Terremoti, ministri, intuizioni pericolose

La parola «un avi ossa e rumpi l’ossa», cioè – tradotto dal siciliano – «non ha ossa e rompe le ossa». Per questo «la parola onesta è proibita e quella disonesta agevolata. Tre sono i comandamenti dell’uomo di comando: primo, non hai altro dio che la latritudine; secondo, il comandare è meglio del fottere; terzo, per annebbiare la testa alla popolazione organizza una commissione».

Questa citazione è quasi alla fine di un libro straordinario, «I ministri dal cielo» ovvero «I contadini del Belice raccontano» (28 pagine per 15 euri) di Lorenzo Barbera. E’ uscito per la prima volta nel 1980 ed è stato ristampato, una decina di mesi fa (con poche pagine di aggiornamenti, un indice di nomi e due nuovi testi di Goffredo Fofi e Alessandro La Grassa) da «:duepunti edizioni» – proprio così – di Palermo. Meritava di essere letto o riletto, presentato e discusso un po’ ovunque: non per caso invece (c’è una Italia maggioritaria che ha paura del passato non meno che del futuro) in quasi un anno è stato “silenziato” con rare eccezioni; per esempio nella terremotata L’Aquila se ne è parlato in un affollato convegno.

Il titolo si riferisce a un passaggio cruciale della narrazione: quando, subito dopo il terremoto, «dal cielo» iniziano ad arrivare nella valle del Belice le “autorità”. Il primo elicottero non scarica latte, medicine, coperte ma Aldo Moro, «capo del governo, con la faccia da funerale e con gli occhi che guardavano tutti e non vedevano nessuno»: giura che «lo Stato non dormirà» e se ne va. E’ il 16 gennaio 1968 e il giorno dopo ecco un altro elicottero. Coperte, medicine, latte? No, è Saragat. «Lu latti, dov’è lu latti?» urla Tina e «inchiappa sulla faccia del presidente un cinque e cinquantacinque», cioè un ceffone a manrovescio. I poliziotti l’afferrano ma il magnanimo Saragat («con la faccia colore dell’aglio») dice di lasciarla e che «lo Stato agirà con sollecitudine». Infatti 12 anni dopo – quando il libro viene pubblicato – molti terremotati sono ancora in baracca o in tenda.

Un ricordo personale. Quando, negli anni ’70, ho cominciato ad avere amici siciliani mi colpì che molti alla domanda «come stai?» rispondessero «cuntrastamu» cioè «resistiamo», un antico mix di realismo e rassegnazione. Questo libro è una lunga storia di resistenza condita però di rabbia e speranza. Piccole vittorie e sconfitte che molto ci possono insegnare.

Si inizia con la «Marcia per la Sicilia occidentale» (capitanata da Danilo Dolci) del marzo 1967 ma sono già 7 anni che nel Belice si sta lottando: fra le richieste una diga. «Tanti sognavano grandi cooperative agricole, senza ingordigia di padroni e senza l’intossicazione di Gela e di Priolo». Ma cos’era la Sicilia? «Cento cani sopra un osso», una «corsa di vampiri», con la benedizione di vescovi e arcipreti (e su questo ruolo negativo della Chiesa il libro insiste molto, documentando piccole e grandi complicità). Si fugge dalla Sicilia (emigrano in 600mila, forse più). Ma ci si organizza per dire no. Come canta Ciccio Busacca: «La Sicilia persi a vuci […] La Sicilia persi i peri (cioè i piedi). La Sicilia era un’orba […] La Sicilia era na vecchia». E infine «La Sicilia era nta cascia / avia datu l’arma a Diu / ma a Sicilia arrivisciu / Vitti a morti e dissi: no!» che si può tradurre così: «La Sicilia era nella cassa da morto / aveva dato l’anima a Dio /ma la Sicilia è risorta / ha visto la morte e ha detto no».

