Succede ad Anarres

Una discussione a più voci presentando la rivista «Un’ambigua utopia» e il libro «Dal cyborg al post-umano»

Anarres è un pianeta arido dove vive una società utopistica, libertaria, gemello di un altro pianeta, Urras, florido, prosperoso e capitalista (*). Come nella tradizione della solita sfiga di chi si ostina a inseguire l’utopia. A tal guisa, sembrerebbe proprio che l’apertura di una libreria a nome Anarres non potesse essere fatta che nell’imminenza di una catastrofe globale. Una vendetta della reazionaria Urras? Ma Anarres, libreria bistrot milanese in una via storicamente difficile (ma sempre capace di resistenza e creatività per coesistere con una realtà multietnica complessa e complicata) ha saputo reagire e riaprire con una forza e un’energia che solo i sognatori irriducibili, quelli che lottano per il possibile contro il probabile, hanno saputo sempre mostrare. E in questo interstizio tra la realtà precaria di via Padova e quella di una emergente speculazione di Nolo (**) che sabato 10 ottobre si è tenuta la presentazione di Un’Ambigua Utopia numero 10 (***) e del libro di Antonio Caronia “Dal cyborg al postumano” (****) edito quest’anno da Meltemi, curato da Loretta Borrelli e Fabio Malagnini). Qui di seguito cerhiamo di darne un resoconto parziale e ambiguo per farne risaltare, il più possibile, i punti critici ed evidenziare quel balbettio del pensiero la cui emersione è il compito della fantascienza d’oggi. Compito sempre più difficile in una realtà che tende sempre più a dirigere le nostre menti e ad annullare ogni pensiero divergente.

L’introduzione di Andrea Bonato della libreria Anarres
A tutti il benvenuto, ben trovati ad Anarres. Come spesso accade, anche oggi abbiamo voluto lanciare l’iniziativa a partire da un interrogativo. Una domanda che risuona negli ultimi anni, che in questo 2020 riecheggia con più fragore. Una domanda provocatoria, ormai forse non più così tanto. La parola
fine sembra essersi fatta spazio, con qualche arroganza, nel comun parlare, forse non se ne parla con la stessa intensità in coda dal panettiere, nelle accademie tra gli esperti, in modo più o meno informale tra amici e compagni, fatto sta, però, che se ne discorre; è l’estensività a stupire. La prospettiva della fine si impone con prepotenza, non possiamo che domandarci di che fine si tratti, quale fine siamo pronti ad accogliere.

È dunque il momento di cominciare: fine del mondo o fine dell’uomo?

Della fine del mondo si è parlato molto, con più o meno rigore scientifico; surriscaldamento globale, cambiamenti climatici, diminuzione della biodiversità sono tutti fattori a più riprese indicati per rendere rigorose le tesi proposte sul punto d’arresto del pianeta. Sarà vero? Sicuramente probabile; eppure quest’ultima verità svuota di senso ogni possibilità di pensare altrimenti, e nonostante, ha come rischio quello di immobilizzare la vita, di suggerirci una postura passiva di fronte all’attesa dell’inevitabile; la fine del mondo.

Noi ci siamo incontrati con la comune volontà di non essere apocalittici. Quando i nostri sguardi si sono intrecciati abbiamo capito che non è nostro interesse aspettare che il mondo appassisca e con una piacevole irriverenza abbiamo provato a riportare il termine fine sulla figura dell’uomo. Anche qui però bisogna subito porre un chiarimento. Fine dell’uomo non possiamo arrenderci ad intenderla come scomparsa assoluta del genere umano, come estinzione di massa della specie. Ancora una volta sarebbe troppo semplice o quanto meno un orizzonte fin troppo inevitabile per impegnare qualcuno in qualsivoglia attività, anche riflessiva.

