Sudafrica dalla strada

fra barriere, divieti, disperazione, potenzialità, diritti, coscienza

di Valentina Acava Mmaka

Lungo le coordinate del Viaggio Capovolto che ho intrapreso da tempo e che è sempre più il volto delle moderne migrazioni, la città è la palestra dove allenare lo sguardo, l’ immaginario. Cape Town, in Sudafrica, è una di quelle città dove le emozioni giocano un ruolo fondamentale nel percepire lo spazio entro cui la vita prende forma. Lo spazio urbano racconta il Paese, la sua gente. Il luogo cresce, si modifica, si illumina così come regredisce, si oscura, rimane statico in funzione della gente che lo vive.

Da diversi mesi lavoro con un gruppo di donne sudafricane e migranti, ad un progetto di scrittura “civica” (Gugu Women Lab – GWL) che ha come scopo quello di individuare gli spazi urbani compatibili con l’idea di uno sviluppo socio, culturale e politico sostenibile. Si tratta di un laboratorio interattivo informale dove la città con i suoi spazi, le sue barriere, i suoi divieti, le sue potenzialità, diventa il pretesto per parlare di diritti passando attraverso il concetto di essere civici, terminologia coniata dalla sociologa marocchina Fatema Mernissi. E’ un’esperienza umana e professionale importante dove ci si incontra, si scrive, si legge e si interagisce con la città e le sue coordinate, poiché solo attraverso questo mettersi in relazione diretta da cittadini responsabili, i luoghi in cui viviamo possono migliorare. Le diverse percezioni individuali della realtà urbana portano singolarmente ad un obiettivo comune: realizzare attraverso l’espressione verbale e l’immaginazione un luogo interattivo che dia voce a tutti e sia l’espressione di una coscienza collettiva eterogenea capace di registrare i cambiamenti sociali e culturali. L’esperienza sta volgendo al suo termine e so già che mi mancherà, perché in tanti mesi di condivisione di una città e dei suoi spazi, le riflessioni sui cambiamenti avvenuti in diciotto anni da quando nel 1994 il Sudafrica è diventato una democrazia, si sono alternate. L’idea per questo breve resoconto nasce da uno degli incontri avuti con il gruppo di donne del GWL : uniti o divisi? nuove barriere stessi diritti. In relazione allo spazio urbano siamo divisi e uniti al tempo stesso, una contraddizione che non può non essere presa in considerazione se si vuole realmente comprendere le città sudafricane oggi.

Diciotto anni fa cadevano le ultime barriere che dividevano la popolazione sudafricana in base ad una selezione di tipo razziale, il Paese allora era una grande torta tagliata a fette in cui le fette più piccole spettavano alla maggioranza della popolazione e quelle più grandi alla minoranza. Dal 1994 neri e bianchi condividono la stessa scrivania al lavoro, le stesse abitazioni, studiano nelle stesse scuole, mangiano negli stessi ristoranti e godono della stessa assistenza ospedaliera. I cartelli segnaletici che intimavano ai neri il divieto di accesso a scuole, luoghi pubblici, mezzi di trasporto, cinema etc… sono scomparsi dalle strade, non si legge più Baware of the natives al confine con una location o una kasi (township). Quando sono cresciuta qui negli anni Settanta, le città erano divise, ogni incontro con lo spazio urbano era un impatto con una realtà sociale drammatica secondo un principio essenziale: la separatezza delle razze, che il vecchio primo ministro Botha usava ironicamente definire una soluzione di buon vicinato. Ma l’ironia c’entrava poco con la realtà. Sera, la mia bambinaia, viveva nella township di Alexandra con sei figli e un materasso su cui dormiva tutta la famiglia, per anni ogni giorno mi accudiva con l’affetto di una madre e non v’era alcuna possibilità che insieme potessimo condividere uno spazio diverso da quello offerto dalle mura casalinghe. Il colore diverso della nostra pelle, prima del nostro incontro, aveva prodotto la divisione delle città.