Quando arriva il terremoto nel Belice lo Stato assente scende dal cielo e poi regala 40 mila biglietti «di sola andata gratuiti». Di nuovo emigrare sembra l’unica politica ma per fortuna «i comitati di tendopoli» e qualche sindaco invitano a restare, organizzarsi, lottare. Le pagine successive sono impressionanti: «lo sciacallo filantropico» che saccheggia il Belice, i politici locali e nazionali con 6 facce come il caciocavallo («e secondo la convenienza si presentano con una faccia o con un’altra»), i soldi raccolti «per il pronto intervento» e tenuti in banca («senza dare alcuna spiegazione») fino al 1973 … sono tutte rivelazioni anche per l’oggi, dall’emergenza L’Aquila a tutte le altre della «shock economy». I volontari un giorno sono «angeli del terremotato» e un altro giorno se fanno domande o protestano diventano sovversivi e ricevono il foglio di via.

Basta poco e il Belice è dimenticato. Ma nelle tende («ammassati come bestie») ci si organizza e si decide di andare a Roma. Per non farli partire ecco lo Stato nascondere i treni e circondare di manganelli il traghetto che poi “sbaglia strada” finchè i terremotati non minacciano di guidarlo loro: sarebbe un racconto comico se non fosse tragico. E’ «il primo marzo 1968, giornata di contrasto amoroso tra il Belice e lo Stato». Quasi nessun giornalista può o vuole parlarne; quel giorno poi l’attenzione è tutta per gli scontri a Roma fra studenti e polizia. Si arriva a Roma, in piazza Montecitorio: se bisogna stare lì a lungo è necessario far le cose per bene, con «un servizio di barbiere all’aperto»; con l’aiuto di un medico e di studenti «nasce pure la farmacia». Di nuovo il racconto si fa tragicomico: 100 terremotati vengono invitati ad ascoltare la discussione sulla “loro” legge (nel Parlamento quasi vuoto) ma subito bloccati perché il regolamento impone la cravatta.

Il racconto di Barbera – ma si avverte che lui tesse una trama collettiva – è minuzioso ma una recensione o un riassunto ovviamente devono saltare molti passaggi, anche cruciali: le «botte da orbi» a Palermo, i nuovi imbrogli, piccole e grandi mafiosità, «la mazza e la carezza», poi anche bombe o incendi, e sempre i preti che invitano «ad accettare la volontà di Dio» cioè «dell’autorità, della mafia e dei benestanti». Non escono bene da questo lungo, documentato, implacabile racconto anche persone che di solito consideriamo degne: per una ragione o per l’altra anche Sandro Pertini, don Riboldi, Danilo Dolci e Pietro Ingrao si mostrano con le orecchie, il cuore e gli occhi chiusi. E intanto «repressione giudiziaria, poliziesca, mafiosa e politica» sono unite contro i terremotati che si sono organizzati,

Il capitolo sul «giudizio popolare di Roccamena» è uno dei più impressionanti: dopo una lunga indagine si organizza il processo ai responsabili degli «impegni non mantenuti». I politici e i tecnici mandano le loro scuse ma al “processo di popolo” non vengono. Le condanne sono simboliche: per esempio il ministro Giacomo Mancini deve “scontare” un mese in tenda «con moglie e figli, campando solo con il lavoro da camionista per le strade scassate del Belice». Nessuno verrà, un mese o una settimana, a fare il contadino, il fabbro o lo spazzino. «Se qualcuno lo avesse fatto, anche per un giorno, noi lo avremmo aiutato».

Impressionante è anche tutta la lunga vicenda del rifiuto di pagare le tasse «al governo fuorilegge» e dei comitati «anti leva»: dobbiamo alle piccole-grandi vittorie dei terremotati del Belice se per la prima volta in Italia si pratica un servizio civile alternativo a quello militare (ricordiamoci anche questo che in tanti riscrivono la storia di quegli anni senza competenza o vergogna). Fra i passaggi tragicomici la «sceriffata» di Tanassi e il colonnello Dalla Chiesa che dichiara «la terza guerra mondiale» contro «15 macchine» di terremotati al bivio Gialferraro.

