Ora e sempre No Tav

Una riflessione si Olivier Turquet sui motivi che spingono a procedere per questa grande opera, un APPELLO per Pier Paolo, tecnico dell’Università degli Studi di Torino, sospeso a causa di una condanna in primo grado (su cui ha presentato ricorso) in merito a una manifestazione “No Tav”, un’analisi di Elisabetta Grande sul nesso tra Tav, crescita e povertà

 

Ma perché vogliono fare la Torino-Lione ?

di Olivier Turquet (*)

Seguo da numerosi anni la faccenda della Torino-Lione; non sono un esperto, anche se Pressenza ha pubblicato numerosi comunicati del Movimento No-Tav ed io personalmente intervistato persone molto più esperte di me sull’argomento. Una cosa che mi ha sempre colpito del Movimento No-Tav è la pacatezza degli argomenti, la popolarità dei componenti (dai bambini ai nonni), il radicamento nella valle, l’assoluta nonviolenza e, soprattutto, la grande documentazione e capacità di studio.

Siamo alla fine della famosa fase del governo di studio dei costi e dei benefici e mi auguro che questa tremenda mole di studi fornita dal Movimento sia stata presa in considerazione. Personalmente, da sempre, la mia convinzione è che la Torino-Lione non vada fatta per una quantità di motivi ecologici, economici, di territorio; non mi serve un’analisi costi-benefici, mi basta sapere che esiste la concreta possibilità che bucando quella montagna possano uscire sostanze tossiche che potrebbero far ammalare la gente dell’intera Val Padana, per me basta così, quali costi-benefici, prima viene la salute delle persone, punto.

In ogni caso è stato già spiegato fino alla noia che ci sono numerosi motivi per non fare la Torino-Lione, motivi anche molto diversi tra loro e da numerosi punti di vista. Ma perché, di fronte a tanta argomentazione e documentazione, si vuol fare lo stesso? Perché si mobilitano forze politiche e sociali di diverso segno stranamente riunite sotto al bandiera “sì TAV”?

Non sono un economista, non sono un politico sono semplicemente una persona che cerca di essere ragionevole e coerente con alcune idee di base che mi paiono valide; di conseguenza non mostrerò cifre e non farò proclami elettorali ma cercherò di seguire il filo di un semplice ragionamento che possa essere comprensibile a qualunque persona; un ragionamento che non ha l’obiettivo di convincere nessuno ma piuttosto quello di segnalare un fenomeno: ognuno trarrà le conclusioni che gli parranno opportune.

Parlare del TAV, di questa e di tutte le altre, comporta allargare il discorso alle cosiddette Grandi Opere. L’idea delle Grandi Opere, in senso moderno, è un argomento della cultura industriale; in Italia le Grandi Opere iniziano con il fascismo e continuano con il boom economico del dopoguerra: ponti, dighe, bonifiche, autostrade, centrali nucleari, viadotti, navi da crociera sono sottoprodotti della grandiosa idea del “progresso”, dello “sviluppo senza limiti” della civiltà industriale; l’ultima frontiera di questo mito è la conquista dello spazio, il massimo della grande opera tecnologica. Il fatto che queste Grandi Opere siano state spesso funestate da Grandi Incidenti (Vajont, Chernobyl, Titanic, Apollo 13, Ponte Morandi ecc…) non ha levato nulla alla caratteristica del Mito dentro le quali sono inserite; nel Mito un po’ di Tragedia non guasta.

Questo il trasfondo mentale delle Grandi Opere, trasfondo di cui è pieno il paesaggio mentale in cui si sono formati i decisori sociali ancora in auge.

Ma c’è un altro aspetto, più terra terra, che corrisponde alla piega che le questioni economiche hanno preso negli ultimi 50 anni, più o meno: l’avanzata della speculazione finanziaria e il suo dirigere la politica e l’economia dalla seconda metà del XX° secolo ad ora. L’economia si è andata sempre più finanziarizzando e concentrando: sono anni che i guadagni sono sempre meno reinvestiti in produzione e se ne vanno sempre di più verso la speculazione finanziaria; allo stesso tempo sono sempre di più le fusioni e concentrazioni di aziende: sempre più potere, sempre in meno mani. E queste mani hanno un solo semplice interesse: il profitto.

Le Grandi Opere si inseriscono a meraviglia in questo processo: quando si mettono in moto ci sono banche (che sono il braccio armato della speculazione finanziaria) che prestano soldi (a privati o a governi, che importa) per la realizzazione della Grande Opera; questa messa a disposizione è un guadagno in sé dato che non c’è alcun rischio perché quei soldi in qualche modo torneranno indietro sia che l’Opera si faccia sia che non si faccia. Nel caso peggiore c’è sempre un governo (di qualuque colore) che “salva” la banca “nell’interesse dei risprmiatori”.

