Storie di “cantastorie”: Furio Scarpelli 100 anni dopo

di Fabio Troncarelli

    Furio Scarpelli: autoritratto e originale

Il 16 dicembre 1919, cento anni fa, nasceva a Roma Furio Scarpelli, uno dei più grandi narratori in lingua italiana del Novecento, a cui conviene il titolo di “”cantastorie””, il più commovente “cantastorie” dell’epoca tormentata che ha avuto la ventura di attraversare, a passo gagliardo di bersagliere, fino alla sua scomparsa il 28 aprile del 2010.

Che significa “cantastorie”? L’espressione l’abbiamo rubata a Sergio Tofano, un altro geniale “cantastorie”. Il grande disegnatore, scenografo, costumista, poeta, commediografo, regista, attore, capocomico scrisse anche novelle in versi, che naturalmente illustrò da sé, che si chiamano appunto Storie di cantastorie (Milano, Adelphi, 1991 ). Tofano raccontava vicende avvicenti che rivelavano l’altra faccia delle leggende virtuose e noiose tramandate dall’epoca in cui Berta filava: la vera storia di Barbablù che si tinge la barba di nero per trovare moglie; le vicissitudini degli stivali del Gatto con gli stivali; il dramma del giovane esploratore che non ha più niente da esplorare; le vere disavventure delle avventure di Guerrino detto il Meschino; la saggezza del serpente a sonagli, difeso a spada tratta contro i suoi detrattori.

Sergio Tofano, Storie di “cantastorie”: L’elogio del serpente a Sonagli, p. 57

Ecco, l’avete capito chi è un “cantastorie”? E’ un signore pieno di sussiego, che sale sul palcoscenico, si presenta, fa l’inchino e comincia a parlare con voce bassa e suadente e mentre voi vi distraete, raccontate barzellette alla vostra vicina, vi strozzate coi pop corn e vi pare di stare finalmente in pantofole, all’improvviso, fulmineo come il fulmicotone, vi folgora con verità così evidenti, così chiare e distinte che voi vi battete la mano sulla fronte, esclamate: “Ma com’è che non ci avevo pensato prima!” e vi fate una risata incredula. Guarda un po’, avete appena sentito l’epopea tragicomica dell’ 8 settembre del ’43 (Tutti a casa); quella degli eroi anonimi ammazzati come traditori nel 1916 (La Grande Guerra); quella di chi ripensa ai tempi in cui c’eravamo tanto amati e avevamo tanto sperato in un mondo nuovo e adesso solo a pensarci ti si spezza il cuore (C’eravamo tanto amati); quella di chi è talmente stordito dal sogno di arricchirsi da stamparsi i soldi da solo per poi buttarli a fiume insieme con la sua coscienza sporca perché è pur sempre un essere umano (La banda degli onesti); quella dei ladri da strapazzo che sognano di emulare Jean Gabin e Sterling Hayden e riescono solo a sgraffignare un piatto di spaghetti (I soliti ignoti); quella dei provinciali ipocriti, invidiosi, carogne capaci solo di distruggere chi fa quello che loro non hanno il coraggio di fare (Signore e signori);  quella dell’epopea degli straccioni, che vivono sempre sopra le righe una storia sempre sotto le righe, passando dalle stelle alle stalle come se sfilassero all’arco di trionfo (L’Armata Brancaleone); quella dei nostri padri, dei nostri fratelli e di noi stessi, figli e nipoti di un popolo di ladri, di falsi, di poveracci, di Matattori da strapazzo, che sono solo Mostri e vogliono solo restare in sella, “a cavallo della tigre”. Queste storie ci ha raccontato Scarpelli al cinema, scrivendo le sceneggiature per i registi che hanno realizzato i film a cui abbiamo ricordato i titoli e realizzando capolavori, insieme a tanti altri, sbaragliando tutti gli avversari nella corsa ai premi cinematografici, ammaliando, seducendo, divertendo, ubriacando lo spettatore come un bambino che implora “ancora, ancora…” dopo la fine del racconto per prendere sonno. E fosse solo questo! Furio, il “cantastorie”, ha fatto le stesse cose di Tofano: è stato un illustratore, come Ettore Scola, come Federico Fellini, che insieme a lui hanno cominciato la carriera nel settimanale satirico Marc’Aurelio. Ed è stato un interprete attento e intelligente di tanti altri artisti, come il grande umorista Achille Campanile, come il grandissimo regista Vittorio De Sica, come il piccolo grande scrittore Silvio d’Arzo, dei quali ha osato mettere in scena sogni e visioni ed a cui ha osato suggerire parole e immagini Ed è stato un galvanizzatore generoso, entusiasta, di giovani alle prime armi o di artisti anticonformisti, sempre pronto a schierarsi dalla loro parte, permettendo loro di realizzare film in cui non tutti credevano e su cui tutti si sono ricreduti, come Ovosodo, scritto insieme a Francesco Bruni e al regista Paolo Virzì o come Il Postino, sceneggiato insieme a suo figlio Giacomo, a Massimo Troisi, ad Anna Pavignano e al regista Michael Radford. Vi basta? Vi basta per capire chi è e che cosa fa un “cantastorie”? Narrare, senza peli sulla lingua, ma anche senza fronzoli e senza sproloqui, con arguzia, con affetto, con malinconia, con ironia la meravigliosa, affascinante, drammatica, esilarante favola della commedia umana

