Sulla normalizzazione dell’hijab

Lettera aperta al direttore del Museo Egizio di Torino

di Cinzia Sciuto (*)

Il Museo Egizio di Torino ha promosso una encomiabile iniziativa rivolta ai cittadini di lingua araba. Ma se – come il direttore ha correttamente spiegato a Giorgia Meloni, che davanti al museo aveva inscenato una sconclusionata protesta – la lingua araba non coincide con la religione musulmana, perché nella campagna fatta per la promozione di questa iniziativa è stata scelta una donna con l’hijab?

Gentile dottor Greco,

forse suo malgrado, lei è stato, in quanto direttore del Museo Egizio di Torino, al centro delle cronache in questi ultimi giorni a causa di una protesta inscenata proprio davanti il museo dalla leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che contestava la vostra campagna “Fortunato Chi Parla Arabo”, grazie alla quale, si legge sul vostro sito, “dal 6 dicembre 2017 al 31 marzo 2018 i cittadini di lingua araba potranno entrare in 2 al costo di un biglietto intero”.

La sconclusionata protesta di Meloni si è trasformata in un boomerang per la leader di Fratelli d’Italia e in un, forse inaspettato ma certamente meritato, momento di autopromozione per lei e per il suo museo. In un gran frullatore in cui Meloni confondeva – temiamo più per malafede che per ignoranza – la lingua araba con una fantomatica “etnia” o la identificava tout court con la religione musulmana, lei ha avuto gioco facile a controbattere che l’arabo lo parlano milioni di persone, in paesi diversi, di etnie diverse e di religioni diverse. A Giorgia Meloni forse dispiacerà sapere che ci sono moltissimi cristiani di lingua araba in giro per il mondo, ma tant’è. Anche l’argomento che la promozione sarebbe “discriminatoria” lascia il tempo che trova, visto che le promozioni rivolte a specifici gruppi – e dunque per definizione “discriminatorie” rispetto agli altri – sono un classico di tutti i musei e in generale delle istituzioni culturali. Sconti per studenti, anziani, per specifiche professioni ecc. Se volesse essere davvero equa, Giorgia Meloni dovrebbe venire a protestare davanti al suo museo anche oggi, giorno di San Valentino, in cui le coppie pagano un solo biglietto. Ma forse questa “discriminazione” a Meloni sta bene, lei è per la famiglia tradizionale (speriamo però non si accorga che le “coppie” che beneficiano della promozione sono di tutti i tipi, basta infatti essere in due e il gioco è fatto).

Eppure, gentile dottor Greco, a me rimane una domanda alla quale lei spero voglia rispondere: se, come lei giustamente ha fatto notare a Meloni, la lingua araba non coincide con la religione musulmana, perché nella campagna fatta per la promozione di questa iniziativa è stata scelta una donna con l’hijab? Lei sa molto bene che l’hijab – seppure nella sua storia sia stato utilizzato anche in altre culture e religioni e il velo abbia una lunga tradizione anche nel mondo cristiano – è oggi inscindibilmente legato alla religione musulmana, e in particolare a quelle interpretazioni più ortodosse dell’islam. Le immagini di una campagna vengono scelte con il preciso obiettivo di far “identificare” le persone a cui ci si rivolge, hanno un valore al tempo stesso “descrittivo” del soggetto ritratto e in un qualche senso “normativo”, perché individuano una sorta di “modello standard”. Sono abbastanza sicura che, se domani il Museo Egizio dovesse fare una promoziona rivolta, per esempio, agli irlandesi, non sceglierebbe mai di mettere una croce sulla sua campagna di promozione, nonostante lo “stereotipo” dell’irlandese sia strettamente associato alla fede cattolica. Nello scegliere un’immagine per la propria campagna si comunica molto più di quello che si fa con le parole. Ed è una scelta, in un senso molto lato, politica.

La mia preoccupazione è che quella immagine non faccia che alimentare proprio quella confusione che – Meloni docet – schiaccia il mondo arabo sull’islam e, a sua volta, l’islam sulla sua versione più ortodossa. Così come non tutti gli arabi sono musulmani, infatti, non tutte le donne musulmane portano il velo e, rovesciando l’argomento, non è il velo a fare di una donna una musulmana. A meno che non vogliamo accettare la narrazione dominante dei fondamentalisti, per i quali invece una “vera” musulmana non può che portare il velo.

Io temo che quella immagine tagli fuori dal target della campagna tutte le donne arabe che non si riconoscono nello stereotipo della “musulmana col velo” e che, quindi, al di là delle intenzioni, non faccia che alimentare stereotipi, contribuendo a “normalizzare” simboli religiosi che invece in molti contesti vengono oggi messi in discussione. E temo anche che sia la dimostrazione di come una certa narrazione semplificatrice, che categorizza le persone secondo un preciso stereotipo, si stia pericolosamente radicando nelle nostre società.