Quando parliamo di fine dell’uomo è perché vogliamo fare una scommessa. Vogliamo porre come inevitabile la fine di un certo modo di abitare questo mondo. Un modo di vivere insostenibile non solo per noi e per l’ecosistema al quale partecipiamo, ma insostenibile anche dal punto di vista dell’immaginario. È innegabile, immaginare qualcosa nel futuro è sempre più difficile, le promesse con le quali siamo stati addomesticati si stanno rivelando inconsistenti e sembrano lasciare spazio ad uno schermo nero, uno schermo nero oltre il quale non c’è più nulla da fare. L’uomo occidentale sembra dunque avvicinarsi al suo capolinea. Parliamo dell’uomo moderno, figlio dell’illuminismo e dell’umanesimo, ambientato in una società gerarchica, patriarcale, una società costruita su rapporti di dominio, non solo tra uomo e uomo, ma tra uomo e natura, tra uomo e tutto ciò che ha a che fare con esso. Stiamo parlando di noi, e del nostro modo di abitare il mondo, un modo che ha sempre più difficoltà ad accogliere ed integrarsi all’alterità, al diverso.

È dunque questa la fine che siamo pronti ad accogliere. È questa l’unica prospettiva che ci spinge qui ed ora a vivere in modo diverso, a ripensare a noi ed al termine uomo, senza bisogno di aspettare la fine del Mondo. Vogliamo avventurarci in questa discussione alla ricerca di nuove alleanze e strumenti per riconsegnare al futuro nuovi colori, per immaginare altri mondi possibili. Per partecipare alla costituzione di un popolo (o di popoli) a venire.

Giuliano Spagnul

Innanzitutto vorrei inquadrare il contesto storico e culturale in cui è nata la rivista di Un’Ambigua Utopia nella seconda metà degli anni ’70. Per quanto riguarda la fantascienza, a Milano dove già era nata Urania e la casa editrice Nord specializzata in SF, nel 1976 nasceva la rivista Robot. C’era una libreria specializzata “La bottega del fantastico” e nell’’80 per pochi anni “La porta dell’immaginario” (libreria della cooperativa Un’Ambigua utopia) e la maggioranza delle librerie aveva un settore dedicato alla SF. Inoltre dal ’75 scoppiò la moda delle rassegne di cinema di SF, il cinema-teatro Arcadia con una programmazione fittissima da maggio a luglio del ’75 e poi l’Anteo, il Nobel, e tanti altri fino all’Argentina che sfrutterà all’estremo questa vena del fantastico seguita da una notevole massa di persone al di là dei soliti appassionati del genere. All’inevitabile prosciugamento del filone si assisterà all’avvicendamento del fenomeno delle luci rosse. Per quanto riguarda il movimento antagonista, nella seconda metà degli anni ’70 assistiamo all’ibridazione (sempre conflittuale) tra quelle due anime del movimento (underground e politica) così ben documentate e analizzate nel libro di Primo Moroni e Nanni Balestrini, L’orda d’oro. Il festival di Re Nudo a Parco Lambro nel ’76 rappresenterà il punto di maggior visibilità dello scontro tra queste due anime e al contempo del desiderio della ricerca di una possibile coesistenza. L’espansione del conflitto negli altri settori della società oltre a quelli soliti degli studenti e degli operai, insieme a quella forza emergente del femminismo acutizzano il fenomeno della crisi della militanza nella sua doppia valenza, quella negativa di abbandono dell’impegno politico con conseguente rifugio nel privato e quella positiva di scelta per un impegno diverso. In concomitanza si assiste al nascere dei centri sociali e dei circoli del proletariato giovanile. Il tutto accompagnato da un interesse verso settori tradizionalmente ostracizzati dalla sinistra come l’irrazionalità, la magia, le religioni, il corpo, la festa, le droghe, i bisogni, ecc. ecc. (e la fantascienza…). È in questo quadro, in questo riassunto tagliato via un po’ con l’accetta, che nasce nel 1977 la rivista Un’Ambigua Utopia (grazie all’ausilio di Vittorio Curtoni che mette in contatto il sottoscritto con un piccolo gruppo di cinque compagni della Brianza che tenevano una rubrica di fantascienza (chiamata UAU, Un’Ambigua Utopia) a Radio Montevecchia (una delle tante radio libere di allora). Ma non mi interessa fare qui la storia di UAU quanto piuttosto evidenziare le caratteristiche conflittuali che hanno caratterizzato la sua nascita e il suo sviluppo. La dicotomia fra un’anima più settantasettina, coinvolta nelle istanze del movimento e una più di sinistra classica, più tradizionale; ma lascio qui la parola a quanto scritto da Antonio Caronia a questo proposito: «mai, in nessun momento, fummo interessati a promuovere una “fantascienza di sinistra”, e in fondo neanche una “lettura di sinistra” della fs; mai ci ponemmo come obbiettivo di destabilizzare il fandom, le riviste di fs o I’editoria di fs. Che marcissero nel loro brodo. Nell’editoriale del n.1 della rivista tutto questo è scritto a chiare lettere, addirittura maiuscole:

Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza.

