Sicurezza ‘vo cercando: il futuro è un [in] pericolo?

Anche la fantascienza fa i conti con una frase di Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Un percorso di effemme dibbì ovvero Fabrizio Melodia e Daniele Barbieri (*)

Le visioni sul futuro che chiamiamo fantascienza sono importanti perché noi esseri umani siamo sempre divisi fra desideri, curiosità di conoscere da una parte e dall’altra parte paure, timori del nuovo e dello sconosciuto, necessità di controllare l’imprevisto. Desiderare è necessario ma anche un po’ di paura ci serve: non troppa però, il buon senso (ne avete sentito parlare? Ogni tanto compare in qualche strano luogo del mondo per subito celarsi) ci fa capire che una percentuale troppo elevata di ansie blocca l’apprendimento.

Perché oscilliamo più verso i timori o verso le curiosità? Dipende da tanti fattori: la società in cui viviamo e il momento storico, l’informazione, i pericoli reali e/o fasulli ma radicati nel nostro immaginario… Poi dipende dalle persone e dalle esperienze, è ovvio. Se in questo momento a Imola o a Mira atterrasse un disco volante noi scriventi effemme e db andremmo immediatamente a vedere se c’è una scaletta per salire su. Molte/i correrebbero dalla parte opposta perché pensano che la nostra abituale (?) sicurezza sia minacciata.

Coraggio? Paura? Magari è solo adrenalina.

Forse noi suddetti effemme & dibbì non abbiamo timori sugli alieni anche perché sfiduciati dalla gran parte dei terrestri (come dimenticare che siamo cugini alla lontana di Trump o di Hillary Clinton?).

Perché vi focalizzate sulla fantascienza?” obietterà Poldo il pignolissimo: “anche le favole (per restare al fantastico) si sono sempre mosse fra paure e desideri”.

Sì caro Poldo, ma nel secolo che si è concluso appena 17 anni fa, c’è stata una grande novità: la scienza è entrata prepotentemente e di soppiatto nelle nostre vite – prima in alcuni luoghi, poi dappertutto sul pianeta – e con lei la sua “cuginetta” povera e brutta (ma luccicante) che si chiama tecnologia.

Siccome – per ragioni che non vogliamo qui ridurre a sintesi sloganistica – viviamo in una società che NON ci educa alle scienze e alle tecnologie succede che la stragrande maggioranza di noi ne è sommersa, non capisce di scienz/tecn dunque le teme più o meno inconsciamente.

EffeEmme sospetta che in realtà “la gente” non tema la tecnologia ma la avverta aliena: più un qualcosa mi è ignoto o estraneo meno lo capisco e quindi essenzialmente temo che possa controllarmi. E’ una figata di finezza filosofica che nientemeno viene fuori da un tipo in odore di nazismo, Martin Heidegger: per lui tutta la realtà e la sua degenerazione è intrisa della perdita del senso greco dell’Essere, che da Parmenide ai giorni nostri è venuto sempre meno. Tale manifestazione inconscia prende il nome di “nichilismo” (dal latino nihil) a sottolineare come il considerare le cose usabili porti a considerare tutto come un Nulla Alieno.

Non stiamo parlando di Donald Trump e nemmeno di Yog Sothoth (“Il Guardiano della Soglia” di Lovecraft) anche se mister Parrucchino potrebbe essere una delle più complicate trasformazioni di Nyarlathothep, il Caos Strisciante di lovecraftiana memoria.

Dibbì replica che abitiamo in una società tecnoscientifica eppure quasi tutto quello che ci accade intorno, anche se altamente tecnologico, è incomprensibile (ai più) dunque viviamo come in un tecno-vudù (*) insomma una moderna magia. La migliore fantascienza si muove all’incrocio del corto circuito politico e sociale (oltre che narrativo) di codesto tecno-vudù.

Le scienze, come sappiamo (?) sono tante: alcune dure e altre più “morbide”. Così esiste una fantascienza hard – basata su fisica, biologia ecc – ma anche una psicologica (possiamo considerare la psik “una scienza morbida”?) e una fanta-sociologia (ancor più morbida; elastica, direbbero forse i detrattori): da questo vasto magazzino estraiamo un paio di storie per cominciare a ragionare su pericoli e sicurezza (**).

