. La luce fioca emergente annunciava che, pochi minuti ancora, sarebbe stato giorno. Il momento era dunque propizio per l’agguato. Mi nascosi dietro un cespuglio e attesi.

L’invasore continuò a salire, ma a una decina di metri dal passo si fermò. Aveva un largo cappello in testa, un cappellone adatto a proteggersi dall’acqua ma anche dal sole rovente dei mezzogiorni delle nostre parti. Se lo tolse e prese a batterlo nervosamente sul fianco. Lo riconobbi. Il cappello di mio nonno. Ladro! Esclamai dentro di me, sprezzante infuriato.

“Chi è là?” interrogò il viandante.

Come aveva fatto a accorgersi della mia presenza? Lo udii tossire. Gli replicai con un colpo di tosse. Imprecai.

“Che cavolo!” lo udii esclamare. La medesima esclamazione appena fiorita sulle mie labbra.

Saltai furori esibendo il coltellaccio, a squarciagola recitando il mio improbabile “La borsa, o la vita”. In vena di tentare il tutto per tutto. Non possedevo altra possibilità, ormai.

Non scappò, come temevo, sarebbe stato tragico l’inseguimento su quel viottolo pieno di sassi. Si fece avanti, invece. Aguzzando lo sguardo riuscii a intravederlo nonostante i residui di oscurità.

Dalla ferocia obbligata di quegli istanti riuscii finalmente a prendere atto che non era per rapina che mi ero mosso. Neppure per vendetta. Per farla finita con me stesso, con il mondo nel quale non ero riuscito a adattarmi. E invece sempre fuggire. Fuggire da me stesso, dai sentimenti, dal prossimo, cioè dalla promessa di pace. La scelta era tra quella ferocia oppure il perdono.

Ma nessuna cosa, ormai forse scelta più non avevo. Dietro le montagne il chiarore inequivocabile dell’alba. Non più ristoro della notte, la luce minacciava di intralciare i miei piani. Era in ogni caso sufficiente per identificare l’individuo che mi veniva incontro. Incurante del balenare della lama del coltellaccio stretto con forza tra le mie mani. Lo stesso io, incurante di ciò che gli vedevo brillare nel pugno.

Non si trattava di una Galattico. La pelle bruna, il naso aquilino, i cernecchi, rendevano improbabile lo fosse. Anche l’espressione, la paura incombente, la pietà a cui rinviava. Dove poteva mai andare quel povere retto con quella specie di disco formato in testa, che nemmeno Don Chisciotte in persona avrebbe indossato?

Diedi due passi, accostai il viso. Improbabile anche quello. Non uno, molti improbabili. I lineamenti erano simili a quelli che avevo adocchiato più volte nello specchio. Nel simile di tutti gli uomini, ognuno il ritratto dell’altro. Solo senza cernecchi. Me l’ero sognati i cernecchi. Oppure poteva essere che qualche mio antenato li avesse avuti. E avesse deciso di venirmi a visitare proprio in quel momento.

Ah! il buio, la cecità connaturata, permettono di veder molte cose; altre di ignorarle.

“Antonio!” esclamai stupefatto. Incredulo.

“Antonio!” si meravigliò incredulo. Stupefatto. Era venuto a portarmi il cappello, e non lo sapeva!

I coltelli ricaddero di lato, la mano abbandonata sul fianco. Fu lo stesso che una magia, o il miracolo. Due passi ancora e ci toccammo. Ombra che tornava.

Restai solo, come credevo di essere sempre stato. E non era vero. Io ero con me e sempre lo sarei stato.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.