Su «La mia vita con gli zingari» di Polansky

L’ultima frase del libro è quanto di più controcorrente si possa, di questi tempi, leggere: «So che, quando sarò vecchio, sarà probabilmente una famiglia di zingari a prendersi cura di me fino alla mia morte, e non uno dei miei 4 figli. Grazie Dio, per aver creato gli zingari; possano essi ereditare la terra».

A scrivere queste parole è Paul Polansky, statunitense di lontane origini ceche. «Ho vissuto con loro da antropologo, storico, giornalista, fotografo, romanziere, poeta e attivista per i diritti umani». Loro sono i rom, o meglio gli zingari come preferisce chiamarli. Il libro si intitola appunto «La mia vita con gli zingari» (Datanews: 208 pagine per 18 euri) con la prefazione – sincera e carica di dubbi intelligenti – di Pietro Marcenaro che per 18 mesi ha lavorato con la Commissione del Senato «per la tutela e la promozione dei diritti umani».

Quasi un predestinato Polansky. Alla sua prima notte a Madrid, nell’ottobre 1963, incontra una zingara e attraverso lei conosce una comunità di «meravigliosi mascalzoni che alzano la testa di fronte all’ipocrisia della società corrotta». Non è però questo primo approccio a spingerlo a diventare uno studioso e poi un militante per i diritti umani ma l’aver incontrato Frantiska. Nel ’91 Polansky è nel Sud della Boemia per condurre ricerche genealogiche. Lì inizia una storia “d’amore” – ma del tutto fuori dal tempo oltrechè dalla logica – quando guarda la foto di una ragazza (Frantiska Petrzilkova) spedita in un lager nell’ottobre 1942. «Il mio sesto senso diceva che era ancora viva». Comincia la lunga ricerca e, anche se questo non è un giallo, bisogna tacere la soluzione del mistero. Per sapere la verità Polansky inizia a viaggiare. Per raccogliere testimonianze e poi filmare 400 storie orali, Polansky attraversa 18 Paesi. E cercando l’origine degli zingari finisce in India. La quarta e decisiva tappa della sua vita è il Kosovo, in un campo dove le Nazioni Unite dovrebbero difendere i “rom” ma li sistemano in una discarica tossica dove i bambini (27 in pochi anni) muoiono per il piombo e che paradossalmente viene soprannominato «Osterode ovvero più sicuro del piombo». Verità taciute con il tentativo di far licenziare la giornalista del «Wahington Post» che rilancia le denunce di Polansky. Storie tragiche ma con qualche appiglio alla speranza e al sorriso come quando un autista danese spiega a Polansky che lui non può far scappare gli zingari di là ma che se fosse dirottato… come potrebbe opporsi? O con Polansky che incoraggia un suo studente zingaro a scrivere; lui dedica 300 poesie d’amore alla stessa ragazza; «lei ne fu impressionata ma sposò un altro».

Anche la quinta “vita” di Polansky è in Kosovo fra il 2000 e il 2005 e il suo racconto degli “aiuti umanitari” e del ruolo giocato dell’Unione europea è spesso desolante. C’è tutto: viltà, razzismo, sadismo, stupidità.

La seconda parte del libro è di tutt’altro genere, scritta più dal ricercatore che dall’attivista o dal giornalista: tenendo fede al sottotitolo del libro («Origini e memorie degli zingari d’Europa») Polansky si muove fra Europa, Egitto, India alla ricerca delle radici di una popolazione che probabilmente è… tanti popoli diversi (con 27 dialetti principali ma derivati da un’antica lingua comune, il sanscrito). Grazie ai test sul Dna, ora si è certi che i popoli definiti zingari sono originari dell’India da dove si mossero circa 1000 anni fa. Ma sui loro passaggi in Europa o Medio Oriente, o persino sul loro numero attuale, pochissime sono le certezze. Molto interessanti le ipotesi di Polansky a proposito di una malattia (piebaldismo) dalla quale nasce probabilmente l’abitudine dei rom di tenere memoria della genealogia per non sposarsi fra parenti. Ma sono affascinanti anche le leggende, l’intreccio fra religioni vecchie e nuove, le tradizioni, l’arte del raccontare o far musica.

La simpatia che prova per gli zingari non gli impedisce di scrivere che alcuni ladri, anzi «predatori», esistono ma che . dovrebbe essere ovvio ma così non è – le loro colpe non debbono ricadere su un intero popolo come non si potrebbe accusare l’Italia intera di essere mafiosa per colpa di alcuni.