Nel racconto un ragazzo si nasconde, ha paura; chi legge ignora cosa lo terrorizzi. Dopo un po’ lo scopriremo: il ragazzino è convinto che i suoi genitori questa volta gliela faranno pagare. Lo ammazzeranno. Perché… non ha superato un test. Cosa può esserci di tanto terribile e importante in quell’esame? Il protagonista non ha saputo risolvere un’equazione di secondo grado. E’ tanto grave? Quante fra le persone che stanno leggendo sanno risolvere equazioni di secondo grado? Nel racconto che ha scritto Philip Dick (forse lo avete sentito nominare) una certa società ha deciso – o sopporta – che la misura dell’umanità, la stessa definizione giuridica di «essere umano» completo (quindi che può godere i diritti) venga assegnata solo a chi, a una certa età, è in grado di risolvere equazioni complesse. E’ una definizione possibile di umanità, certo; ma ne esistono molte altre. La società immaginata nel racconto ha codici rigidi: se non sei un essere umano completo, puoi essere ucciso, o meglio… abortito. Qui la sicurezza è assoluta: a una certa età devi sapere risolvere le equazioni di secondo grado. Il racconto s’intitola «Le pre-persone», cioè prima d’essere persone.

Un altro racconto. Sempre di Philip Dick. Altre paure che incrociano una concezione diversa di umanità.

La protagonista si chiama Gil. Sta aspettando il marito, Lester che torna da molto lontano: è ingegnere spaziale in un pianetino intorno a Giove. Gil non è felice, anzi ha paura perché il marito è uno stronzo, arrogante e violento. Il racconto è breve, ignoriamo perché Gil non lasci il marito; purtroppo è una condizione che incontriamo spesso nel mondo reale: donne che corrono pericoli continui (e umiliazioni quotidiane) a vivere con uomini violenti ma hanno il terrore di ribellarsi … oppure sono cresciute, sono state educate nella convinzione che non sarebbero capaci di affrontare il mondo senza un uomo accanto, insicure sempre.

Torniamo al racconto. Arriva Lester ed è dolce, tenero, affettuoso, una persona completamente diversa, “attenta ai miei bisogni” pensa Gil che è sorpresa, soprattutto felice. Dopo pochi giorni – mentre Lester è fuori per lavoro – bussano alla porta. Sono due poliziotti; anzi Dick li definisce “sbirri” e se usa questa parola vuol dirci qualcosa. I due dicono a Gil che quel tipo non è suo marito ma un parassita che si è impadronito del corpo di Lester. Chiedono l’aiuto della donna contro l’alieno, l’invasore, il mostro. Voi che leggete capite che un extra terrestre è peggio di un extracomunitario; un parassita che arriva dallo spazio è più estraneo di un rumeno che in fondo ha due gambe come noi. Ha quasi sempre due gambe un rumeno, qualche volta una o nessuna se fa il muratore in qualche cantiere italiano, dove non si osservano le norme di sicurezza, ma questo è un altro discorso.

Torniamo a Gil. I poliziotti le dicono che lei dovrebbe aiutarli non solo per senso del dovere ma per solidarietà con la razza umana. Gil ci pensa e dice sì ma poi… raggiunge Lester: sapeva dov’era, anche se agli sbirri aveva detto di no. Racconta al “forse Lester” quello che ha saputo, gli chiede se sia vero. Il “para-Lester” dice di sì – «non sono Lester» – ma precisa che i parassiti come lui possono entrare in un altro corpo solo se la creatura che lo abita è morente; insomma non sono invasori semmai utilizzatori di protesi abbandonate. Quel pianetina era infetto ma “Lester” si è salvato salendo sul razzo appena in tempo. Chiede a Gil cosa farà adesso e lei risponde “scapperemo insieme”. Perché – gli spiega – lui è infinitamente migliore, più dolce del maschio arrogante che prima abitava quel corpo. Il racconto finisce con questo dialogo.

«“Stavo pensando”, disse la donna all’essere non terrestre, che forse continuerò a chiamarti Lester, se non ti dispiace”.

Tutto quello che vuoi purché possa farti felice” le rispose lui».

Al di là della dolcezza – e di ogni possibile dubbio – c’è nel racconto qualcosa di importante sulle nostre paure e sull’idea di umanità. Philip Dick in una antologia con i suoi migliori racconti così lo commentò: «Per me questa storia simboleggia ciò che l’essere umano è. Non si tratta di avere un certo aspetto o di provenire da un certo pianeta, ma di vedere sino a che punto si è gentili. La gentilezza ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo e così sarà sempre qualsiasi forma assumiamo, dovunque andiamo o qualunque cosa diventiamo».