(*) pubblicata su micromega.net e su animabella (il blog di Cinzia Sciuto)

 

Redazione
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3 commenti

  • antonella selva

    Attenzione però, perché nell’attuale contesto italiano ed europeo di islamofobia diffusa ed accettata, il rischio più reale è di discriminazione e ostilità nei confronti delle donne che portano il velo. Esse in qualche modo – in alcuni casi deliberatamente e orgogliosamente, in altri del tutto inconsapevolmente – sfidano la norma standard, il dress code “occidentale” imposto alle donne come condizione non aggirabile per essere ammesse nel mondo “della civiltà”.
    Questa contraddizione mi pare prevalente, qui ed ora, sulle contraddizioni “interne” all’islam e/o alla cultura araba, essendo in ultima analisi una delle tante declinazioni di quel suprematismo bianco che è un puntello ed è a sua volta puntellato dagli equilibri ineguali colonaili e postcoloniali.
    Ma soprattutto ritengo che, da da persone attive in questa parte di mondo e critiche nei confronti degli assetti di potere in cui siamo immerse (non per nostra scelta), sarebbe nostro compito prioritario combattere lecontraddizioni del “nostro” mondo, prima di occuparci delle contraddizioni degli altri

  • Quoto Antonella Selva. Inoltre, pur volessi dare ragione a Cinzia Sciuto, mi pare che se l’obiettivo è coinvolgere donne che nel 90% dei casi l’hijab in Italia lo portano, la legge del marketing parla chiaro. Forse andando in giro per musei, strade e mostre, proprio queste donne finiranno per togliersi dalla condizione di subalternità religiosa di cui il velo è espressione. Insomma l’obiettivo di fondo della meritevolissima campagna mi pare prevalga sulle altre considerazioni. Se fossi una donna che non porta l’hijab non mi sentirei discriminata da quell’immagine, esattamente come, nella realtà, non mi sento discriminato dallo sconto in quanto italiano che non parla arabo.

  • Daniele Barbieri

    Vedo questo scambio e mi sembra interessante postarlo per una sperabile discussione. (db)
    LA RISPOSTA DEL MUSEO a CINZIA SCIUTO
    Buongiorno, la ringraziamo per la sua lettera che ci offre l’occasione di motivare la nostra scelta.
    La campagna “Fortunato chi parla arabo” è stata realizzata in collaborazione con Etnocom, un’agenzia specializzata in comunicazione etnica a cui abbiamo affidato un’analisi del target prima di definire la costruzione del messaggio e dell’immagine promozionale.
    Ciò che si evince dalle rilevazioni è che oggi in Italia risiedono regolarmente circa 650.000 persone provenienti dal Maghreb, considerando Egitto, Marocco, Algeria e Tunisia; anche questi target della nostra campagna.
    Ci siamo primariamente rivolti agli arabofoni risiedenti a Torino e Provincia ma con i canali web abbiamo naturalmente allargato i destinatari della campagna.
    Di questo potenziale target più del 95% è di fede e di cultura islamica/musulmana: dovendo raffigurare la famiglia tipo araba residente in Italia, è emersa la necessità di fare una rappresentazione comune nella quale questo 95% di target potenziale si potesse identificare.
    Siamo d’accordo che non tutte le donne musulmane indossano il hijab, ma dovendo scegliere un’immagine iconica e soprattutto riferita allo specifico target della nostra campagna abbiamo scelto una coppia in cui la donna è velata.
    Dal punto vista culturale, comunque il hijab (anche per i non praticanti e che quindi non lo indossano) è un elemento chiaro che riconduce alla cultura araba e quindi arabofona.
    Ringraziandola per l’attenzione e per le belle parole che ci ha scritto, Le porgiamo i nostri migliori saluti.
    Paola Matossi L’Orsa (Responsabile Ufficio Comunicazione & Marketing e Relazioni Esterne Museo Egizio)
    LA REPLICA di CINZIA SCIUTO
    La risposta del Museo Egizio di Torino non fa che confermare il timore che avanzavo nella mia lettera aperta al direttore:“dovendo scegliere un’immagine iconica” del target della campagna – che, lo ribadiamo, non sono i musulmani ma gli “arabofoni risiedenti a Torino e provincia” – è stato scelto un simbolo religioso straordinariamente carico di significato e fortemente legato all’islam (soprattutto quello più conservatore) sia nella realtà sia nell’immaginario collettivo (che è quello che gioca un ruolo centrale nella scelta delle immagini in una campagna pubblicitaria) non solo dunque accettando passivamente ma alimentando lo stereotipo che schiaccia l’“arabo” sul musulmano. Anzi meglio, l’“araba” sulla musulmana: si è infatti scelta, spiega la responsabile comunicazione del Museo, “una coppia in cui la donna è velata” affidando sostanzialmente proprio al velo il compito di individuare il target mentre l’uomo ritratto nel manifesto è completamente privo di qualunque segno che lo riconduca alla cultura araba nello specifico, a meno di non voler considerare tali i tratti somatici vagamente mediterranei.

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