E quando i terremotati, tornati a Roma, vengono caricati a Montecitorio (e poi persino sul sagrato di una chiesa) ecco i giornalisti pronti a scrivere che erano stati loro ad assaltare la Camera o forse qualche studente «maoista» infiltrato. Per una volta c’è un prete (don Mazzi) coraggioso ma purtroppo, subito dopo, arriva un’altra mazzata sul popolo del Belice: «Il sentimento del popolo non fu assassinato dalla mafia, né da giudici e sbirraglia» ricorda Barbera: «Il vero assassino fu il Partito comunista». Ed ecco «Occhetti, Macalusi, segretari regionali e provinciali, deputati e senatori» tutti a spiegare ai terremotati che devono star buoni, che non possono prendere «il cielo a pugni».

Le ultime pagine di questo libro ricordano che «la cancrena non è a Gibellina ma a Roma e a Palermo»: per «startararla» non basta il Belice o la Sicilia «ma ci vuole la forza del popolo italiano». Nella piccola appendice si rammenta che fine hanno fatto i Bernardo Mattarella, Giuseppe Parlato, Mario Fasino, Vito Scalia, Franco Restivo e gli altri protagonisti – in negativo – del teatrino politico.

Nel 1980 il libro si chiudeva con riflessioni amare ma con la speranza che non tutti i semi della speranza fossero morti. La nuova edizione nella post-fazione si allaccia a un’altra marcia, quella da Menfi a Palermo dell’aprile 2011, con l’invito a camminare ancora, «a costruire insieme un percorso di protesta e di speranza per i diritti delle persone e per la tutela dei beni comuni».

Esistevano tre buone ragioni, come ricorda Goffredo Fofi nella prefazione, per ristampare questo libro: l’attualità (con la necessità della disobbedienza civile di fronte ai governi ingiusti); la ricostruzione minuziosa degli inganni e delle speculazioni di un «disastro naturale»; infine la narrazione che è viva, corale, piena di humor contadino. Quella lunga mobilitazione, con i suoi successi e le sue sconfitte, può essere un pro-memoria per l’oggi e giustamente Fofi rimanda alla lotta popolare in Val di Susa. Molti anni Herbert Marcuse scrisse che «ricordare il passato può dare origine a intuizioni pericolose e la società conformista sembra temere i contenuti sovversivi della memoria» e il mio auspicio va in questa direzione: in un’Italia dove troppe/i cercano un salvatore (piccolo Cesare o presunto tecnico che sia) la memoria ci ricorda che ogni resistenza all’oppressione, ogni trasformazione positiva e ogni vittoria nasce dall’azione collettiva. Ricordare le coraggiose lotte del Belice «può dare origine a intuizioni pericolose».

UNA PICCOLA NOTA

Come già per l’intervista a Gianfranco Manfredi (a proposito del suo «Shangai Devil») questa recensione – in una versione ridotta – era da tempo ferma. Capita ogni tanto, per le più disparate ragioni, che alcuni miei articoli (talora persino concordati o programmati per le testate – ormai poche – con le quali collaboro) non esca e ovviamente mi dispiace… per il compenso e non solo. Ma questo «I ministri dal cielo» mi sembrava troppo importante per tacerne… Ho deciso dunque di rileggere il libro, riscrivere una più lunga e articolata recensione e riproporla in blog. Qui almeno non ho problemi di spazio, di sottovalutazioni, di censure, di disaccordi, di distanze dal “discorso dominante”, di imprevisti invecchiamenti tematici, di dimenticanze o chissà che. Anzi potrei quasi inventarmi una rubrica di pezzi perduti o congelati che d’improvviso resuscitano o fioriscono. Sono soddisfazioni vero? (db)

Redazione
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6 commenti

  • Bellissima recensione, la migliore che ho letto finora su questo libro. Grazie db.

  • grazie db e, come si dice in inglese, don’t hate the media, be your media, anche se bisogna capire come si fa a camparci…

  • caro rom, che bello il simbolino di linux con la falce e martello! non l’avevo ancora visto!!!

  • Leggendo in questo libro che la parola «un avi ossa e rumpi l’ossa» cioè «non ha ossa e rompe le ossa» mi ronzava un vago ricordo: che cioè Tahar Lamri (scrittore algerino che vive a Ravenna ma lo avete incontrato anche qui in blog) avesse scritto o magari raccontato qualcosa del genere. Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: Il detto algerino (e anche albanese) recita così “la lingua non ha osso ma può rompere le ossa”. Ora lo sapete anche voi, ciao. (db)

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