Il governo democratico sudafricano per scongiurare ogni forma di discriminazione ha dato vita ad una delle costituzioni più liberali del mondo, primo paese africano e quinto al mondo nel 2006 a riconoscere i rapporti LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trasgender) eppure a distanza di una generazione nel paese restano barriere che sembrano insormontabili, una ricognizione attenta e dettagliata dice che il quadro non è come dovrebbe essere, che non è neppure come si era progettato che diventasse. Nozipo una delle partecipanti al GWL, dice che lei è una fortunata, classe 1982 ha potuto studiare e ora vive con un marito e due figli e ha un lavoro per la compagnia per la fornitura di energia elettrica ESKOM. Coloro che hanno avuto la fortuna di ricevere un’istruzione adeguata e di entrare nel mondo del lavoro in un mercato competitivo crescente, oggi può scegliere il quartiere dove vivere, la scuola da far frequentare ai propri figli, l’ospedale dove farsi curare, la compagnia assicurativa con maggiori agevolazioni, chiedere un prestito in banca, acquistare macchine di lusso (per le vie di Cape Town BMW, Hammer, Mercedes, Jaguar, Crysler, Porshe e i SUV sono le auto più in vista) e di sicuro oggi c’è una nascente classe media che può avere accesso a ciò che prima del 1994 non poteva permettersi. Purtroppo per la maggioranza della popolazione la situazione non è cambiata di molto, per chi fortuna non l’ha avuta ecco che le location e le townhisp restano l’unico luogo possibile, ieri come oggi, e qui le case sono spesso delle scatole di zinco, talvolta senza servizi, le scuole hanno classi sovraffollate, insegnanti impreparati, carenza di strutture idonee e nelle famiglie più disperate non c’è nemmeno la possibilità di acquistare una uniforme usata per i propri figli. Qui è concentrata la maggior parte della popolazione disoccupata e questo nelle cronache quotidiane è sinonimo di criminalità.

Oggi le guide turistiche segnalano gite organizzate nella mitica Gugulethu, una delle più note township della città, un pacchetto ad uso e consumo del turista ingenuo che vuole tornare a casa con la sensazione di aver pregustato la vera vita sudafricana con il suo souvenir artigianale confezionato appositamente per lui. Ma non basta frequentare la taverna di Mzoli dove si respira un’atmosfera d’altri tempi, o dormire alla pensione di Lizi, ottimi siti per chi viene, resta un giorno e poi va via. Chi abita qui sa che Gugulethu, Langa, Philippi, Du Noon, Khayelitsha hanno inesauribili potenzialità (immense fucine di poeti, musicisti, pittori, registi, attivisti) quanto altrettanti disagi. Ancora una volta: lo spazio urbano resta diviso, è una realtà innegabile. I quartieri ricchi a sud e a nord, le location sparse nei buchi a est e ovest della città come tentacoli che si allungano sempre più. Il City Bowl il centro della città, sortisce sul visitatore, sul neo cittadino un senso di euforico cosmopolitismo. Rose, del Congo, dice che essere al Civic Centre è come stare al centro di un palcoscenico all’aria aperta, si può essere visti e al tempo stesso vedere il mondo circostante. Ha ragione, trovandocisi si ha la sensazione di essere al centro di un mondo proiettato verso il futuro: grattacieli scintillanti, alberghi lussuosi, ristoranti di classe, locali trendy affiancano edifici storici, chiese, moschee, musei dalle architetture avanguardistiche, la polizia stradale ad ogni angolo controlla l’ordine cittadino. A Green Market Square, nel cuore della città, l’Africa si incontra quotidianamente in questo grande mercato dell’artigianato a cielo aperto, che acceca per i colori e le forme che si sovrappongono come in un quadro naïf, qui si parlano tante lingue del grande continente. A pochi passi Long Street, che di giorno è sobria pur nelle sue architetture vivaci e colorate, di notte diventa il luogo per eccellenza dove il mondo interagisce al tavolo di un ristorante o di un pub, dove si mangia messicano, indiano, italiano, etiope, malese, cinese, pakistano, si ascolta musica reggae, lingala, kwaito , bongo flava e jazz, un luogo perfetto per rappresentare la nazione arcobaleno, un melting pot di culture diverse. Talvolta troppo perfetto tanto da sembrare un dono impacchettato ad uso e consumo di chi cerca in questa città un’occasione per cambiare vita dalle tristi e consumate atmosfere démodé europee. Ma su Long Street, a condividere il sogno della metropoli cosmopolita, ci sono anche sudanesi, somali, congolesi che occupano condomini fatiscenti in attesa che la lenta burocrazia del paese riconosca loro lo stato di rifugiato. Ed è qui che la rainbow nation comincia a svelare se stessa per ciò che è realmente: un incompleto sogno di unitarietà, il concetto di ubuntu irrealizzato.