In qualche punto il libro è disordinato, talvolta ripetitivo e con errori fastidiosi (che un tempio sia stato distrutto nel 985 o nel 1985 non è indifferente) dovuti forse a una stampa frettolosa. Ma sono peccati veniali. «La mia vita con gli zingari» offre storie, informazioni, riflessioni quasi a ogni pagina. Denuncia che oggi in Europa i rom attraversano «il peggiore momento storico». Il caso più clamoroso è in Kosovo, per mano di quelli che in teoria dovrebbero difenderli: lo denuncia anche Thomas Hammarberg (della Commissione europea per i diritti umani) il quale dopo aver visitato i campi nel 2009 e 2010 ha parlato della «più grave violazione dei diritti umani in Europa nell’ultimo decennio». Da volontario, giornalista e documentarista, Polansky non si stanca di raccontare l’infamia del Kosovo ma anche quel che succede nella Repubblica Ceca (la polizia che aiuta gli skinhead ad attaccare i rom) o in Slovacchia e purtroppo altrove. Non ha torto Pina Piccolo nel definire – sulla rivista «Sagarana» – Paul Polansky «una spina nel fianco di chi perseguita i rom».

UNA PICCOLA NOTA

Questa mia recensione – in una versione ridotta – era da tempo ferma. Per le più disparate ragioni capita che alcuni miei articoli non escano e ovviamente mi dispiace… Ho la soddisfazione (magra?) di poterli recuperare – e ampliare – in blog. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

5 commenti

  • Il 20 Ottobre scorso a Cagliari ho avuto il grande piacere di conoscere personalmente Paul Polansky.
    Il giorno dopo, spontaneamente e con grande generosità si è reso disponibile ad incontrare gli studenti dell’ Alberghiero, testimone di vicende cariche di emozione e sofferenza ma anche foriere di speranze di riscatto.
    Ascoltandolo i ragazzi sono entrati in contatto con il coraggio di un uomo che non ha mai consentito alla storia di imprigionarlo ma ha scelto di condividere “sudore e sangue “con coloro di cui andava indagando.
    Profondo conoscitore della storia del popolo Rom, il poeta-antropologo, è attivamente impegnato come difensore dei diritti delle popolazioni Rom in Kosovo.
    Leggendo i Suoi testi ho trovato la conferma di quanto sia universale il linguaggio della poesia, capace di unire gli uomini, e di tendere mani verso l’incomprensibile per renderlo luminoso, anche nel dolore.
    Aspetto ancora più significativo se letto alla luce di alcuni versi dello scomparso Andrea Zanzotto quando dice in questi ” tempi che civettano sinistramente da notte dei tempi, tempi che strapiombano” versi nei quali , il poeta, per liberarsi dalla sensazione di malessere dettata dalla palese ingiustizia di una società cieca e sorda aggiunge” in questo progresso scorsoio non so se vengo ingoiato o se ingoio”.
    Ecco Polansky è fratello di Zanzotto nel mettere a nudo le storture e le ingiustizie che caratterizzano le società moderne. La sua attenzione si ferma sulla violenza cui i Rom sono stati “ condannati” da un pregiudizio atavico, fatto di luoghi comuni, leggende metropolitane e insofferenza.
    Insomma capro espiatorio per chi, come gli Skinheads, e la loro follia sanguinaria, di cui Polansky racconta, cercano modi per sfogare la loro infame sete aggressiva sui più fragili, aggiungendo sofferenza a discriminazione.
    Polansky, che con i Rom ha vissuto a lungo, dopo essersi occupato di indagare in Cecoslovacchia sugli orrori che hanno portato al loro sterminio nei campi di concentramento, è testimone attento dell’ originalità e dell’ unicità della cultura Rom che , paesi come la Spagna , hanno saputo accogliere e far propria.
    Scrivere acquista allora il valore supremo di denuncia etica e civile, non sempre facile ma mai banale.
    “Scrivo affinché i miei pensieri,/ le paure, gli errori e le emozioni/ siano letti e perdonati// penso che metterò la mia vita nell’ ambra/ anche se potrebbe finire / sepolta nel fango, / trasformata in fossile/ invece che in tesoro.//
    Ad ogni modo morirò intrappolato in qualche cosa.
    “Così racconta il poeta ciò che è alla radice dl suo scrivere. Ad ascoltarlo si impone improvvisa come una folgorazione l’immagine del “bivacco di Zingari” di Vincent Van Gogh del museo D’Orsay e assieme si stagliano profetiche le parole di Fabrizio de Andrè quando, riferendosi a certe idiosincrasie di una parte politica (capace di rappresentare solo se stessa o tutt’al più la pancia della parte più bieca del suo elettorato) dice: “Si lamentano degli zingari; guardate come vanno in giro a supplicare l’elemosina di un voto: non ci vanno mai a piedi però, hanno autobus che sembrano astronavi, treni, aerei; e guardateli quando si fermano a pranzo o a cena , stanno mangiando con coltello e forchetta e con coltello e forchetta si mangeranno anche i vostri risparmi.
    L’Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi 100 uomini appartengano all’ Italia?” Da qui bisognerebbe ripartire, dallo zingaro che ci abita dentro e che non è più disponibile a farsi rinchiudere in nessun campo. Polansky lo ha saputo testimoniare .
    Mi faceva piacere , a corollario del tuo articolo , Daniele, ricordare l’ incontro con quest’ uomo così generoso. nella riflessione che proposi allora agli studenti

  • Ho avuto la fortuna di accompagnarlo spesso nei suoi giri in Lombardia e di conoscerlo abbastanza bene.
    Attivista? Certo, ma soprattutto un attento cronista, che usa la poesia come un coltello… o un pugno…
    C’è un suo libro, Boxing Poems, dove smette i panni dell’eroe positivo, e credo sia fondamentale per capire la strada percorsa da quest’uomo

  • Conoscere la storia, magari anche quella genetica, per esserne consapevoli ci rende più umani!!!