E qual’è l’altro innegabile vantaggio della Grande Opera? Che muove un sacco di soldi: un sacco di soldi un sacco di vantaggi. Perché, per esempio, non si investe e si incentiva il settore del fotovoltaico che potrebbe ancora risolvere ecologicamente i problemi energetici? Perché il fotovoltaico comporta diffusione sul territorio, pochi soldi distribuiti tra la gente; tentarono di fare “centrali solari” parecchi anni fa in California e si resero conto che una “Grande Opera Solare” era un’assurdità e perfino poco conveniente ed efficiente.

Meglio Grandi Opere, tanti soldi, molto tempo per realizzarle (tanti buoni interessi) e sicurezza di vincere comunque. Distruggono l’ambiente, sono pericolose per la salute, non risolvono i problemi che dicono di risolvere? Che importa, l’importante è il profitto che producono per quei due gatti che ci devono guadagnare e che distribuiranno, magnanimi, qualche spicciolo e un pochino di potere ai lacché che appoggeranno la causa. Ai quali l’incarico di trovare gli argomenti economici ed ideologici per giustificare la faccenda.

Così forse qualcuno capirà come la Torino-Lione raccolga strani consensi trasversali e perché le Grandi Opere facciano rimangiare promesse elettorali a più di un partito.

Dobbiamo smettere di credere in chi non mette in discussione il dogma centrale del profitto, legato strettamente a quelli del potere e del lavoro; dobbiamo rimettere al centro l’Essere Umano e quando diciamo questo stiamo parlando dell’importanza di ogni singola persona e del suo diritto, per il solo fatto di nascere, di vivere una vita degna, piacevole, confortevole e in cui possa trovare un senso.

Questa è la priorità umana del momento, un nuovo paradigma, un nuovo senso e un nuovo destino, senza scorciatoie. E questa priorità comporta scelte personali e sociali di un altro tipo, in base a valori e non a interessi.

(*) articolo tratto da Pressenza

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Appello: Vogliamo che Pier Paolo ritorni al lavoro!

Il 14 dicembre 2018 Pier Paolo ha ricevuto dall’Ufficio Personale una lettera di sospensione dal suo lavoro come tecnico dell’Università degli Studi di Torino.

Nulla di inerente al suo lavoro gli viene contestato: viene sospeso a causa di una condanna in primo grado (su cui ha presentato ricorso) in merito ad una manifestazione No Tav.

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Tav, crescita e povertà

di Elisabetta Grande (*)

Ma che legami ci saranno mai fra il treno ad alta velocità Torino-Lione e la povertà?

Il legame passa attraverso l’ossessione della crescita e dell’aumento del PIL. È per l’appunto il cosìddetto “partito del PIL” a sponsorizzare a gran voce la costruzione di una ferrovia che porti in giro per l’Europa, sempre più velocemente, sempre più merci in un vortice di produzione senza limiti, come se potessimo davvero ancora pensare di crescere all’infinito in un pianeta dalle risorse finite. Come se gli scienziati non ci avessero spiegato che stiamo ormai superando ogni anno la capacità ecologica del nostro pianeta del 60 per cento o che abbiamo già deteriorato il 40 per cento delle nostre terre coltivabili e che nel 2075 al più tardi le avremo esaurite tutte, così come già nel 2050 non avremo più metalli, neanche quelli che ci servono per produrre energie rinnovabili, e avremo praticamente consumato le nostre riserve ittiche. Senza contare l’accelerazione impressionante dell’innalzamento della temperatura del globo che quella crescita comporta con conseguenze letali per la specie umana[1], a meno che Elon Musk non ci salvi ovviamente!

L’idea di crescita però ci acceca, non ci permette di allungare lo sguardo oltre il presente: un presente che riteniamo tutti migliore se il PIL aumenta. Ed è qui l’inganno.

Se il PIL cresce, o ci dicono che crescerà, ciascuno di noi si sente immediatamente più ricco. Il poverissimo penserà di diventare meno povero, il mediamente abbiente di diventare un po’ più ricco e il già ricco di arricchirsi ancor di più. Dei tre, però, l’unico che vedrà il proprio immaginario realizzarsi è il ricco: gli altri rimarranno assai delusi e in particolare ciò accadrà al meno abbiente, che al posto di migliorare la sua situazione economica con ogni probabilità la peggiorerà. È questo ciò che ci insegnano gli ultimi vent’anni italiani o gli ultimi trent’anni statunitensi, e più in generale le ultime decadi di neoliberismo mondiale.