VOGLIAMO DISTRUGGERLA.

Nel senso che vogliamo rompere questo involucro, questo contenitore che si chiama fantascienza,

e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova fuori.

(…)

Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare».

Pratica dell’obbiettivo, pratica dell’utopia. sarà pure stata una formulazione rigida e ingenua, ma non li sentite gli echi degli slogan del 77? Dei volantini dei circoli dei proletariato giovanile? Non la vedete I’assonanza con le pagine di A/traverso, la sintonia con le trasmissioni di Radio Alice?”

In realtà abbiamo anche promosso “fantascienza di sinistra”, operato “lettura di sinistra” e ci siamo divertiti a destabilizzare il fandom quando possibile. Ma ciò che ha fatto Antonio, che è entrato nel collettivo nel ’78 spostando di fatto gli equilibri di forza verso l’istanza più movimentista, è di aver impedito una progettualità della rivista che avesse questi tipi di obiettivi. Ha favorito una visione aperta al possibile e non al probabile. Una progettualità più di sinistra (nel senso classico del termine) avrebbe dato a questa esperienza delle gambe autonome per discernere le probabilità migliori per durare nel tempo e svolgere il proprio lavoro politico (e nessuno vieta il pensare che ci sarebbero state probabilità che questa rivista sarebbe potuta sopravvivere fino ad oggi). L’assenza di una progettualità siffatta, concreta e realistica optando, di fatto, per il possibile, per ciò che è in divenire e non può essere sistematizzato e incanalato, lega quest’avventura al Movimento esistente in quegli anni e ne determina la storia nel destino comune. Gli inizi degli anni 80 con la fine del movimento, dell’utopia, del futuro ecc. significherà, ovviamente, anche la fine di UAU. E, cosa di non poca importanza, la fine della fantascienza (la tanto criticata, ma poco discussa, morte della fantascienza teorizzata ampiamente negli anni successivi da Antonio Caronia). A questo proposito in un articolo del 1999 “L’insostenibile naturalità della tecnica” (presente nell’antologia) scrive: «La fantascienza (non si può non essere d’accordo con Ballard) è stata l’immaginario portante del XX secolo. Ci ha fornito un riassunto e un epitome della storia precedente del mondo vista dal punto di osservazione di un presente in preda a una continua mutazione, ci ha fornito innumerevoli squarci di alterità, ci ha abituato a vedere il futuro non come uno sviluppo lineare del passato e del presente ma come una costellazione di possibilità; nel volgere di pochi decenni ha cantato l’ultimo inno, il definitivo, alle ‘magnifiche sorti e progressive’ dell’umanità, e ha irriso quel mito come nessun altro ha saputo fare, corrodendolo dall’interno e nutrendoci dell’immaginario della catastrofe e del dramma insito nella potenza della tecnologia. La domanda è: la fantascienza sarà ancora l’immaginario portante del nuovo secolo? La risposta è più probabilmente no che sì».