Il titolo del racconto è appunto «Umano è». E Dick aggiunge: “Umano è è il mio credo e mi auguro che possa essere anche il vostro”. Altre volte Philip Dick è tornato su questo concetto, per esempio scrivendo: «La misura di un essere umano non è la sua intelligenza, non consiste nell’altezza che può raggiungere in un sistema sbagliato. La misura di un essere umano è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un altra persona e quanto può dare di sé?».

Una definizione di essere umano completamente opposta a quella del primo racconto; ne derivano paure differenti, vi pare? A ognuna/o il suo pericolo e la sua sicurezza.

Saltiamo dalla fantascienza a uno scrittore e filosofo francese, o meglio franco-algerino, oggi un po’ dimenticato pur se fu premio Nobel della letteratura: Albert Camus. Parlando del ‘900, il secolo dei sogni più grandi ma anche degli incubi più spaventosi, scriveva così: «Sta finendo il secolo della scienza liberatrice. Il nostro ventesimo secolo è il secolo della paura.(…) Il diciassettesimo è stato quello delle matematiche, il diciottesimo delle scienze fisiche, il diciannovesimo della biologia, il nostro è il secolo della paura. “Voi direte – scrive Camus – che la paura non è una scienza. Ma in primo luogo la scienza c’entra qualcosa perché i suoi ultimi progressi tecnici l’hanno portata a negare se stessa e perché le sue conseguenze pratiche minacciano la Terra intera di distruzione. Inoltre se la paura in se stessa non può essere considerata una scienza non vi è dubbio che essa sia perlomeno una tecnica”».

Se avessimo una colonna sonora ora metteremmo la voce di uno dei più grandi poeti del ‘900 italiano: Fabrizio De Andrè. Forse ricordate quei versi oltraggiosi «chi non terrorizza si ammala di terrore» però magari avete dimenticato quell’altro suo suggerimento: «senza la mia paura mi fido poco». Un altro Fabrizio (EffeEmme) ricorda che una delle strofe preferite del Faber prima citato è «per chi ha vissuto con la coscienza pura / l’inferno esiste solo per chi ne ha paura».

Proviamo a confrontarle con le parole di un altro grande poeta del nostro Novecento, Umberto Saba. «In una casa dove uno s’impicca, altri si ammazzano fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono faticosamente di fame, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio… si apre una porta e si vede una vecchia signora che suona molto bene la spinetta». Ora immaginiamo che la casa della vecchia signora sia il mondo e non un semplice condominio: dove ci collochiamo noi? E voi chi siete in quella casa? Potreste essere la vecchina che suona tranquilla (perché è così sicura?) mentre intorno scoppiano le bombe e i camion di fanatici fan strage e in un altro appartamento (meno illuminato che chiameremo Gaza, Afghanistan, Irak, Congo, Yemen…) le tecnologie più moderne seminano morti ogni minuto. Se le bombe scoppiano in posti lontani la paura forse si allontana ma se esplodono vicino… ci assale il panico, urge controllo, sicurezza a ogni costo. Egoismo forse ma giustificato. Oltretutto in Occidente pensiamo sempre di essere innocenti… ma può chi è così potente non aver colpe nel mondo reale? E se il nome che ci diamo, Occidente, fosse un refuso e in realtà si scrivesse (per fondate ragioni) Uccidente?

Resta che ognuna/o di noi ha i suoi timori e fatica a entrare in quelli altrui. Citiamo ancora Philip Dick: la paura dei nobili alla vigilia della rivoluzione francese era che il popolo sarebbe entrato nelle loro case, avrebbe sporcato il tappeto e rovinato il giardino… Non immaginavano che sarebbero finiti sulla ghigliottina. Certe paure non riuscivano a concepirle, come qui in Occidente fatichiamo a capire che in un’altra parte del mondo le bombe dal cielo o la morte per fame sono una possibilità purtroppo molto concreta; e chi fugge da lì non viene a “sporcarci il giardino” ma per salvarsi la pelle (e inconsciamente a chiederci “il conto”?).

Che vi sentiate minacciate/i dai terroristi, dalle nuove bombe atomiche dei cattivi (ma le nuovissime armi, anche nucleari, dei buoni non vi fanno paura?) o dalla catastrofe climatica-ecologica, prima di invocare la sicurezza a ogni costo, meditate su una frase di Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza».