Ho detto commedia umana non a caso. Di solito si dice che personaggi come Scarpelli sono stati protagonisti della cosiddetta commedia all’italiana. Si tratta di un’espressione stupida per definire una realtà ancora più stupida. La commedia all’italiana è una formula che indica un’ammucchiata di film da quattro soldi, squallidi, superficiali, banali, che non ha nulla a che vedere con la commedia umana, così come una barzellatta grassoccia non a nulla a che vedere con la sottile ironia di Ariosto.

L’uomo del “cantastorie” fa ridere, è vero; ma commuove, anche, ed è umano, troppo umano perché lo si abbandoni a sé stesso con cinismo. No, il “cantastorie” non è cinico: sembra svagato, divertito, fantasioso, distratto, ma invece è appassionato, indignato, pronto a battersi. A modo suo. Sempre a fianco di chi non si arrende, anche se è un poveraccio che fa sorridere, che fa pena. I “cantastorie” sono dei ribelli. Il loro motto è quello degli anarchici contro i padroni: “Una risata vi seppellirà”. Per questo ridono: per non piangere. Ridono con furore, con sarcasmo, taglienti, irridenti, irriverenti.

Ma dopo il Carnevale viene sempre la Quaresima. A forza di ridere fragorosamente, il “cantastorie” impara, pian piano, a ridere dolcemente e poi finalmente a sorridere: a trattare con indulgenza il genere umano, per la sua fragilità naturale, di cui la stupidità fascista o il perbenismo piccolo-borghese sono solo variazioni “in minore”. Impara a divenire saggio, come Trilussa, “il savio che s’ammaschera da matto”.

Non si deve credere che l’umanità, la pietà, l’umorismo del “cantastorie” significhino disimpegno, superficialità, qualunquismo, come avviene nel caso della cosiddetta, orrida, commedia all’italiana. E’ vero il contrario: lo sguardo affettuoso ma disincantato del “cantastorie” è una forma, discreta, di impegno civile: è un modo di schierarsi a fianco degli umiliati ed offesi, non fazioso, che nasce da una fede profonda nell’uomo, nonostante lo scetticismo e l’indulgenza nei suoi confronti.

I “cantastorie” sono folli, stralunati come Tito Livio Cianchettini che alla fine dell’Ottocento girava per Roma con il Travaso, il giornale che aveva stampato da solo, protestando così contro i padroni che ci trascinano con una corda come un bue al macello.

Acidi come asini, tirano calci a potenti e prepotenti, come Podrecca e Galantara, che scrivono e disegnano negli stessi anni su L’Asino per prendere a pedate lorsingori illustrissimi, preti, nobili e borghesi che ci portano alla rovina. I “cantastorie” sono dei magnifici selvaggi come i grandi illustratori che seminano le loro figurine deliranti e sconcertanti sui giornali più anticonformisti, che si chiamano coi nomi dei grandi rompiscatole e dei grandi illusi, Capitan Fracassa, Fanfulla, Don Chisciotte. Come il grande Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo), scatenato vignettista sul Pupazzetto, fondato da un altro illustre disegnatore, Romeo Marchetti; come il geniale Scalarini, il nemico numero uno dei fascisti; come il grandissimo Filiberto Scarpelli, padre di Furio di cui stiamo parlando, il nemico numero uno del buon senso; e come il buon Tofano, appunto, il nemico numero uno della ragionevolezza.