Se Antonio alla fine della sua vita fosse ritornato su questa domanda avrebbe risposto decisamente no! Perché quello che lui aveva qui descritto altro non era che la rappresentazione di un “dispositivo” al termine della sua funzione storica. «Ci ha fornito, ci ha abituato, ci ha nutrito» e dopo aver fatto questo, quel che ci rimane oggi di questo dispositivo è solo del residuale, della sopravvivenza. La fantascienza oggi, ha cessato di essere quel tipo di dispositivo, di assolvere quella funzione di permetterci di affrontare quella accelerazione del progresso che si è visto tra l’Ottocento e il Novecento. Da questo punto oggi rimane un puro residuo. Forse, quest’etichetta assolve ad altro? (I dispositivi quando “muoiono” non scompaiono di colpo, in parte diventano residui e in parte diventano altro). È una domanda interessante… ma non mi ci avventuro a rispondere qui. Oggi (da intendersi con oggi questi ultimi vent’anni) può rinascere, contro ogni pronosticabile allora, quella vecchia esperienza di UAU e può rinascere solo perché, a suo tempo, è potuta morire. Primo Moroni ci invitava a «dire sì al dramma esistenziale, alla non paura di morire un’altra volta di sé, della propria provvisoria identità precedente, eppure conquistata con grande fatica, per rinascere non tanto più forti quanto più complessi, quanto più disponibili e dotati di tante vite e non di una singola appartenenza». La ristampa della rivista e del libro Labirinti della fantascienza, l’Archivio in Cascina Torchiera, la mostra e iniziative collaterali a Mudima per Primo Moroni e Antonio Caronia, la digitalizzazione della rivista, gli incontri sulla fine dell’uomo a Piano Terra, Un’ambigua Utopia numero 10. Questa polvere di iniziative e di esperienze (a cura di tanti, alcuni dei quali qui oggi) auspichiamo sia proprio quel «rinascere non più forti ma più complessi» per tentare quella nuova grande avventura, indispensabile per sopravvivere in un pianeta infetto, auspicata da Donna Haraway e da Isabelle Stengers, di imparare a pensare insieme.

