Sette suggestioni sulle opere di Yerka – 8: Atlantide

(Appendice)

Di Mauro Antonio Miglieruolo

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Sono tante le isole, tante quanto i pensieri e le illusioni. Nel numero dei ricordi, milioni, milioni di milioni, il peso d’infinite vite e d’una sola. Sogni e chimere come granelli di sabbia, come la polvere che attraversa il fascio di luce nella stanzetta tua d’adolescente ostruita dalla penombra; ogni essere dotato di inventiva possiede un baule inesauribile di paesaggi, città e realtà costruite a propria immagine e somiglianza che si porta dietro incurante di appesantirsi. A costo di condurre al fallimento l’azienda cosmica definita uomo. Ognuno con le proprie fatiche, concludente e inconcludenze.

La mia personale, non certo brillante, è l’azienda di qualcuno vissuto perennemente sottacqua, rannicchiato all’interno di una sua minuscola Atlantide. Mi sono salvato sprofondando anch’io, come chiunque, sprofondando nei sogni, sprofondando nelle speranze lievi delle illusioni, in quella sorta di perenne dormiveglia che è la realtà del mondo. Per raggiungerla ho sacrificato tutto il resto, la possibilità stessa di svegliarmi e guidare me stesso nella perenne attraversata del mar Rosso cui sono obbligati gli esseri senzienti. Ho il sospetto infatti di non essere il solo a lasciarsi guidare dal simulacro di quell’epoca primordiale che ha anticipato l’anomala civiltà di oggi. Atlantide, isola ideale e metropoli, tutta bellezza e decoro, essa è e sarà sempre nel cuore degli uomini. Atlantide, sintesi degli ordinari aneliti che sottendono l’esistenza, parte dell’esistente e necessario e imprescindibile affinché il trascendente possa penetrare l’immanente. Atlantide, per come era ed è terminata, di per se stessa è sogno, è cuore e intelletto, è ragione ed è passione, conforto per il pianto di cui sono pieni gli uomini, tutti gli uomini. Dopo mille e mille anni seguiti al disastro, dopo l’inabissarsi (il sepolcro delle acque), che metteva fine all’età d’oro, ancora la si ricorda. In essa si riflette l’altro disastro, effetto innumerevoli di terremoti, incendi, inondazioni, violenze e inganni, che ha prodotto la dissoluzione dell’iniziale solidarietà e unità dei fratelli. La sua fine è stata la fine simbolica di una storia, una grande storia, la cui perdita non ammette rassegnazione. Nel nome di Atlantide si mantiene vivo il bisogno dell’unità e delle bellezza, il filo sottile che lega ogni uomo a tutti gli uomini e tutti gli uomini alla terra. Si mantiene in me, atlantista dell’impotenza, delle voci attutite e delle porte chiuse, che ne rendo testimonianza, qui è altrove, in ogni ambito mi sia possibile riportarla.

Suggestionato da questo bisogno, che alimentava sottilmente la voglia di sfondare le porte chiuse, collocai sotto il braccio una cartella e mi aggirai alla cieca per la città. Sia per certificarne l’esistenza, utilizzando le proiezioni mitiche che l’arte ha deposto sulla carta; sia per ritrovare me stesso nel me stesso presente negli altri. Non dico le difficoltà, incomprensioni e le fatiche di quei primi giorni. Accenno soltanto. La gente non faceva altro che domandare. Che vuole lei? Assumendo il caratteristico piglio inquisitorio. Non volevo nulla. A parte un tetto, vestirmi e sfamarmi. Non altro. Ma poiché l’interlocutore non era il Vossignoria qualsiasi al quale inchinarsi e chiedere “Vossignoria ho fame. Vossignoria mi sfami”; ugualmente inchinandomi rispondevo, quel che voglio io poco importa. Importa quel che lei vuole. Sorridevano scettici. Uno scetticismo che attenuava solo dietro l’esibizione di ulteriori immagini. Gli intelligenti suggerimenti dell’arte, concretizzati da un’artista, determinavano una seduzione impalpabile alla quale pochi resistevano.

Lo scetticismo iniziale smise ben presto di occupare il proscenio. Si fece avanti allora la curiosità, le domande differenziandosi. La più difficile alla quale rispondere fu: come mai questa sua Atlantide assume sempre forme differenti, qualcuna anche brutta? Domande che mascheravano timori, dubbi e scetticismi residui. Valeva o no la pena di ammirare? spostare in avanti gli orizzonti? Scuotersi dal torpore che garantiva l’attuale esistenza? Ed io cosa potevo rispondere? Risposi. Che altro modello al momento non era possibile concepire, l’artista non ne forniva, tutti noi disuniti non alimentavamo a sufficienza la sua inventiva con la nostra. 

Un lavoro improbo, occorre crederlo. Lo continuai per sopravvivere, forniva il necessario per non sprofondare nella desolazione.

Oggi che la pazienza dei troppi anni non mi concede più d’essere peripatetico nelle nostre disastrate vie, e pessime vite, non mi resta che l’estrema soluzione di un ultimo tentativo, esporre su queste pagine la seducente ed enigmatica e misteriosa ed affascinante capacità di Yerka a far da catalizzatore. Con una e più Atlantidi Gioconda a rallegrare i cuori.

Eccole:

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Con questo ultimo post saluto (un saluto provvisorio) coloro che hanno deciso di seguirmi; e invito gli altri che si trovassero a passare da queste parti a soffermarsi un attimo, non avranno che da trarne vantaggio. Non tanto in ragione dei miei poveri scritti, ma per le incomparabili immagini che li hanno ispirati.

Arrivederci alla prossima. Non ho alcuna intenzione, salute permettendo, di desistere.

Mauro Antonio Miglieruolo

 

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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