Anche dalle parti della fantascienza abbiamo imparato qualcosa sulla sicurezza reale e quella immaginaria. Sulle manie di persecuzione e su chi è davvero perseguitato e magari non lo sa.

Il pericolo nell’attuale immaginario di massa non sembra però venire da diluvi universali, ragnarok, armageddon, catastrofe (dal greco katà-strèho cioè capovolgimento) finale, il ritorno di Satana, 7 flagelli e 4 cavalieri. La paura concreta cresce su fatti molto più limitati, magari banali. Eppure il secolo appena concluso è quello del fumo di Auschwitz, dell’allarme ecologico, del fungo di Hiroshima, tutti «errori umani» e non punizioni divine. In questo quadro – lo scrisse Susan Sontag in «Contro l’interpretazione» (1967) – «da ora e sino alla fine della storia umana, ogni persona trascorrerà la sua vita non solamente sotto minaccia della morte individuale, che è certa, ma di qualcosa quasi insopportabile psicologicamente: incenerimento ed estinzione collettiva potrebbero avvenire in qualsiasi momento, senza preavviso». Con altre parole lo ha detto lo scrittore James Ballard: abbiamo costruito le prime armi nucleari per un desiderio di distruzione (o auto-distruzione forse) poi la loro presenza ha ulteriormente alimentato tale desiderio.

Lo scrittore-scienziato Isaac Asimov ha indicato (in «Catastrofi a scelta») 5 differenti scenari: fine dell’intero universo; eventi che rendono inabitabile il sistema solare; collasso del pianeta Terra; distruzione dell’intera umanità (non necessariamente di ogni forma vivente); il ripiombare della nostra specie nell’abbrutimento. C’è chi, ridendo per non piangere, pensa che questa quinta possibilità sia già in atto ma inviteremmo a non prendere l’asse Renzi-Nato-Isis-Putin per obbligatoria linea di tendenza. Come spesso gli accadeva, il buon Asimov posò lo smoking da saggista-conferenziere-scienziato per indossare il golf da scrittore-antologista selezionando 20 ghiotti racconti di pura fantascienza sulle 5 calamità suddette. Si intitola «Catastrofi!» (sì, con il punto esclamativo): le sciagure che fanno più presa sul nostro gelatinoso e tremolante inconscio sono le ultime due. Il che è assai illogico: ma l’universo ci appare lontano (invece ne siamo dentro). Ancor meno logico che molte/i, poniamo in Europa, ignorino tutto dell’ecatombe quotidiana per sottonutrizione nel pianeta Africa, più vicino della Luna.

Può darsi che l’ideologia della fine del mondo sia anch’essa al servizio della conservazione dell’ordine esistente. Polemizzava per esempio H. M. Enzensberger: «nel crollo continuo di tutte le ideologie è proprio la catastrofe la sola idea che unifichi il mondo». Di certo anche il cataclisma è classista. Nel lontano 1966 fece scalpore il romanzo «Largo largo» di Harry Harrison con un’allucinante New York senz’acqua né speranza. I più dormono per strada o sui gradini mentre pochi vivono in villette e acquistano la carne (in macellerie più vigilate delle gioiellerie): se in altre parti del romanzo Harrison scatena l’immaginazione, su questo gli è bastato mettere fianco a fianco Calcutta e Beverly Hills. Nel mondo dei poteri e dei ricchi la fame è sempre lontana, dall’altra parte della Luna, fantascienza appunto.

Due ultime considerazioni.

Immaginiamo che Hamid alto 1,76 sia seduto vicino a Italo – 1,93 – nel banco stretto. Se un calcetto colpisce Hamid non accade necessariamente perché Italo è razzista. Allo stesso modo i migranti (di qualche generazione ma senza Ius Soli) Sokna o Moustapha non dovrebbero avere paura che in Italia dovunque vanno ci sia qualcuno ostile. E’ giusto? In teoria forse. Nella pratica, stiamo dicendo una stupidaggine. Perché noi siamo due di pelle bianca che fanno questo ragionamento in Italia dove non la vive così chi oggi ha la pelle nera (o altre “stimmate”) anche se talvolta in tasca ha il passaporto italiano.

Chi è il nemico che minaccia la nostra sicurezza? Come altre volte, tenteremo di rispondere con il racconto (una paginetta abbastanza famosa) intitolato «La sentinella» di Fredric Brown.