Fabio Malagnini

Nell’introduzione al libro «Dal cyborg al postumano», Alberto Abruzzese, legato da un rapporto di stima e amicizia con Antonio Caronia, si interroga sul suo essere stato, nella cerchia della sociologia dei media e della comunicazione, un “irregolare” che ha saputo vedere più lontano. Per Abruzzese, Antonio si è distinto per alcune caratteristiche: è sempre stato un attivista (e dice con affetto “forse antropologicamente un po’ trotzkista Antonio lo è rimasto”) con un’attenzione e un richiamo a elementi di conflitto e di antagonismo dentro la sua produzione. Inoltre, la sua formazione non umanistica, da matematico, laureato con una tesi su Chomsky, è rilevante nel suo modo di pensare, nel libro ad esempio c’è un bel saggio sul passaggio dal calcolo differenziale dell’Ottocento alla nascita del digitale. E poi, a partire dalla sua avventura con Un’Ambigua utopia la sua entrata nel mondo della fantascienza. Antonio è stato anche uno dei primi a utilizzare autori come Dick, Delany, Ballard (ma anche non di SF come DeLillo e Burroughs) dentro un contesto di riflessione filosofica. Un autore come Ghosh, ha osservato come la fantascienza, emarginata dal romanzo per bene dell’Otto/Novecento, sia stata l’unica narrativa che nel suo arco spazio temporale poteva abbracciare catastrofi, distruzioni , viaggi nel tempo, iperoggetti, etc e questo durante il periodo di massimo sviluppo industriale e di distruzione dell’ecosistema.
Provo a rispondere alla domanda di Andrea sulla fine dell’uomo, c’è un passaggio dove Antonio che riprende da Foucault (dal Foucault più classico, quello di Le parole e le cose dei primi anni Sessanta), l’uomo moderno, dice, è un costrutto che come tale nasce, funziona come dispositivo e poi muore. Negli anni Novanta Donna Haraway con il Manifesto Cyborg mette idealmente la parola fine su questa discussione. Per Antonio il cyborg rappresenta una discontinuità del capitalismo maturo, rispetto alle altre figure dell’uomo artificiale, prodotte dall’immaginario dell’Occidente a partire dall’antichità. Discontinuità rispetto al primo mostro moderno, il Frankenstein di Mary Shelley, prodotto non più della sfera del sacro ma dalla maggior tecnologia del secolo, e rispetto alla figura del robot che vede la luce a partire dagli anni ’20, Queste figure sono uno specchio delle vicende umane che in un qualche modo ripropongono i temi e le promesse della modernità. In particolare il robot con la variante dell’androide e quella che più riconcilia questo discorso con il ciclo industriale tradizionale fordista. 
Il cyborg, per Antonio, è consustanziale alla fase del neoliberismo e della svolta postindustriale. Il termine cyborg nasce negli anni ’60, viene ipotizzato da due medici americani in chiave biochimica, è l’ipotesi di fare un super soldato che fosse il più attrezzato possibile per andare nello spazio. In realtà nel nostro immaginario le declinazioni dei cyborg sono state più macchiniche, elettrotecniche e infine digitali. Per Antonio la figura del cyborg è quella di un corpo che è invaso e quindi sposta il diaframma tra il sé e il mondo e che, a questo punto, diventa anche protagonista di tutta una serie di adattamenti che oggi viviamo nel lentissimo declino del modello capitalistico, ed è quindi in un qualche modo un modello adattivo. Antonio poi andava oltre, nel senso che l’idea del cyborg si configurava in quello che lui definiva il corpo disseminato, una visione nata dall’osservazione nell’ambito delle reti degli anni ‘90. Di fronte a questa proliferazione il corpo assume la responsabilità di tenere assieme le componenti della presenza, laddove fino a pochi decenni prima questo era stato soprattutto il garante della persona. Tutto questo porta a dire, dal punto di vista di Antonio, ma non solo suo, che il discorso dell’uomo era bello che finito.
L’altro tema suggerito dal titolo è la fine del mondo, credo che Antonio, al contrario, i mondi interessassero non appena cominciano a essere tanti e sempre più numerosi. Aveva visto da vicino la prima ondata della realtà virtuale in Italia (Virtual) e preso parte a una serie di riflessioni partite anche da de Kerckhove, Pierre Levy e altri. Il rapporto fra interno ed esterno secondo Antonio si chiarisce nel momento in cui si solleva la cappa dell’unicità del mondo, e qui arriva a rinnegare in parte McLuhan col suo concetto di protesi. La protesi è qualcosa che presuppone il mondo in un qualche modo dato là fuori, dove cambia soltanto la tua percezione e la tua capacità di manipolazione. Visione ancora riconducibile alla modernità. Per Antonio questa concezione può essere abbandonata nel senso che la caratteristica del cyborg, che poi non è che l’essere umano nella sua storia come animale del possibile, come lo definisce in una delle sue ultime interviste; non specializzato e quindi aperto a varie declinazioni e in grado di proiettare (come si vede nei romanzi di Ballard) anche i propri mondi interiori nella realtà circostante. Il mondo del cyborg è quindi il mondo dove anche il diaframma tra interno ed esterno viene a cadere, o comunque, diviene molto più permeabile. Nel mondo della natura tecnologica, Antonio vede la potenzialità del virtuale e intravvede un campo di possibilità, di interventi, di negoziazioni anche politiche dentro un ambito… Se per un autore come Paul Kelly (con il suo Out of Control, un punto bene o male di riferimento negli anni ’90), rasenta il determinismo, per un autore “politico” come Antonio non è mai così. Questo lo porta spesso a polemizzare su due versanti, opposti. Da un lato, ad esempio con il transumanesimo alla Kurzweil, perché porta ad universalizzare una declinazione contingente e storica dell’homo sapiens storica, proiettandolo nel futuro una Singolarità che si basa, fondamentalmente, su una pessima epistemologia, dal punto di vista di quel che compone l’essere umano in quel momento. Dall’altra parte Antonio polemizza con i tecnofobi, che si tratti di Tomas Maldonado o di Pietro Barcellona, che proprio a sinistra non smettono di provare a separare natura e cultura, vedendo in genere l’apertura tecnologica come una regressione o come un salto verso uno stato innaturale. Vorrei finire con una frase di Antonio: che mi sembra sintetizzi il suo pensiero:come sempre la salvezza va cercata correndo incontro al pericolo non voltandogli le spalle».

Gruppo di ricerca Ippolita

Rispetto al discorso di Fabio vorremmo fare due passi indietro, cioè spiegare perché abbiamo voluto fare questo libro. Noi siamo un gruppo di ricerca tecno-politico attivo dagli anni ’00, le nostre radici sono il movimento e la controcultura. Conoscevamo Antonio Caronia e abbiamo sempre avuto stima del lavoro e da quando è venuto a mancare nel 2013 non abbiamo visto nessuno valorizzare la sua opera attraverso i suoi scritti. C’è stato un convegno a un anno di distanza, a cui abbiamo preso parte, e poi nulla.

Inoltre abbiamo notato, sempre negli ultimi anni e da parte di sedicenti esperti, un proliferare di discorsi vaghi, imprecisi, aleatori su, per esempio, il cyborg, il postumano, la differenza tra postumano e transumano, questioni centrali nella riflessione di Caronia. E quindi, abbiamo avuto voglia di andare a rileggere quello che scriveva Antonio su questi temi e da lì ci siamo accorti di quanto sarebbe stato importante recuperarlo, farlo conoscere o riscoprirlo.