Filiberto Scarpelli visto dal grande amico Ugo Finozzi in Il Giornalino della Domenica

E non crediate che in questo esercito di dissacratori ci siano solo i disegnatori. Tra le sue fila c’è un’eletta schiera di scrittori, attori, creatori, una processione fastosa e festosa di Maestri del Dispetto e della Fantasia, che va da Aldo Palazzeschi a Paolo Poli.

La loro vocazione è così impetuosa, così bruciante, da erompere di continuo nelle situazioni più insospettabili sovvertendo ogni logica. A un punto tale, che il “cantastorie” può perfino rinunciare alla pretesa di essere un autore solitario e al soggettivismo del Poeta-Vate, immolandosi, come il protagonista della Pelle di Zigrino di Balzac, alla Grande Opera che si realizza tra le sue mani, al cui compimento dona la sua stessa vita, fedele al motto Ars gratia artis. Il “cantastorie” può scrivere in coppia con un altro, come ha fatto sempre Scarpelli insieme ad Agenore Incrocci (il mitico “Age”) oppure insieme a molti altri amici e compagni. I “cantastorie” non sono egocentrici perché sacrificano tutto alla loro passione di narrare. Sono gli eredi degli antichi aedi, che cantavano storie già cantate da altri, perché la storia dell’uomo è sempre la stessa ed ognuno aggiunge, toglie, sposta un mattone, un altro mattone, una tessera di vetrata, un’altra tessera a questo palazzo incantato, antico come il tempo. Nuove gesta per vecchi eroi. Il racconto per amore del racconto1. Con la stessa stoica, ardente abnegazione.

Per questo, per questa loro ossessione rovinosa e silenziosa, paradossalmemente la voce inconfondibile del singolo si sente ancora meglio attraverso il coro delle voci dei collaboratori. Anche solo parlando di idee che non diverranno mai altro che idee sospese in aria, come se fosse l’Iperuranio: progetti su progetti, che non verranno mai realizzati o che verranno realizzati da altri, senza che la voce del narratore si affievolisca mai. Noi la sentiamo ancora, attraverso opere che Furio Scarpelli ha solo immaginato e sognato, come ad esempio il romanzo a fumetti Tormenti (Milano, Rizzoli Lizard, 2011) scritto e disegnato da Furio Scarpelli e sceneggiato da quest’ultimo, dal figlio Giacomo e dal nipote Filiberto.

        “Tormenti” (appena ripubblicato in un grande e bel formato alla francese, da Gallucci, con il suo titolo originale: Passioni)

Ma la sentiamo anche in abbozzi, frammenti, stelle filanti come il bellissimo, mai terminato, progetto sulla vita di De Sica2, in cui il padre del Neorealismo conversa amabilmente proprio con il padre dell’Antirealismo, il surreale Sergio Tofano, con la grazia vertiginosa dei commensali di un Simposio scritto da Platone e messo in scena da Aristofane:

.« – Come fai ad incantare i bambini?

– Forse per riuscire ad interessare i bambini si deve semplicemente tornare a ciò che amavamo quando eravamo noi dei bambini, e che, senza saperlo, amiamo ancora, ma pensiamo ad altro, cose più importanti e più stupide. Che cosa volevi quando eri bambino?

– Avevo paura di diventare adulto.

  • Non ci credo. Peter Pan è una bugia. Un bambino vuole diventare un uomo.

  • Io avevo paura di diventare come papà.

  • Ma diventare come il Corsaro Nero ti sarebbe piaciuto?

  • Sì. Anche come il Signor Bonaventura, e pilota, e guerriero, e Fantomas.

  • Ecco. Ogni bambino vuole essere eccezionale, non il proprio papà…

  • E comunque dicono che siamo eleganti, – fa Vittorio.

  • Stupidaggini. Non si è eleganti in gruppo. Ognuno lo deve essere a modo suo. Meno somigli ad un altro più puoi passare per elegante.

  • Cioè si deve essere originali?

  • Altra stupidaggine. L’originalità è la fantasia dell’imbecille.».