«Era bagnato fradicio, e coperto di fango, aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni luce da casa. Un sole straniero gettava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato faceva di ogni movimento un’agonia di fatica.

Dopo decine di migliaia di anni quell’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super armi, ma quando si arrivava al dunque toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria prendere la posizione e tenerla con il sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare, finchè non ci eravamo arrivati. E adesso era suolo sacro. Perchè c’era arrivato anche il nemico.

Il nemico l’unica altra razza intelligente della galassia: crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti. Ed era stata la guerra subito. Quelli avevano cominciato a sparare senza neppure tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso pianeta per pianeta bisognava combattere coi denti e con le unghie.

Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo ed il giorno era livido. spazzato da un vento violento che faceva male agli occhi, ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni posizione era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Era lontano cinquantamila anni luce dalla patria a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.

Allora vide uno di loro strisciare verso di lui, prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano e agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire».

Il racconto non è finito, mancano tre righe e sono queste. «Molti con il passare del tempo si erano abituati, non ci facevano più caso, ma lui no: erano creature troppo schifose con solo due braccia e due gambe e quella pelle di un bianco nauseante e senza squame».

Brown dice: il nemico siamo noi, nello sguardo degli altri. E ci ricorda che potremmo essere l’unica altra razza intelligente della galassia, crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. Ce n’è abbastanza per inquietarci?

Potremmo finire così ma EffeEmme aggiunge che il senso dell’alieno e della dialettica pericolo/controllo è talmente radicata nell’immaginario collettivo da rappresentare un filo rosso (sangue) che attraversa l’inconscio di ognuno di noi, tirando fuori ciò che c’è di peggio nell’essere umano.

Emblematici possono essere “Alien” (1979) di Ridley Scott e “La Cosa” (1982) di John Carpenter.

Nel primo film un equipaggio di camionisti intergalattici entra in contatto, per volere della loro Compagnia, con una entità aliena che si presenta sotto forma di uova e poi vomita uno dei suoi ovuli su un astronauta. Lo sfigato sembra cavarsela a buon mercato, quando l’ovulo si stacca spontaneamente da lui. Purtroppo dentro di lui “il male” ha covato alla grande: dal suo torace esploderà un ripugnante esserino coperto di sangue che si nasconde velocemente nell’astronave. A nulla valgono i tentativi per ucciderlo. A morire per primo è il comandante del vascello, il capitano Dallas, che per una sua imprudenza finisce tra gli artigli dell’alieno. La brava Ellen Ripley riesce a tenere in piedi una blanda difesa, ma alla fine scoprono che uno di loro, l’androide Ash, ha ricevuto ordini precisi da parte della Compagnia di portare sulla terra un Alieno, pronto per essere studiato e utilizzato, a prezzo del sacrificabile equipaggio.

Il film “La Cosa” di John Carpenter – ispirata a un noto romanzo breve «Chi va là?» di John Wood Campbell – è ancora più inquietante. Una spedizione fra i ghiacci dell’Antartide rinviene “ibernata” una creatura aliena che si scoprirà essere in grado di imitare alla perfezione ogni tipo di vita biologica. Ciò scatena la reciproca diffidenza dei membri della base: ognuno ha paura dell’altro (o già l’aveva?) poiché l’alieno riesce a replicarsi. Alla fine il capitano MacReady escogita un sistema per capire chi è infetto. Prelevato un campione di sangue lasciato dall’alieno, MacReady lo infilza con un filo di rame arroventato; è certo che le altre parti dell’alieno avrebbero reagito in modo difensivo alla distruzione di uno di loro. MacReady vede bene ma le cose degenerano e alla fine, per impedire che l’alieno possa inviare un messaggio di soccorso ai propri simili, dovrà far saltare in aria la base con la speranza di distruggere completamente anche l’alieno, il quale nel frattempo ha contagiato tutti. Rimasto solo, MacReady viene improvvisamente avvicinato da un suo compagno che afferma essersi perso nella tormenta. Il film si chiude con MacReady e l’altro a guardarsi sospettosamente, mentre la bufera glaciale sottolinea che presto finiranno entrambi assiderati… E chi guarda sta pensando: solo uno di loro morrà per sempre?