Basta una corsa in combi (taxi collettivo) per rendersi conto che dodici chilometri (una distanza breve per l’ampiezza degli spazi sudafricani) dal cuore della città, dominato dalla mistica Table Mountain che ha da poco conquistato il titolo di “meraviglia del mondo”, possono modificare completamente la percezione della realtà. La città è frammentata, da una parte c’è la palese differenza di infrastrutture, di mezzi di trasporto, di negozi, di abitazioni che caratterizza i quartieri degradati, dall’altra ci sono barriere che saltano meno agli occhi ma pur sempre di barriere si tratta : i fili spinati che in passato minacciavano i neri, oggi sono stati sostituiti dai fili elettrici che circondano i muri delle case, dei complessi residenziali. Questo è segno che la paura ieri come oggi non è mai scomparsa, magari ci sarebbe da riflettere e capire se /o come quella di oggi sia diversa da quella di ieri.

Trolley people

La strada è il luogo dell’incontro generazionale, di milioni di persone che su di essa lavorano, transitano, abitano, convivono condividendo uno stesso destino che però prende inevitabilmente direzioni diverse quando si tratta di guardare in faccia il futuro fin dall’alba del giorno successivo.

Venerdì mattina ore 6.30, sule strade di Cape Town l’esercito dei trolley people si riversa nelle strade della città, come i tentacoli di un polpo si diramano nei vari quartieri in cerca della loro fortuna. Come trovare una traduzione adatta per trolley people? Carrellai, carrellieri…non c’è una traduzione, basta guardare per capire che non si tratta di personaggi usciti da una fiaba . I trolley people macinano chilometri per le strade della città convertendo i rifiuti dei benestanti in beni di consumo per sé o addirittura in una vera fortuna da mercanteggiare in cambio di qualche rand. Spingono a passo deciso i loro carrelli lungo l’asfalto. I carrelli sono quelli dei supermercati. Si riconoscono, quelli neri sono di Woolworths, quelli verdi di Checkers, i carrelli di metallo sono di Pick&Pay, le tre catene di supermercati più note del paese. Sembrano case ambulanti, bauli aperti, senza lucchetti o chiusure segrete dove si conserva ogni cosa preziosa. Sono affollati di oggetti di ogni misura, colore, materiale. Sono pieni. Taluni sono ordinati e ben organizzati, altri un po’ meno. Alcuni hanno delle estensioni, appendici realizzate con cassette della frutta perlopiù, per renderli più spaziosi, più capienti. I manici sono allungati con “braccia” di legno per facilitarne la spinta. Girano per le strade, si fermano vicino ai negozi, ai bidoni della spazzatura, “la gente butta un sacco di cose utili”, sembrano esclamare quando scuotono il capo con gli occhi puntati su un paio di scarpe ancora buone cui mancano solo i lacci o una tavola da stiro cui manca solo la copertura imbottita che, all’occorrenza, nelle ore più calde, diventa una brandina per riposarsi sotto l’ombra di un albero, all’angolo della strada. Quando li incontro, scambio due parole con loro. Ormai sono mesi che ci incontriamo, per una porzione di spazio e di tempo le nostre vite si incontrano, appena in fondo alla strada dove abito. Alcuni non hanno mai lavorato, né mai avuto una casa. Alcuni hanno avuto problemi con la droga, sono i reietti depennati dalle liste degli aiuti sociali che il governo dispone per le famiglie con bambini … sì perché ci sono anche bambini per la strada è il caso di Brownie. Un passato nello spaccio e consumo di droga, quattro figli e il sogno oggi di un futuro diverso: una casa, un lavoro come baby sitter. Ma sono sogni distanti dalla realtà, si sfoga in un pianto liberatorio quando parliamo e il realismo della sua condizione esistenziale è mordente: cresciuta con una madre alcolista che alla sera doveva andare a raccogliere per le strade della township prendendosi cura di lei anziché il contrario, poi adolescente un incontro sbagliato con un ragazzo che l’ha portata alla droga. Oggi ha figli che lei definisce i suoi tesori e cerca un lavoro per mantenerli, ma sa benissimo in cuor suo, che nessuna famiglia assumerebbe una donna senza fissa dimora né tantomeno affiderebbe dei figli alle cure di una donna con il suo passato e per di più con l’AIDS. Occorre un programma sociale che risponda alle loro necessità, soprattutto che ripari i danni fatti dalla mancanza e dall’assenza di adeguati punti di riferimento per persone come Brownie e tanti altri.

