«Storie di partigiani senza confini»

Gregorio Piccin sul libro di Giacomo Scotti

Come ti chiami?” – chiesero i partigiani – “Chiamatemi come vi pare, anche diavolo!” – rispose Eustachio Votto.

Eustachio, contadino pugliese classe 1916, nel maggio del 1941 presta servizio presso un presidio d’occupazione dell’esercito italiano in Dalmazia sulla foce della Neretva col grado di sergente. Non è ancora diventato “Diavolo”: chiamato alla leva nel 1935 il regime fascista lo aveva mandato a “costruire l’impero” in Etiopia, poi l’Albania e poi la guerra di Grecia. Testimone di un orrore durato sei anni, appena arrivato in Jugoslavia non esita un istante e prende contatto con le forze partigiane. Ogni volta che si prepara un rastrellamento lo comunica tempestivamente permettendo ad intere famiglie destinate alla deportazione di mettersi in salvo. Poi comincia a fornire munizioni e bombe a mano ai nuovi compagni finché non viene colto sul fatto dai superiori. La sua fucilazione è imminente ma la notte dell’8 marzo 1942 il sergente Votto viene liberato dai partigiani jugoslavi: compie ventisei anni e diventa “Diavolo”.

Finita la guerra di Liberazione, due volte ferito alle gambe e al ventre, “Diavolo” si ferma nella sua terra d’adozione, si sposa e mette su famiglia. Molti fecero come lui.

Il diavolo pugliese è una di quelle “briciole di un’epopea” che Giacomo Scotti raccoglie dagli scaffali, dai faldoni e dai cassetti di quel monumentale archivio di storia jugoslava che è la sua casa a Rijeka (Fiume).

Le Storie di partigiani senza confini raccolte in questo libro ci portano in ogni angolo dell’ex Jugoslavia: dall’Istria al Montenegro, dalla Serbia alla Dalmazia passando per la Bosnia, percorrendo sentieri e ingaggiando battaglie dai monti, alle pianure al mare. Persino in cielo ritroviamo avieri partigiani italiani prestare servizio nell’aviazione dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo.

Microstorie che Scotti ricostruisce attraverso l’incrocio di vecchie interviste, di appunti e ricerche disseppellite da “tonnellate di carte” e rammaricandosi del fatto che “…chissà quante altre sono rimaste ancora nascoste, irraggiungibili.”

Ma già queste biografie e le foto che arricchiscono l’opera sono sufficienti per offrirci un racconto corale, al tempo stesso avventuroso e doloroso, della fratellanza e dell’internazionalismo che il movimento antifascista europeo arrivò ad esprimere in particolare in Jugoslavia.

In quel Paese, ci ricorda Scotti, furono oltre quarantamila gli italiani che combatterono nelle file dell’Esercito partigiano jugoslavo e metà di questi caddero sul campo. Furono cinquanta le grandi e piccole formazioni italiane mentre non si contano i gruppi e i singoli sparsi in centinaia di reparti jugoslavi.

Ma soltanto un migliaio di quei quarantamila fece la scelta di campo del “diavolo pugliese” disertando dall’esercito di occupazione ben prima dello sbandamento seguito all’8 settembre.

Ed è proprio da questo dato e dalla breve e significativa appendice “Episodi di fraternità” che si comprende come questo lavoro di Scotti non sia una semplice raccolta di memorie ma uno strumento necessario e imprescindibile per affrontare a viso aperto la narrazione anti-slava, anti-comunista e anti-partigiana oggi dominante sulle vicende del “confine orientale”.

Gli slavi venivano considerati “barbari” da Mussolini e questa definizione servì a giustificare tutte le efferatezze che seguirono l’occupazione italiana: rastrellamenti, campi di concentramento, brutali rappresaglie, villaggi incendiati. In due anni di occupazione molti tra i quarantamila italiani, passati poi nelle fila partigiane, parteciparono a quelle azioni di guerra che colpirono duramente la popolazione civile. Eppure gli “slavo-comunisti” (definizione dispregiativa in voga oggi per indicare i partigiani jugoslavi) dopo l’8 settembre non si accanirono sui loro occupatori ma li aiutarono a sfuggire dalla deportazione in Germania o dai campi di prigionia in cui vennero rinchiusi dai nazisti, li nascosero dai rastrellamenti, dove possibile offrirono loro mezzi e vie di fuga per rimpatriare immediatamente; a tutti offrirono la possibilità di diventare partigiani e combattere il nazifascismo.

I partigiani jugoslavi, proprio in virtù della loro visione internazionalista e di classe, non attribuirono agli “italiani” in quanto tali la colpa della brutale occupazione ma seppero distinguere fra mandanti, alti ufficiali e disgraziati concedendo a questi ultimi la libertà e l’opzione del riscatto. Di fronte a questa incondizionata dimostrazione di fratellanza e solidarietà, l’Italia post bellica si rifiutò di consegnare alla Jugoslavia i seicento criminali di guerra responsabili dei documentati massacri avvenuti nel corso dell’occupazione italiana.

Storie di partigiani senza confini è un libro che con le sue avventurose “briciole” rende evidente l’irresponsabilità storica e politica di chi, come lo stesso presidente della Repubblica Mattarella, parla di “pulizia etnica” subita dagli italiani in Jugoslavia mentre Giacomo Scotti si riconferma uno dei più validi punti di riferimento per chi voglia davvero comprendere la storia di quel Paese e le storiche responsabilità del nostro.

STORIE DI PARTIGIANI SENZA CONFINI – Briciole di un’epopea

di Giacomo Scotti

Ed. KappaVu: p. 260, euro 18

 

Redazione
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Un commento

  • Questo articolo è una ferita al ventre, sanguina l’oggi misero di coraggio, di nobiltà di cuore, paragonato all’ieri di scelte assolute, in cui in gioco c’era la vita e la giustizia. Il diavolo diventa angelo, il soldato si scopre uomo. Bellissimo racconto.

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