Ci sembrava però del tutto inutile fare un’operazione puramente nostalgica o semplicemente “far sentire la sua voce”. Quello che ci siamo proposti, invece, è di fare in modo che le sue parole possano trovare un pubblico in grado di interagire con esse e farle risuonare nel presente. Per questo abbiamo selezionato un insieme di testi che possano valorizzare le sue analisi, oggi più necessarie che mai.

Ci siamo quindi rivolti subito a Loretta Borrelli che ha lavorato tanto con Antonio Caronia e che è anche una sua erede culturale. E, con il successivo arrivo di Fabio Malagnini nel gruppo di lavoro abbiamo cominciato a comporre questo libro, pezzo per pezzo. Tre sono i temi principali: il cyborg, la fantascienza, il postumano. Ma in realtà c’è un ulteriore elemento che raccoglie poi tutti questi articoli, un elemento di fondo che li tiene insieme, che è il riferimento al corpo e che attraversa l’analisi del cyborg, le considerazioni sul postumano e la fantascienza. È interessante perché i riferimenti di Antonio Caronia non erano solo quelli di un sociologo della comunicazione, dei media o della fantascienza ma erano trasversali a mondi diversi. Tanto che sul corpo si notano due parti di riferimenti principali: Artaud e Burroughs. E il tema del corpo si fa centrale, come anticipava Fabio, in questa idea di non pensare più alla tecnologia come protesi, ma alla necessità di pensarla come un mondo. Un mondo dove c’è un continuo rovesciamento del corpo nel mondo e del mondo nel corpo. Questo elemento in particolare viene fuori nell’introduzione a un romanzo di P. K. Dick “I simulacri” (nell’edizione Nord, Cosmo oro), tra i tanti tradotti da Caronia nella sua vita, dove appunto si focalizzava su un particolare narrativo in cui uno dei protagonisti ha una crisi e comincia a trovare dentro di sé oggetti che stanno nella stanza e nella stanza pezzi dei suoi organi. In questa immagine Antonio ci vedeva un passaggio molto importante, molto simbolico, dello sviluppo della tecnologia e degli effetti che questo sviluppo ha su di noi e sul mondo intorno a noi, proprio perché va a ridefinire che cos’è l’essere umano e che cos’è il mondo, in questa relazione sempre più porosa, sempre più instabile.

Loretta Borrelli

Nella cura del libro è stata importate una lezione del 9 giugno 2010 che Caronia aveva tenuto all’Accademia di Brera nel corso di sociologia dei processi culturali, riportata in apertura. Chi, come me, ha vissuto le lezioni che Caronia teneva a Brera, sa che erano un turbinio di fantascienza, filosofia, letteratura, arte. Lui sapeva collegare tanti mondi diversi. In quella lezione, in particolare, c’era un’intuizione su due scritti di Foucault (Bisogna difendere la società e Sicurezza, Territorio, Popolazione), il focus era il processo di artificializzazione del corpo umano, come conseguenza dell’artificializzazione dell’ambiente in cui l’essere umano vive. Questa lezione ci ha dato la chiave per suddividere gli scritti che abbiamo scelto, nelle tre sezioni di questo libro. Nella prima sezione “Ermeneutica del cyborg” abbiamo messo insieme quei testi che ricostruiscono una storia dell’artificializzazione del corpo o dell’immaginario tecnologico fino ad arrivare alla figurazione del cyborg. Cyborg come mostro che esce fuori da sé, si fa mondo e poi ritorna a sé. Un mostro del capitalismo avanzato, non estraneo ai suoi processi di produzione, che grazie al suo rapporto con l’artificializzazione e grazie alla sua porosità, permette movimenti di fuga. In questo il cyborg di Caronia è molto harawayano. Donna Haraway è infatti una delle autrici di riferimento nell’analisi di questa figura. Nella seconda sezione “Il corpo della fantascienza” abbiamo fatto un excursus del rapporto di Caronia con la fantascienza per capire quali erano gli strumenti teorici con cui smontava quel dispositivo, in questa analisi un’altra autrice di riferimento è stata Teresa De Lauretis. Il linguaggio fantascientifico crea mondi e processi di spaesamento nel lettore. Caronia riporta questa dislocazione linguistica anche all’interno della teoria del cyborg, come strumento politico. L’idea è quella di dare sostanza a mondi possibili, che è quello che fa Haraway nel ultimo libro pubblicato in Italia (Chuthulucene), dare vita a immaginari diversi. Nei testi dell’ultima parte “Biopolitica del postumano” il corpo è il tema ricorrente. Il corpo è invaso, è poroso nel cyborg, oppone resistenza ma viene assorbito dal capitalismo diventando somma di dati con De Lillo, si ribella al giudizio di Dio con Artaud, produce virus con Burroughs. Sono quei momenti concreti, effettivi, che viviamo oggi con le reti digitali, quei momenti in cui il corpo crea lo scarto, un linguaggio diverso e può anche creare altre possibilità. Quest’ultima sezione del libro è legata al concetto del postumano, un argomento affrontato da Caronia per diversi anni. Un tema complesso che ha visto parecchie polemiche e fraintendimenti. Però negli ultimi anni della sua vita Caronia individua le direzioni problematiche che quel pensiero andava prendendo e dichiara la sua opposizione a un’idea di iperuomo, come fa anche Rosi Braidotti, nel 2013 con il libro Il postumano. Essendo morto nel 2013, Caronia non ha mai fatto il salto che Haraway fa con il compost, dissociandosi completamente dal concetto di postumano. Però l’idea di fondo è similare, cioè liberarsi di quel costrutto sociale e storico che è l’uomo. Negli scritti presenti nel libro, Caronia lo fa partendo dal discorso foucaultiano sulla fine dell’uomo.