Il vero “cantastorie” non cerca di essere originale a tutti i costi. Si limita a essere sé stesso. Senza scimmiottare nessuno. E senza paura di annoiare nessuno. Proprio come un bambino. Serio, serio quando gioca, sempre pronto a giocare con qualcun altro che voglia giocare con lui.

Gli imbecilli, invece, sono quelli che non sanno giocare. Non sono bambini e non sanno più esserlo. Sono adolescenti insicuri, sicuri solo della loro arroganza. Teppisti. Posoni. Tromboni. Come D’annunzio. Come i Dannunziani, una carovana di istrioni e di Gigi-sa-tutto, che arriva fino a noi cambiando casacca, maschera ghignante e labbro fintotrucido, per impersonare il ruolo del Bel Tene-o-broncio, che ci affligge con la sua furibonda e incrollabile serietà, assolutamente priva di senso dell’umorismo e di arguzia, sfoderando le parole in libertà del miglior squadrismo futurista: “Mi fanno male i capelli…”; “Infilare il dito nel buco del culo della morte…”; “Maledetti vi amerò…”; “Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde”; “Dovevo strapparmi il dolore della memoria, dovevo scartavetrare i graffi che mi guastavano il cervello”; “Io scusa nun lo chiedo manco a dio in persona…”; “Pensierare la pianura…”.

Agli altri, a una lunga schiera di spiriti leggeri e leggiardri che comincia da Boccaccio, passa per Ariosto e Ariele ed arriva fino a Furio Scarpelli, è dedicato il ricordo commosso del capolavoro dei “cantastorie”, un’impresa a cui, come nelle cattedrali medievali, ha messo mano un drappello di artisti, un manipolo di narratori che sembra una legione di folletti e di fate che tessono con la luce del tramonto, i colori della notte, lo splendore degli smeraldi l’abito di nozze della Bella Addormentata finalmente risvegliata. Lo ricordiamo perché nella sua discrezione è una delle più perfette opere del Novecento, ingiustamente trascurata, contro ogni evidenza, a cominciare dal consenso con cui è stata accolta quando è apparsa per la prima volta. Stiamo parlando di Policarpo ufficiale di scrittura (1959), un film tratto dalle storie del Principe dei cantastorie, Gandolin, il fondatore del Capitan Fracassa, sceneggiato dai “cantastorie”Age e Scarpelli e diretto da un altro grande “cantastorie”, Mario Soldati.

Mario Soldati al naturale e ritratto da Furio Scarpelli

Soldati… Se c’è un autentico “cantastorie”, anzi un vero e proprio “giullare” questo è lui. E’ uno sgorbio e di chi si innamora? Della bellisima Alida Valli. E come fa a conquistarla? Si nasconde in un tappeto arrotolato mentre lei riceve l’amante di turno e quando lei srotola il tappeto le dice distrattamente: “Ah, ci sei anche tu? Passavo di qui per caso e…”.

Policarpo vinse il primo premio a Cannes per la migliore commedia. A ragione. Sembra che l’abbia scritto, anzi cesellato Goldoni o piuttosto Menadro, perché, come dicevano di lui, questo film è asteios, urbano, civile, civilissimo, l’ultimo gemito della civiltà morente in mano ai barbari che ci circondano oggi. E invece l’ha creato una banda di “cantastorie”. Non voglio sciupare il piacere di chi volesse vederlo su “Rayplay”! Voglio solo parlare dell’arte dei “cantastorie”. Quella di Age e Scarpelli si vede dai dialoghi spontanei e naturali, una manna per grandi attori come Peppino De Filippo, Romolo Valli e l’ilare, irreale Renato Rascel.