Gli abitanti dei quartieri “bene” si autoaccusano di non condurre un’azione sufficientemente efficace in termini di riciclo dei rifiuti, sostengono che “se ci fosse una politica del riciclo differenziato esteso ad ogni quartiere e ad ogni tipologia di rifiuto, i trolley people non troverebbero nulla nei bidoni e quindi non invaderebbero più le strade con le loro abitudini”. La povertà diventa nei sobborghi della Cape Town bene, un impaccio con cui è difficile confrontarsi quotidianamente. Eppure l’esistenza di queste persone, non può non avere radici altrove, oltre le scelte personali, oltre le responsabilità sociali collettive, non in un Paese grande quattro volte l’Italia con una popolazione di appena 47 milioni di abitanti e che nei grafici sui paesi in crescita, occupa uno dei primi posti. Occorrono strutture adatte a ospitarli, curarli, educarli e restituirli alla società come uomini e donne responsabili e capaci di creare mutuo incontro e scambio, capaci di apportare un contributo valido costruttivo. Queste strutture mancano. Occorre davvero un intervento diretto sulla strada che recuperi poco a poco chi non ha altro luogo dove stare e che rischia di soccombere ai margini diventando il simbolo del fallimento di una società che non ha saputo mantenere le sue promesse in tempo.

Immigrati

Sebbene la cosa non risalti su gran parte dei media internazionali né all’occhio di un turista o di un visitatore temporaneo, la macchina politico amministrativa sudafricana ha delle enormi falle che continuano a privilegiare la minoranza di origine europea e a trascurare i neri, i coloured e immigrati che qui fluiscono da ogni parte dell’Africa spesso richiedenti asilo, situazione che crea non poche tensioni tra sudafricani e migranti. Dall’osservatorio privilegiato di chi si muove sulla geografia del mondo è impensabile non sfiorare la gemellarità di esperienze, in Sudafrica come negli Stati Uniti o come in Italia, il migrante dà fastidio, e qui dà più fastidio se si tratta di un migrante che viene da un altro Stato africano. Diverso se si tratta di un ricercatore universitario svedese, di un linguista italiano o un professore americano, ma quando si parla di mano d’opera ecco che il meccanismo del rifiuto scatta ma pone una stessa riflessione. Il migrante che viene dal Congo o dall’Angola, o dal Mozambico o dallo Zimbabwe arriva spesso come rifugiato e si presta ai lavori più faticosi e sottopagati. I datori di lavoro stessi preferiscono in taluni casi favorire l’assunzione dei migranti rifugiati per convenienza economica e lo spirito di adattamento dei lavoratori. E’ il caso di una catena di piccoli minimarket di quartiere chiamata “ 7/11” (a intendere che sono aperti dalle 7 alle 23) dove non è difficile scambiare con i commessi quattro parole in francese o in portoghese. Se sono fortunati guadagnano 200 euro al mese, con i quali devono pagarsi un posto letto in un appartamento stipato di 7/8 persone, il vitto di un mese, i trasporti per muoversi e perdipiù anche mandare i soldi a casa dove se non ci sono figli o mogli, c’è la propria famiglia d’origine. Un mondo sommerso di uomini e donne che lottano per la sopravvivenza. Difficile non pensare per somiglianze ai lavoratori sikh nelle campagne dell’Agro Pontino, o ai lavoratori senegalesi e sri lankesi del viterbese in Italia. E se il migrante arriva dal Cameroon piuttosto che dalla Nigeria con la sua bella laurea in ingegneria o in management finanziario allora il dissenso diventa un pretesto in più per capire che le opportunità sono date solo a certe élite.