    LA STORIA GENETICA DELLA DIASPORA ROM – http://www.lescienze.it/news/2012/12/07/news/rom_europei_diffusione_genetica_storia_migrazioni-1407072/ – 07 dicembre 2012
    La più grande minoranza europea – che conta complessivamente ben 11 milioni di persone – lasciò l’India nordoccidentale 1500 anni fa per arrivare 600 anni dopo nei Balcani, e da qui diffondersi in tutta Europa, ricevendo un ridotto ma chiaro apporto genetico dalle altre popolazioni europee (red)

    Le popolazioni rom europee oggi si differenziano fra loro per lingua, stili di vita e religione, ma provengono tutte dalle stesse regioni dell’India, da cui sono migrate circa 1500 anni fa. E’ quanto risulta da una ricerca genetica pubblicata sulla rivista “Current Biology” che ha analizzato i dati relativi a 13 gruppi di rom che vivono in diverse nazioni.
    Con 11 milioni di persone, sia pure disperse in molti paesi, i rom rappresentano la più grande minoranza europea : una popolazione numerosa quanto quella di nazioni come la Grecia, il Portogallo e il Belgio. Il popolo rom, però, non ha documenti storici scritti sulle proprie origini e alla sua diffusione. Proprio per colmare questa lacuna, David Comas e Manfred Kayser dell’Università Erasmus di Rotterdam, nei Paesi Bassi – con la collaborazione di numerosi colleghi di molti paesi – hanno intrapreso il loro studio. “Eravamo interessati a esplorare la storia dei rom europei perché costituiscono una frazione importante della popolazione del continente, ma la loro situazione di emarginazione in molti paesi sembra aver influenzato anche la loro visibilità negli studi scientifici”, ha spiegato Comas.
    Analizzando circa 800.000 polimorfismi di singolo nucleotide di 152 persone rom appartenenti a 13 differenti gruppi, e confrontandolo con le basi di dati genetiche disponibili relative a numerose altre etnie europee e non europee, i ricercatori hanno potuto stabilire che la popolazione originaria è partita circa 1500 anni fa dalle regioni nordoccidentali dell’India, per dirigersi dapprima verso il Medio e Vicino Oriente. La successiva migrazione verso il continente europeo, avvenuta attraverso i Balcani, è iniziata invece circa 900 anni fa. Giunti in Europa, i rom, rimasti fino a quel momento geneticamente molto “compatti”, con limitatissimi scambi genetici con le popolazioni mediorientali, sono stati protagonisti di una vera e propria diaspora.
    Dall’analisi dei dati genetici è risultato anche che durante il periodo mediorientale i rom hanno subito una drammatica involuzione demografica: la popolazione diminuì fino al 47 per cento di quella originaria. Ma un altro “collo di bottiglia” demografico si verificò non molto dopo l’arrivo in Europa, questa volta con una riduzione della popolazione del 70 per cento rispetto a quella che aveva passato il Bosforo. Nei secoli successivi la situazione migliorò.
    Questi colli di bottiglia hanno verosimilmente influito sul peso degli apporti genetici ricevuti da altre popolazioni europee non rom: gli attuali rom europei appaiono geneticamente ben distinti da quelli oggi presenti in Asia. Tuttavia, l’apporto ricevuto non è stato tale da renderli molto omogenei alle altre popolazioni europee, complice la forte tendenza all’endogamia della loro cultura. L’analisi genetica rivela infatti una parentela molto più stretta fra i gruppi rom presenti in paesi anche molto lontani che con gli altri europei. Con un’eccezione: i rom insediatisi nel Galles mostrano una forte deriva genetica con significativi apporti di europei non rom.

  • AGGIORNAMENTO (da “Corriere dell’immigrazione”, aprile 2013)
    Note a margine, la rubrica di Clelia Bartoli
    Gelem gelem, l’inno dei Rom
    L’8 aprile del 1971, rom e sinti di tutto il mondo, riuniti in Congresso a Londra, si proclamarono ufficialmente “popolo”. Tale passaggio, apparentemente simbolico, fu importante perché un popolo, pur privo di territorio e di stato, è un soggetto che ha riconoscimento e diritti alla luce del diritto internazionale…
    Continua a leggere…

Rispondi a Daniela Pia Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *