«Sono solo i partigiani a inventare un’altra Italia»

Una recensione – in lieve ritardo – e qualche riflessione su «La felicità dei partigiani e la nostra: organizzarsi in bande» di Valerio Romitelli (*)

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«Ripensare il significato dell’esperienza partigiana in rapporto alle ardue sfide del nostro tempo così oscuro, complicato e politicamente prostrato». Bello – e difficile da realizzare – il proposito che muove Valerio Romitelli nel suo «La felicità dei partigiani e la nostra: organizzarsi in bande» (uscito in marzo da Cronopio editore: 184 pagine per 13 euri) che segue il suo «L’odio per i partigiani: come e perché contrastarlo» (sempre Cronopio, 2007).

«Di cosa si parla quando si parla di “Resistenza”?» è il titolo della prima parte che prende via dal fastidio per «i soliti riti», vuoti e ingannevoli intorno al 25 aprile. C’è una retorica particolarmente fastidiosa che vorrebbe i partiti – e non i partigiani – come protagonisti della Resistenza e la maggioranza degli italiani con loro. «Difficile però credere a questa storia secondo la quale prima, durante e dopo il Ventennio, buona parte degli italiani sarebbe restata “brava gente”, amante di pace, libertà e democrazia, dunque naturalmente antifascista» scrive Romitelli. E poi: «Come non ammettere che l’antifascismo politico, dopo il 27, è stato soprattutto un fenomeno di “fuoriusciti” che furono attivi specie in Francia e in Spagna ma che in patria non riuscirono mai ad andare oltre generosi quanto inefficaci tentativi di organizzazione e di dissenso?».

Non ci si può dunque immaginare i partigiani «come figli del passato antifascista» che riemergono, in continuità. E naturalmente non si tratta neppure di «fuggiaschi e traditori che abbandonarono l’impresa fascista nella sua ultima e più difficile ora». Nessun passato serve a spiegare ciò che fa la singolarità del biennio ’43-45». E d’altro canto «se nel dopoguerra il nostro Paese non si trasforma completamente in una terra di nessuno con un futuro commissariato e gestito da governi stranieri delle potenze vincitrici ciò lo si deve solo ai partigiani».

Evitando le mitologie e le analisi viziate da ideologie, come e dove possiamo individuare la rottura, la discontinuità della scelta di impugnare le armi contro i nazifascisti? Cercando una risposta Romitelli suggerisce di partire dalla rilettura e dall’analisi di alcuni scritti (noti e meno) di Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello e Giorgio Bocca.

Ovviamente «non capire che sono solo i partigiani a inventare un’altra Italia post-fascista porta a non comprendere che con il venir meno delle loro bande anche questa Italia viene meno». I combattenti di quelle bande non vanno visti come “martiri” o come patrioti ma bisogna cercare «le motivazioni che li hanno resi capaci di decidere del loro destino e quindi anche del nostro». Qui va «cercata e riabilitata» osserva Romitelli «la loro felicità, la felicità di soggetti che sono riusciti a pensare e dirigere le loro passioni».

Nella seconda parte – «Variazioni sul tema partigiano: per un bilancio critico» – si intrecciano le riletture di «La fine del Marinese» (un racconto poco noto di Primo Levi), di «Una questione privata» (di Fenoglio), di «I piccoli maestri» (di Meneghello) e di vari scritti di Bocca (fra cui «Storia dell’Italia partigiana») con l’analisi storica di «Partigia: una storia della Resistenza» uscito nel 2013) di Sergio Luzzatto, del più antico «Storia della Resistenza italiana» di Roberto Battaglia e di «Una guerra civile: saggio sulla moralità della Resistenza» di Claudio Pavone. I fili intrecciati da Romitelli sono interessantissimi e neppure mi provo a riassumere le sue analisi: il suo libro che va letto e discusso.

Ovviamente ogni seria analisi deve tener conto anche dei numeri: «Verso la fine del settembre ’43 in tutta Italia i “ribelli armati” si aggirano sui 1500 […] Al 30 aprile del 1944 si parla invece di 20-25mila partigiani […] per poi raggiungere il picco di 250-300 mila».

La seconda parte si chiude così: «L’idea centrale di questo libro sta nell’ipotesi che attualmente sia possibile riprendere l’esperienza partigiana, sia pure nelle condizioni completamente diverse del nostro presente». Così la terza parte si intitola «Cosa imparare dai partigiani?». Fra l’altro Romitelli qui rilegge «Storie di Gap» (di Santo Peli) e riflette sulla «prima e più fondamentale modalità organizzativa» dei partigiani, «quella per bande» che è ovviamente cosa diversa da una classica struttura militare e gerarchica. Ma lui stesso onestamente ammette che non esiste, per ora, una risposta chiara, semplice a come recuperare quell’esperienza politica e quella «felicità»; si tratta di guardare all’orizzonte e di saper analizzare il difficile oggi con occhi partigiani… Verso la fine si legge: «Riprendere la memoria dei partigiani può risultare istruttivo proprio per la loro capacità di intendere il pensiero della gente tra cui operavano. Oggi micro corpi organizzati, più o meno ispirati allo stile partigiano, potrebbero preoccuparsi non già di acquisire potere ma tentare di pensare, presidiare, unire quei margini sempre più estremi, vasti e dispersi del sociale che si trovano non solo senza cure di governo ma anche senza alcuna politica alternativa».

Per finire un paio di citazioni, spigolando qui e là. Mi ha fatto sorridere un “proclama” del comandante partigiano Giambattista Lazagna: «Rendo noto che tra i partigiani non c’è melanconia». Mi ha fatto pensare la frase di Guido Quazza sulla banda partigiana come «microcosmo di democrazia diretta» che poi Romitelli riprende per la sua analisi finale.

      (*) Questa sorta di recensione va a collocarsi nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita e probabilmente continuerà a capitarmi di non parlare tempestivamente in blog di alcuni bei libri pur letti e apprezzati. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro, dai banali impicci del quotidiano +1, +2 e +3… o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche collega una recensione che poi rimaneva sospesa per molti mesi fino a “morire di vecchiaia”. Ogni tanto rimedio in blog a questi buchi, appunto chiedendo venia. Però, visto che fra luglio e agosto ho deciso di recuperare un bel po’ di queste letture e di aggiungerne altre, mi sa che alla fine queste recensioni recuperate e fresche terranno un ritmo “agostano” quasi quotidiano, così da aggiornare in “un libro al giorno toglie db di torno” quel vecchio detto paramedico sulle mele. D’altronde quando ero piccino-picciò e ancora non sapevo usare bene le parole alla domanda «che farai da grande?» rispondevo «forse l’austriaco (intendevo dire “astronauta” ma spesso sbagliavo la parola) oppure «quello che gli mandano a casa i libri, lui li legge e dice se van bene, se son belli». Non sono riuscito a volare oltre i cieli, se non con la fantasia; però ogni tanto mi mandano i libri … e se no li compro o li vado a prendere in biblioteca, visto che alcuni costano troppo per le mie attuali tasche. «Allora fai il recensore?» mi domandano qualche volta. «Re e censore mi sembrano due parolacce» spiego: «quel che faccio è leggere, commentare, cercare connessioni, accennare alle trame (svelare troppo no-no-no, non si fa), tentare di vedere perché storia, personaggi e stile mi hanno catturato». Altra domanda: «e se un libro non ti piace, ne scrivi lo stesso?». Meditando-meditonto rispondo: «In linea di massima ne taccio, ci sono taaaaanti bei libri di cui parlare perché perder tempo a sparlare dei brutti?». (db)

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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