A proposito di “Alien”, ecco cosa scrissero G. e K. Gabbard nel loro interessante saggio «Cinema e psichiatria» (***): «in alcuni momenti è cosi spaventoso che potrebbe essere definito più propriamente un film dell’orrore… La gente non compra il biglietto del cinema solo per guardare colare gli intestini, anche se sembra che questa sia la lezione che ne hanno tratto molti nel mondo del cinema… Più di molti altri film del suo genere, Alien evoca abilmente l’ansia delle nostre prime fantasticherie, queste prime angosce rimosse in modo imperfetto…». Per molti è così: quando l’alieno esplode letteralmente fuori dal petto dell’astronauta è come vedere il Male uscire fisicamente dalla persona, dopo averla distrutta dall’interno. Travalica ogni concetto di Bello, per rappresentare il Marcio, il Male, di cui è intrisa la nostra società; il Bello come il Brutto sono qualcosa di più che semplici giudizi estetici, si trasformano in categorie emozionali e inconsce con le quali l’essere umano costruisce la propria Realtà. Spesso ciò che era Bello diventa Brutto e viceversa, generando in molte persone confusione e dunque nuove paure. Basti pensare al fascismo visto dall’italiano “medio”: bello, poi brutto e ora boh. Nell’Atene antica l’omosessualità era normale, per i Romani no e oggi… dipende dal Paese dove abiti, dalla religione degli avi, da X e Y. E così via.

«Ogni giorno il nostro senso del bello gira per il mondo, ci accompagna in macchina, nei negozi, in cucina. Nell’arco della giornata è un continuo, sottile, rispondere esteticamente al mondo. Vediamo le sue immagini, sentiamo gli odori che ci trasmette, e impercettibilmente ci aggiustiamo al suo volto. Ed è in questi aggiustamenti, proprio perché subliminali, che oggi è nascosto l’ “inconscio”. Siamo inconsci delle nostre risposte estetiche… Adesso diventare coscienti significa non soltanto diventare coscienti dei nostri sentimenti e dei nostri ricordi, ma soprattutto risvegliare le nostre risposte al bello e al brutto. Siamo diventati inconsci dell’impatto del mondo, le nostre anime come murate nei suoi confronti» scrive il filosofo e psicanalista James Hillman in «La politica della bellezza». E ancora: «L’effetto narcotizzante delle consuete discussioni di estetica, e quel moralismo camuffato secondo cui la bellezza è ‘buona’ anzi è il Bene stesso, hanno fatto sì che un intero secolo si rivoltasse contro tutto ciò che ha a che fare con la bellezza, sia classica che romantica e bandisse la bellezza dalla pittura, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia, e anche dalla critica; di modo che le arti, il cui compito una volta era considerato quello di manifestare la bellezza ha finito per essere considerata soltanto come ciò che è grazioso, semplice, piacevole, facile e privo di spessore intellettuale».

La migliore fantascienza, mai come ora, è lanciata oltre il muro della nostra anestesia estetica.

Gli alieni anche nel cinema si sono evoluti da forme di vita ostili e orrende – BEM cioè Bug Eyed Monsters – a complesse rappresentazioni dove magari il giochino di parole esotico/erotico funziona alla grande. Vale ricordare la serie tv “Star Trek”. In molte avventure, il capitano Jean Luc Picard deve far fronte a derive autoritarie e fascistoidi che vorrebbero tornare allo schema “diverso uguale pericolo” (****). Non a caso lo slogan «Combatti il diverso, difendi il tuo simile» campeggia sulle magliette del gruppo Forza Nuova. I fantasmi che alcuni di noi si portano dentro sono peggiori di qualsiasi alieno.

LE IMMAGINI SONO “RUBATE” A KAREL THOLE

(*) partendo da una delle “tre leggi” di Arthur Clarke spesso erremme dibbì (ovvero Riccardo Mancini e Daniele Barbieri) hanno ragionato di tecno-vudù; anche qui in “bottega” trovate alcune di queste riflessioni.

(*) su paura e fantascienza cfr anche Fine del mondo? «Non spingete, scappiamo anche noi»; vale segnalare che esiste anche una lettura scenica – «Il tranquillo calduccio della paura» – più volte aggiornata che dibbì dal 2005 propone a chi abbia voglia di s/ragiomnare con lui

(***) di Glen O. Gabbard e Krin Gabbard pubblicato (nel 2000) da Cortina Raffaello.

(****) di recente effemme ne ha parlato qui: e Umano e non… dalle parti dell’Enterprise

Redazione
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