Ma lo “Scarpelli touch”, suo, solo suo, si vede da finezze che pochissimi sono in grado di capire. Ve ne cito una. La famiglia De Tappetti si concede il lusso di una passeggiata al Pincio per sentire la banda. Ma il figlio piccolo, il decenne Agenore, dal nome omerico, pianta una grana e vuole i soldi per comprare il castagnaccio. Alla fine, vessato da questo giovanissimo tiranno come viene vessato da tutti, ogni giorno, il minuscolo Policarpo gli concede un obolo ancor più minuscolo: un centesimo, che anche per chi non si rende conto della differenza dei prezzi tra ieri e oggi, è evidente che è una miseria. Ma il ragazzino, dispettoso e irriverente, fratello in ispirito del coevo Gianburrasca, non si perde d’animo. Corre subito dall’uomo che vende il dolce, l’attore Memmo Carotenuto, lo sfida a fare “la conta”, lo batte e si mangia un bel pezzo di castagnaccio. Nessuno ha capito niente di questa scenettta. Lo dimostra il fatto che sui Manuali e sui Dizionari del Cinema c’è scritto che Carotenuto interpreta un personaggio che essi chiamano ‘Gnor Cino, (cioè Signor Cino). E invece lui è “Gnaccino”, lo ‘Gnaccino, il nomignolo con cui i bambini romani dell’età di Furio a dieci anni chiamavano il venditore di castagnaccio. Nella Roma d’allora i bambini usavano sfidare lo ‘Gnaccino a fare la conta. Se era il ragazzino vinceva aveva una doppia porzione; in caso contrario lo ‘Gnaccino si prendeva i soldi senza dare niente.

Il punto è che i ragazzini non vincevano mai.  Gli ‘Gnaccini erano furbi e li fregavano sempre coi loro trucchi. Ma stavolta è il ragazzino a trionfare!

Questo vuol dire la scenetta che c’è nel film. E la vittoria del terribile Agenore – che si chiama proprio come Age, che però non sapeva nulla degli ‘Gnaccini perché era nato a Brescia – è una rivincita contro il destino infame dell’infanzia, di tutti i ragazzini romanacci che hanno sempre perso sfidando gli ‘Gnaccini. Come il piccolo Furio.

Povero Furio! Con quel nome da ammazzasette, degno di un antico romano, costretto dalla vita a diventare grande troppo presto, costretto a buttarsi nella mischia, a cercare lavoro a quattordici anni, perchè il padre, il grande, geniale Filiberto è scomparso.

Filiberto finì la vita tragicamente, con una morte feroce, spaventosa. E’ difficile trovare notizie su quest’evento, ignorato dai giornali. Ancora dopo tanti anni era un motivo di accorato sgomento in quell’uomo mite che era Furio, tutt’altro che un guascone e un rodomonte. Filiberto, l’artista che la gloria aveva tenuto tanto tempo per mano e che la vita e l’età cominciavano a scuotere rudemente, fu ucciso a via della Lupa, il pomeriggio dell’8 agosto 1933, da un oste, con cui era in debito di tante minestre, un assassino talmente maldestro, talmente fuori di sé, che si uccise subito dopo con la sua stessa pistola, inciampando su un sampietrino3.

Tutto, dal nome sinistro del vicolo buio, al furore futile, distruttivo e autodistruttivo dell’assassino, avvolge la vicenda nell’alone irreale di un’allucinazione, un incubo mostruoso vissuto da svegli. All’assurdità della morte in quanto tale si aggiunge l’assurdità di una morte grottesca, l’epilogo paradossale di una vita bonariamente paradossale, sempre allegramente sopra le righe, che termina beffardamente al di sotto di ogni aspettativa.

Ho parlato tante volte con gli eredi delle osterie dove Trilussa pagava un piatto di pasta con una poesia scritta col lapis e ho sentito tante volte mia nonna raccontare della processione di pittori bohémiens che pagavano con un quadro un piatto caldo alla trattoria di sua madre a via del Mancino. La Roma degli inizi del secolo era generosa con tutti i suoi Rodolfo e le sue Mimì. Tra loro aveva un posto d’onore il celebre “mangiapreti”, il mefistofelico Filiberto Scarpelli, con la “ gran cravatta alla La Vallière,” che “faceva parte della divisa degli artisi ma anche dei repubblicani”; Scarpelli che con il suo satanico cipiglio si ergeva contro il mondo come Farinata all’inferno, disegnando giorno e notte in un’ umida soffitta con la “papalina in testa, gran naso ricurvo, spesse lenti da miope, collo lungo, pomo d’Adamo pronunciato, e la famosa cravatta alla Lavallière che però non si vedeva, perché Scarpelli se ne stava tutto ravvoltolato in uno sciallone grigio visto che nella soffitta non c’era riscaldamento e si moriva di freddo4”.