Ma inevitabilmente il Sudafrica vive le contraddizioni del suo tempo, senza una guida autorevole che s’impegni a raggiungere la meta e a stabilire le regole per arrivarci, con un presidente, Jacob Zuma, che investe poco nella scuola e nella formazione e che assomiglia tanto ai colleghi di altre nazioni africane avendo intrapreso una leadership, è il caso di dirlo, solo ed esclusivamente per raggiungere benefici personali per sé e l’esclusivo popolo Zulu cui appartiene . Un rinnovato caso di governo tribale cui l’Africa è abituata nella storia recente, a partire dal Kenya con caratteristiche vecchie e nuove: clientelismo, corruzione, intimidazione, negazione dei diritti umani e nel caso di Zuma anche un’imputazione per stupro, uno dei reati più diffusi del paese (circa 70 mila l’anno). A sottolineare i limiti di una leadership elitaria che oggi presiede il Paese, è anche l’artista Ayanda Mabulu che vive nella location di Du Noon, uno dei tanti insediamenti informali di Città del Capo dove povertà e crimine si spalleggiano quotidianamente riempiendo pagine di tristi statistiche. Mabulu, ha recentemente creato dissenso tra le alte cariche dell’ANC (African National Congress) a causa di uno sei suoi ultimi dipinti in cui il presidente Zuma viene ritratto in abiti tradizionali impegnato in una danza tribale con i genitali scoperti. Una provocazione senza dubbio alla politica del presidente che non è in grado di guidare il suo popolo verso una crescita sociale collettiva uniformata, e di fronte alle reazioni negative del partito l’artista dichiara: “come artista ho il dovere di raccontare cosa accade in posto come Du Noon, come vive la gente, cosa pensa e dice. Do voce a chi non ce l’ha e con l’unico scopo di creare un dialogo con le forze politiche e le istituzioni. Zuma è il padre di questa nazione adesso, ma i suoi figli hanno fame e si domandano perché e come questo sia ancora possibile”. Senza dubbio gran parte dei sudafricani che vivono ai margini si domandano se sia realmente cambiato qualcosa da quel 1994.

Riflessioni

Il Sudafrica ha una grande responsabilità. Non c’è dubbio che in questi anni la carta più importante nella partita della crescita nazionale e internazionale, sia proprio quella della distribuzione capillare delle risorse di cui dispone in abbondanza, il che significherebbe anche abbattere le tensioni razziali di cui il Paese purtroppo soffre. Un Paese africano che ha nel proprio curriculum oltre che a tre secoli di colonizzazione e schiavitù anche un regime politico razzista che ha imprigionato, ucciso, esiliato e bandito migliaia di persone, è chiamato a promuovere quanto prima lo sviluppo e la crescita e abolire le diseguaglianze sociali, una responsabilità collettiva che non può essere cancellata e che va risanata restituendo al paese una vivibilità dignitosa a tutti, opportunità di crescita e formazione in quelle parti del tessuto sociale dove non c’è mai stata. “Se il Paese e le sue istituzioni non cominciano a porre al centro delle proprie strategie politiche, le diseguaglianze sociali, anziché le differenze razziali, allora accadrà che solo una ristretta élite di neri trarrà benefici da esse, continuando così a perpetrare un modo di pensare fondato su basi razziali a danno dei poveri lavoratori e dei disoccupati”. Mai le parole di Alexandre Neville – uno dei grandi oppositori dell’apartheid morto pochi giorni fa, il 27 agosto – avrebbero potuto essere più appropriate soprattutto alla luce dei recenti fatti occorsi alle miniere di Marikana dove 34 minatori in sciopero, sono stati freddati dalla polizia con armi d’assalto rievocando le immagini di un passato non troppo lontano, quando si sparava sulle folle con l’intento di uccidere chiunque si ribellasse al potere. Immagini che speravamo di non rivedere più. Un paese in crescita entrato anche a far parte parte dell’acronimo coniato per designare i Paesi del modo in crescita economica, BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), non può non calcolare le disastrose conseguenze sociali ed economiche a lungo termine che il Paese potrebbe fronteggiare se non dimostra di essere in grado di distribuire l’immensa ricchezza fra tutti i suoi cittadini. La protesta dei minatori di Marikana, costretti a guadagnare 300-400 euro al mese lontano da casa, rischiando la vita ogni giorno e spesso con 10/18 persone a carico da mantenere, è il sintomo di un disagio profondo, dove settori come l’industria mineraria (tra le più importanti al mondo) sono in mano a una ristretta élite nera che fa affari con i bianchi delle multinazionali (è recente la notizia che uno dei figli del presidente Zuma fa affari con la Lonmin, la grande industria del platino dove sono stati uccisi i minatori in sciopero lo scorso agosto). Un monopolio che inevitabilmente genera anche forti tensioni razziali. Verrebbe da confermare la validità delle parole dello stesso Neville che all’alba del nuovo Sudafrica, nel 1994, aveva dichiarato prematuro definire il paese nazione arcobaleno poiché non c’erano ancora le condizioni materiali per consentire la messa in esser di una nazione unita . Diciotto anni sono pochi per risanare un paese con una storia così pesante alle spalle, ma il pensiero va proprio al passato, affinché non “muoia” nella memoria dei sudafricani e anzi con il loro aiuto entri a far parte della vita dei giovani del post apartheid, per non dimenticare le sofferenze e soprattutto per rinnovare le linee guida e gli obiettivi fissati quel 27 aprile 1994. Pochi giorni fa Thembo Mpetha, figlio di Oscar Mpetha, uno dei simboli della lotta all’apartheid, morto proprio nel 1994, alla nascita del nuovo Stato democratico sudafricano, lamentava che oggi i giovani tendono a non avere una percezione sensibile del loro passato: “spesso coloro che sono nati dopo il 1994 ignorano fatti luoghi e persone che hanno segnato la storia di questo Paese”. Possibile?