Abo (Alberto Di Monte)

Vorrei dire delle cose sulla rivista, questo numero10 di «UAU»; nel preparare questo lavoro abbiamo fatto anzitutto un affondo dentro una dimensione non redazionale, non proprietaria della rivista; una ricerca dentro racconti inediti, testi non pubblicati, carteggi, lettere alla redazione, materiali che solo in parte avevamo già digitalizzato e che sono un patrimonio collettivo, che in parte, come le riviste, potete scaricare e fare ricerche in ocr (si può fare tante cose sul sito dell’archivio). Ma soprattutto in Cascina Torchiera è conservato e organizzato il materiale grigio che ruotava intorno alla rivista (fatta non solo da una redazione ma anzitutto da una comunità di lettori). Quindi questo era un po’ il gioco da cui è partito il lavoro che poi ha germinato tante forme tra cui questo decimo numero. E l’esercizio successivo è stato invece un po’ quello della ricerca di un titolo. Noi abbiamo scritto la fine dell’uomo, che non è la fine del mondo nei termini della fine fisica del mondo, né la fine della vita nei termini della chimica organica, che sono certo temi interessanti, ma rispetto ai quali ne capiamo abbastanza poco per porci la questione. Non è la fine dell’umano nei termini biologici, né dell’umano nei termini antropologici o sociologici con tutte le sue figure, stagioni e le sue relazioni, ma è proprio la fine dell’UOMO. Rivendicherei questa scelta, per questo titolo tutto maiuscolo, anche se ambiguamente malcelato dentro la copertina. Ovviamente, visto che parliamo di fantascienza, si fa ricorso a un lessico diverso da quello assertivo del linguaggio politico e quindi dentro ci trovate un utilizzo improduttivo dell’intelligenza artificiale; si trova l’illustrazione, i saggi, i racconti inediti della vecchia rivista; non c’è il sudoku ma ci sono le ricette, si gioca in tanti modi. E perché la fine dell’UOMO? Perché si tratta di capire che non è soltanto una questione di superamento dell’unico modello economico oggi esistente su grande scala, non la fine di quella figura che viene oggettivata in tanti modi, mai esaustivi, in cui però ognuno può cercarvi i suoi. L’uomo inteso come maschio, sano, wasp, cisgender, eteronormato, bello, forte, iper, oltre, cioè tutta quella accozzaglia di concetti che vanno a specificare la maschera apicale di questo tipo di società deve sparire un po’ insieme a questo mondo. E ovviamente questo non è un esercizio di interpretazione che individua i responsabili; ma chiaramente un uomo che in qualche misura è più pervasivo, che attraversa ciascuna delle nostre soggettività, ma rispetto a cui auspichiamo un crepuscolo che non può essere risolto dentro la rassicurante o apocalittica figura della crisi climatica, dell’acidificazione dei suoli, dell’aumento della temperatura o delle tante crisi che attraversano il globo e lo fanno in qualche misura tremare in maniera permanente e che quindi ci lasciano, come ogni sovradosaggio, assuefare alla normalità e all’ineluttabilità di questa crisi che è permanente e che alla fine non è più un’emergenza schmidttiana, quelle in cui il sovrano con le corna, grasso sul trono, che dice per affrontare l’emergenza dal 1° maggio al 31 dicembre: si fa a modo mio e poi il ripristino della normalità. E quindi indicare un colpevole che è così pervasivo è fondamentale per chiarire dove non volevamo andare. Da questo punto di vista l’aggettivazione sull’Uomo, essendo preceduto dalla fine, che non è l’inizio di un nuovo uomo, ci sembrava utile e sufficientemente cattiva. Non credo che ci siano delle ambivalenze su questo tipo di scelta.