Prendiamo gli Stati Uniti: negli ultimi trent’anni la ricchezza del Paese è quasi triplicata, ma la povertà è aumentata e quella estrema è quasi raddoppiata. A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, poi, addirittura il 90 per cento degli americani non ha sostanzialmente partecipato all’incremento della torta![2]

L’andamento della ricchezza e della povertà in Italia non è molto diverso: la Banca d’Italia ci dice che la ricchezza degli italiani fra il 1995 e il 2015 è raddoppiata, ma l’Istat ci racconta che fra il 2005 e il 2015 anche la povertà assoluta è raddoppiata. Anzi, negli ultimi anni l’accelerazione dell’aumento della povertà è fortissima: mentre nel 2017 l’occupazione cresce per il quarto anno di seguito (con contratti prevalentemente a termine, soprattutto nell’ambito del settore dei mal pagati servizi) raggiungendo i livelli pre-crisi (anche se le ore lavorate sono moltissime in meno[3]) e il mitico PIL cresce dal 2016 dell’1,5 per cento (con un tasso di crescita in accelerazione dello 0,9 per cento rispetto all’anno precedente), nello stesso periodo la povertà assoluta degli individui nel nostro Paese passa dal 7,9 per cento (era 3,9 per cento nel 2008) a 8,3 per cento!

D’altronde i salariati italiani mediani, fino al 75° percentile, a partire dal 1998 assistono a una caduta della loro retribuzione reale, e quelli dei percentili più bassi, ossia del 25° e del 10°, a una vera e propria discesa verso gli inferi, quando l’1 per cento, ma soprattutto lo 0,1 per cento dei lavoratori ricchi, si arricchisce a dismisura[4]. Non è un caso se in Italia i 7 uomini più ricchi hanno una ricchezza pari a quella dei 18 milioni di italiani più poveri! Nulla, certamente, in confronto ai 3 americani più ricchi (Bill Gates, Jeff Bezos e Warren Buffet), che secondo gli ultimi dati di Forbes possiedono da soli una ricchezza pari addirittura alla metà degli americani[5]. Ma la distanza comincia ad assottigliarsi.

Qui come lì un dato è allora evidente: non è vero che la crescita del PIL e della ricchezza equivale a maggior benessere per tutti. Anzi! Paradossalmente PIL e ricchezza in aumento significano maggiore povertà per molti e nessun vantaggio per la stragrande maggioranza di noi. Insomma, in piena crescita di PIL e ricchezza, se rientriamo nei due terzi della popolazione meno ricca rimaniamo al palo se ci va bene, altrimenti diventiamo addirittura più poveri!

È dunque pur vero, come scrive Alessandro Robecchi, che i tremila imprenditori che a Torino si sono riuniti il 3 dicembre per dire sì al TAV «non sono, come si è scritto con toni eccitati e frementi “il partito del PIL”. Non rappresentano, come si legge in titoli e sommari “due terzi del PIL italiano e l’80 per cento dell’export”. Il PIL italiano, e anche l’export, lo fanno milioni di lavoratori che in quelle imprese sono occupati»[6], alcuni di loro però “il partito del PIL” lo sono davvero, nel diverso senso che della sua crescita sono gli unici ad avvantaggiarsi!

Occorre perciò svelare l’inganno che il termine crescita economica veicola, attraverso il suo subliminale messaggio di speranza che ci fa subito sentire in un eldorado immaginario in cui tutti siamo già più ricchi. È necessario guardare in faccia la realtà di una crescita neoliberista che favorisce solo pochi e fa male a tutti gli altri, creando le condizioni per l’aumento della povertà. Bisogna prendere contezza della necessità di ridurre tanto la produzione di merci quanto il consumo del pianeta.

La consapevolezza dell’inganno che si nasconde dietro l’aumento del PIL ci permetterà di allungare lo sguardo oltre l’oggi e di pensare a un domani, sempre più prossimo, in cui la vita organica sul pianeta rischia di estinguersi a meno che non invertiamo la rotta di una crescita insensata e suicida, che insieme a un treno ad alta velocità ad ancora più alta velocità ci conduce all’insostenibilità ecologica e al vero inferno sulla terra. Occorre quindi chiedere di smettere di crescere, ma al contrario di redistribuire ciò che abbiamo. È ciò che abbiamo fatto in tanti l’8 dicembre a Torino marciando contro il TAV!

[1] Cfr. per tutti Jason Hickel, The Divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, Il Saggiatore, 2018; ma anche Riccardo Barbero, La crescita illimitata è impossibile e dannosa, su Volere la luna.

[2] Cfr. Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, Wealth Inequality in the United States since 1913, october 2014.

[3] Cfr. sul punto Leonello Tronti, Crescita occupazionale, lavoro discontinuo e semioccupazione. La crisi del mercato del lavoro è finita o c’è un problema di misurazione?, Menabò n. 79, 7 marzo 2018.

[4] Cfr. Chiara Assunta Ricci, Francesco Bloise, Michele Raitano e Roberto Fantozzi, L’andamento di lungo periodo della distribuzione salariale in Italia, Menabò n. 90, 30 settembre 2018.

[5] Cfr. Chuck Collins and Josh Hoxie, Billionaire Bonanza. The Forbes 400 and the Rest of Us, november 2017.

[6] Alessandro Robecchi, «Altro che imprenditori: il partito del PIL sono gli italiani che lavorano», Il fatto quotidiano, 5 dicembre 2018.

(*) tratto da Volerelaluna.it

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