Si scrive «No Tav» ma si legge «una valle pedagogica»

recensione/riflessione di Giuliano Spagnul intorno a «Cattivi e primitivi» di Alessandro Senaldi

Il titolo di questo importante libro sul movimento No-Tav in Val di Susa – «Cattivi e primitivi»- di Alessandro Senaldi, uscito per Ombre Corte nel settembre di quest’anno, si può intendere sia come separazione tra i cattivi che vengono da fuori a portare la violenza e i primitivi del posto che si fanno irretire e plagiare in comportamenti che altrimenti non li contraddistinguerebbero; sia come unione, cioè quegli abitanti della valle che sono cattivi oltre che primitivi. Che sia da favorire più la seconda interpretazione tutto l’impianto del libro lo porta a credere, nell’evidenziare dal principio alla fine il carattere eminentemente pedagogico della valle tutta: abitanti, istituzioni, la propria storia, perfino la natura. Il movimento che lì si esprime non è quello carsico a cui eravamo abituati fino a Genova 2001 (e di cui oggi si stenta a vederne pur semplici rivoli) ma è qualcosa di duraturo “che orienta e accudisce le giovani generazioni, le fa crescere ed infine le conduce fino alla propria uscita di scena. Un movimento che si inscrive e sovrappone all’esperienza esistenziale dei singoli, arricchendola e fornendogli una nuova dimensione ontologica” (pag 7). Certo, ci sono anche quelli venuti da fuori che portano le loro istanze, conoscenze ed esperienze di lotte in altri contesti; ma non potrebbero avere alcuno spazio se fossero privi di consenso, accoglienza e in definitiva accettazione dopo un preventivo esame non ideologico ma empatico e umano. Un esame che non porta all’arruolamento ma all’inclusione, all’accettazione nel rispetto delle differenze. Nella sua identità multipla il ricercatore attivista Senaldi racconta come “a livello percettivo e relazionale, in tutti i casi in cui sono stato in Valle, non ho mai provato la sensazione di essere marginale per via delle mie idee politiche; anzi mi trovavo stupito del contrappasso per cui nella ‘Rossa Bologna’ mi ero sempre sentito ‘ospite non gradito’, a livello politico, dalla maggioranza dei suoi cittadini. Sensazione che non ho mai percepito invece nel contesto valsusino, anche quando mi muovevo nei luoghi più lontani dai centri nevralgici dell’attivismo, come per esempio i mercati di paese.” (p. 98) Ed è proprio questa accademicamente scorretta identità fra soggetto e oggetto della ricerca a fare da specchio alla prerogativa di quel movimento di avere “una capacità attrattiva della mobilitazione, che riesce a costruire un contesto in cui vengono create quelle (…) ‘nuove forme di riconoscimento sociale’, ossia nuove identità in grado di far sfuggire gli individui ‘a stigmi e immagini sociali svalorizzanti’.1 (p. 179) Per sfuggire alla stigmatizzazione del potere dominante occorre un’identità forte ma non univoca. Occorre insomma fare in modo di non doversi pentire come ha fatto il dottor Jekyll, nel celebre racconto di Stevenson, di aver capito troppo tardi “che non è soltanto una sua anomalia la forte inclinazione a poter essere anche un altro, ma qualcosa che caratterizza tutti gli esseri umani. (…) Egli comprende che è anomalo e certamente distruttivo pretendere di essere in-di-vidui, cioè precludersi la possibilità di poter essere e avere la capacità di vedere più identità nell’unità. Alla fine della storia, il dottor Jekyll sembra capire che è inumano non distinguersi in personalità diverse che coabitano, che non è umano separarsi, stabilirsi per sempre in un’unica identità e scartare la possibilità di essere altro o con l’altro”2 .

E in tutte le testimonianze dei valsusini, di tutte le generazioni, si respira questa possibilità ‘di essere altro’, essere altro da quello che si era sempre creduto di essere: “Cioè io credo che sia proprio una rivoluzione copernicana dall’individualismo al gruppo, alla condivisione, sempre fatto salvo i momenti personali, su questo non ci piove (…) cioè deve esserci un bilanciamento no?! Non so come dire” (p. 53). Essere ‘con l’altro’ ma senza perdersi nell’altro; con una coscienza della tragicità di tanto militantismo che ha caratterizzato le lotte degli anni Sessanta e Settanta da parte di “una sorta di ‘animista’ senza alcuna esperienza politica precedente” come la definisce lo stesso Senaldi. Comunque, dobbiamo ripeterlo ancora, questo è un libro di parte e non solo per il ruolo ambiguo del suo autore, ma anche per la mancata distanziazione fra la narrazione che il movimento fa della propria realtà e la realtà per quella che è. Non citerò l’antropologo da cui ho sentito proferire questa lapalissiana verità ma non posso non riprenderla per osservare come – focalizzando solo la parte della narrazione (quella forse più mitica) in cui ci si reinterpreta nella figura del partigiano resistente, l’essere orgogliosi da parte dei membri di una comunità “di vedere passare uomini e donne che camminavano verso il fronte per difendere la Valle” (p. 78) – sia certo una narrazione ma anche una realtà. Perché se come tale è vissuta non si capisce quale altra realtà potrebbe smentirla. Non c’è una realtà soggiacente che potrebbe metterla in forse. Perché tutte le realtà sono narrazioni; si costituiscono come realtà in quanto narrazioni. C’è sicuramente una realtà che le si contrappone: quella del potere, che in questo contesto si presenta come volontà di dominio puro e che il libro descrive accuratamente nelle sue pratiche di creazione dello stigma del deviante, delinquente, Black Bloc ecc. e di repressione (in concerto tra polizia e magistratura). La narrazione di questo potere è altrettanto reale in quanto ha degli effetti reali. Non c’è mediazione possibile fra questo necrotico sistema di dominio e l’alterità che gli si contrappone. Un’alterità la cui posta in gioco è “la capacità di vincere lo scontro sulla possibilità di ambire a nuove e diverse idee di Sapere, ambito in cui ricade anche la questione dell’informazione, Progresso, idea che definisce quelli che sono gli interessi sociali che la compagine statale deve perseguire, e Democrazia, che incide su quelli che sono ritenuti i processi decisionali ritenuti legittimi” (p. 41). Le forze in campo contro questo movimento sono tante e sono forti, ma non potranno mai farcela fino a che ogni singolo valsusino potrà dire di non sentirsi “mai solo. Mai, mai solo” (p. 157).

NOTA 1: Loris Caruso, «Il territorio della politica. La nuova partecipazione di massa nei movimenti NO TAV e NO DAL MOLIN», Franco Angeli, Milano 2010, p. 99.

NOTA 2: Marco Pacioni, «Neuroviventi», Mimesis Milano 2016, p. 21. Per una mia recensione cfr http://www.labottegadelbarbieri.org/cervello-controllo-corpi/

(*) segnalo una recensione “parallela” di Giuliano Spagnul, al libro «Un viaggio che non promettiamo breve: 25 anni di lotte No Tav»; è qui: Wu Ming 1: molti mondi oltre le colline. Anche l’immagine in apertura è di Giuliano. Del libro di Senaldi in “bottega” ha parlato anche Sandro Moiso; è qui Fuori dal tunnel: cattivi e primitivi. (db)

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