(*) Un chiarimento per chi poco frequenta la fantascienza: Anarres e Urras sono creazioni di Ursula Le Guin nel romanzo «I reietti dell’altro pianeta» (sottotitolo: «Un’ambigua utopia»)

(**) NOLO sta per Nord Loreto, una zona circoscritta tra Loreto, via Padova e stazione centrale soggetta a un’intensa speculazione immobiliare. Ovviamente nel negativo c’è anche qualche lato positivo come la nascita di tre librerie, in un quartiere che ne era completamente privo.

(***) cfr Torna «Un’ambigua utopia» e Giuliano Spagnul…

(****) qui una recensione: «Dal cyborg al postumano: biopolitica del corpo artificiale»

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

7 commenti

  • Siamo d’accordo. L’utopia non è l’irrealizzabile, ma quello che non esiste ancora.
    Ma è pur vero che le idee, se non hanno gambe concrete, rimangono idee. Cioè, pura astrazione.

  • Sovrapposizioni, coincidenze di lettura, interferenze di ispirazione, fascino dell’immaginazione: “Nel discorso che ha tenuto nel 2014 nel corso della cerimonia in cui le è stato assegnato il prestigioso National Book Award, Ursula K Le Guin ha detto: Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora, capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall’ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande”.

  • Non vogliamo allargare, far crescere, propagandare la fantascienza.

    VOGLIAMO DISTRUGGERLA.

    Nel senso che vogliamo rompere questo involucro, questo contenitore che si chiama fantascienza,

    e dimostrare che ciò che contiene, ciò che c’è dentro, non è altro che quello che si trova fuori.

    (…)

    Se l’alternativa rivoluzionaria è ghettizzata nella fantascienza, è perché si può soltanto sognare e non praticare».
    ***
    A parte la riserva sulla parola “distruggere”, che volentieri sostituirei con “inverare”, o con la frase “riportarla allo scopo che l’ha costretta a venire al mondo”, per quanto mi riguarda questo resta, nell’essenziale, il programma personale in quanto scrittore. Dimostrare che dietro l’involucro fantastico la fantascienza sia l’unica letteratura che esplora programmaticamente il mondo reale che la circonda. E che appunto Un’Ambigua Utopia sia venuta al mondo per rettificare, correggere, reindirizzare la fantascienza, per armonizzarla con le specifiche esigenze culturali del momento. In quanto collaboratore di Un’Ambigua Utopia avevo molto sperato nella sua nascita; e disperato dopo la sua morte. Anche se allora non capii del tutto quel che stava succedendo, posso oggi dire che si è trattato della grande occasione non per la fantascienza italiana, ma per la letteratura di reinventarsi partendo da un ambito non accademico, non letterario, non intellettuale. La qualità della fanzine era tale che occultò il giudizio critico, ne amputò lo sviluppo.
    Non ho più i fascicoli, altrimenti avrei volentieri tentato di scalarne con maggiore precisione il senso storico, a partire dalla volorizzazione delle voci operaie che almeno all’inizio vi si espressero.

  • Giuliano Spagnul

    “Distruggere” perché eravamo nel ’77 e il fuoco bruciava dentro di noi! I nove numeri della rivista li puoi ritrovare digitalizzati qui: http://archivio-uau.online/archivio.htm

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