Ogni giorno questa città e il Sudafrica offrono tuttavia motivi di ottimismo, le sue avversità e le sue contraddizioni non possono mettere in secondo piano né sminuire l’alto potenziale umano del Paese, che ha bisogno di recuperare al più presto la memoria del suo passato per non perdere un’altra opportunità di cambiare il sistema.

Tornando a casa la sera, sul lungo rettilineo parallelo al mare in direzione nord, verso le sei quando manca poco meno di un‘ora al tramonto, un fascio di luce illumina Robbin Island (l’isola divenuta icona della lotta anti apartheid per essere stata la prigione di Nelson Mandela e altri attivisti). Penso alla fortuna di passarci davanti ogni giorno, come se la sua presenza a poche miglia dalla costa, fosse lì a ricordarmi che il passato del Sudafrica è vicino, e che quel suo essere ancorato nell’oceano deve essere un faro vigile su chi in questa terra è nato e cresciuto o ha deciso di viverci. Mi chiedo se lo studente seduto accanto a me sull’autobus, che non toglie lo sguardo dal suo Blackberry preso in uno scambio di chat su Facebook, abbia mai provato lo stesso mio pensiero, se la presenza di quell’isola-simbolo della lotta per la libertà del Paese, sortisca in lui un qualche sentimento di appartenenza, di affiliazione.

Redazione
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3 commenti

  • Valentina, apprendo dal tuo bell’articolo della morte di Neville Alexander, amico e compagno che molti anni fa ebbi la fortuna di frequentare e del quale tradussi e curai una piccola raccolta di scritti (“Sudafrica prima e dopo l’apartheid”). Sono rattristatissimo dalla notizia che ho trovato confermata da varie altre fonti. Tu da dove scrivi adesso? sei a C.T.? se hai voglia contattami scrivendo a paolobuffoni@yahoo.it

  • Cara Valentina, ho letto con estremo interesse il tuo articolo, dai significati purtroppo molto chiari. Io e la mia famiglia stavamo prendendo in esame la possibilità di trasefrirci a Cape Town, nonostante il fatto io abbia uno zio a Johannesburg. Da quanto dici, mi pare di capire che in Sudafrica esista un nuovo genere di apartheid, non più razziale ma sociale. Che opportunità potrebbe avere una famiglia italiana nella realtà che hai descritto? Se hai piacere di rispondermi, la mia e-mail è robertamattioli70@libero.it

  • Ti ringrazio Roberta, ti rispondo in privato al tuo indirizzo mail.

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