Filiberto Scarpelli al naturale e ritratto da Furio Scarpelli

Ma nel 1933 le cose erano cambiate. Nel 1933 i “cantastorie” erano stati sconfitti, umiliati: il vecchio Galantara doveva pubblicare disegni di nascosto, anonimi. Il vecchio Scalarini, tirava avanti a fatica, chiuso in casa, dopo le botte dei fascisti. E anche chi aveva saputo destreggiarsi col nuovo regime, come l’anziano Scarpelli, sopravviveva a stento. Nello Strapaese, popolato di Indifferenti e di spie del regime, non c’era più posto per per chi dicesse “in povertà mia lieta scialo da gran signore”, cullato dalla sua arte e dai suoi sogni; né per gli anarchici e i ribelli, anche se erano ex-anarchici e ribelli azzoppati. Non era una questione politica. Era una questione antropologica. Gli italiani, che smaniavano per un posto al sole, non ne volevano più sapere di chi restava nell’ombra.

La morte sorda e angosciosa di Filiberto mi ha sempre fatto venire in mente la Milonga de Jacinto Chiclana di Jorge Luis Borges. Jacinto, un valiente, un vero uomo, secondo il codice d’onore dei bassifondi di Buenos Aires a Balvanera, viene ucciso vigliaccamente “in una strada qualunque”, da un codardo che ha un coltello e lo colpisce senza pietà.

Nessuno con passo più saldo

avrà calpestato la terra.

Nessuno come lui. Calmo,

sfidando l’amore, la guerra.

In aria, sull’orto, sul patio,

le torri di Balvanera…

E quella morte… Una strada

qualsiasi, per caso, una sera...5

Quando chiesi a Borges, in un’intervista6, perché aveva scritto questa canzone, mi disse con un sorriso strano e triste che Jacinto è il nome di un fiore e gli era sempre sembrato che questo “fiore del male”, la materializzazione dell’assurdo dell’esistenza, fosse il riaffiorare continuo della vita immortale della poesia che, come dice Baudelaire, sa dare voce “ai fiori e alle cose mute”. E questo, anche se non lo ha mai detto, può averlo pensato anche il piccolo Furio, ancora sgomento per il suo incubo. Avrà pensato, con gli occhi pieni di lacrime, che la sfida contro questo mondo di bottegai e di ‘Gnaccini, questa volta, l’unica volta, la vinceva lui. La vincevano i Gianburrasca, gli Agenore, quelli piccoli, piccoli, come Rascel, il piccoletto, che canta: “Noi siamo piccoli, ma cresceremo… Noi siamo piccoli, ma dateci del Lei!”.

E fu così che la razza dei “cantastorie” rinacque. E del resto come poteva essere altrimenti? Al di là dei drammi personali e al di là del dolore cocente di chi perde quello che ama, il “cantastorie” canta la storia, come dice il suo nome. E la storia, come un fiume in piena, come la puoi fermare?

Ma se capisci qualcosa della commedia umana, allora capisci pure la differenza tra i vortici dei mulinelli e la direzione della corrente e senti, istintivamente, che il grande fiume del tempo va per la sua strada e tu puoi solo salirci sopra con la tua zattera e lasciarti andare , come Hucklberry Finn, in cerca di una vita nuova.

NOTE

1 “Il racconto prima di tutto” come ripete più volte in una lunga intervista lo stesso Scarpelli in un bel documentario scritto da Giacomo, suo figlio, insieme a Francesco Ranieri Martinotti che si chiama proprio così (Il racconto prima di tutto, di G. Scarpelli-F. Ranieri Martinotti, regia di F. Ranieri Martinotti, 2013).

2  F. Scarpelli , Sapienza ed eclettismo della semplicità. Vittorio De Sica, Sergio Tofano, Achille Campanile, in “Aperture”, 8 (2000), pp. 32-36.

3  La tragica morte di Filiberto Scarpelli, in “Il Messaggero”. 9/8/1933, p. 4.

4 G. Mosca, La signora Teresa, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 37-38.

5  La traduzione è mia. Il testo originale dice:

Nadie con paso más firme

habrá pisado la tierra.

Nadie habrá habido como él

en el amor y en la guerra.

Sobre la huerta y el patio

las torres de Balvanera

y aquella muerte casual

en una esquina cualquiera.

(J. L. Borges, Poesía Completa, Barcellona, Debolsillo, 2016, pp. 273-274).

6 Pubblicata insieme a Rosalba Campra in R. Campra, America latina: l’idemtità e la maschera, Roma, Meltemi, 2000, pp. 137-140.

   MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

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