Umani dentro gabbie

«Ci manca(va) un venerdì – 89»: dove l’astrofiloso Fabrizio Melodia fa i conti con Fëdor Dostoevskij, Voltaire, Angela Davis, Van Gogh, la Svezia e … persino con il leghista Eraldo Isidori 

 

Facendo eco a Voltaire, lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij – non nuovo a esperienze carcerarie e spesso citato in questa rubrica bottegara – sentenziava: «Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni».

Affermazione pesante che ci interroga quanto realmente sia progredita l’umanità intera nel garantire i più elementari diritti umani, a partire dai luoghi dove meno essi possono venire rispettati per “unanime” – e magari tacita – decisione.

Nell’ultimo numero della bella rivista «Uomini in cammino» si legge questa analisi di Angela Davis, ex leader del partito comunista americano: «Le carceri statunitensi [sono] macchine (di proprietà privata) per la privazione di diritti civili (le statistiche dicono che quasi sei milioni di cittadini hanno perso il diritto al voto per un processo penale); macchine economiche per l’accumulazione di ricchezza mediante la spoliazione delle comunità latine e afroamericane (…) Ma il carcere è anche il luogo dove la violenza intima, quella sessuale, s’incontra con la violenza statale perché è commessa dallo Stato stesso. E l’ideologia del terrorismo sta alimentando islamofobia e razzismo oramai in tutto il Nord del mondo, criminalizzando le comunità subalterne e generando nuova linfa per un sistema repressivo globale basato sulla vendetta e il castigo. Allora il modello penitenziario statunitense altro non è che il pezzo centrale di un ingranaggio globale. Una macchina sempre più privatizzata che zittisce e neutralizza le contraddizioni sociali del sistema capitalista, rinchiudendo e castigando i soggetti sociali che queste contraddizioni le soffrono sotto forma di molteplici oppressioni».

Difficile dar torto ad Angela Davis: la nostra società appare alquanto barbarica. E d’altronde notizie di vita intollerabile nelle carceri estere e nostrane sono all’ordine del giorno, con la felice eccezione della nordica Svezia, dove le prigioni vengono smantellate e trasformate in luoghi di pubblica utilità sociale mentre i programmi di recupero dei detenuti sono il fiore all’occhiello di questa nazione saggia… seppur colpita da un forte aumento delle violenze domestiche e non.

Sembra che a molte persone però non interessi cosa avviene nelle carceri, piuttosto che esse ottemperino al proprio compito: «Il carcere è un penitenziario… non è un villaggio di vacanza… si deve scontare la sua pena prescritta… che gli aspetta… lo sapeva prima fare il reato… io ritengo come Lega… di non uscire prima della sua pena erogata, grazie» affermò in un intervento ultra sgrammaticato il parlamentare Eraldo Isidori della Lega Nord, il quale, nella frettolosa corsa ad ostacoli del proprio discorso, rappresenta quella paura tremenda a cui fa riferimento Angela Davis.

Filippo Turati, leader socialista del Regno d’ Italia, ben poneva in luce questo problema, anticipando notevolmente i tempi: «Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice. Le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori».

Che fare, dunque? Abolire le carceri? Pensare a programmi di recupero seri per i detenuti durante la pena? Se ne discute da molti anni ma nel frattempo la base su cui è impostata tutta la nostra «Società Bella e Pulita» pare non essere in discussione, la violenza classista e la sopraffazione del socialmente più forte sono all’ordine del giorno.

Sembrava saperla lunga Vincent Van Gogh, portando una calzante metafora: «Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare: che cosa è? Non se lo ricorda bene, ha idee vaghe e dice a se stesso “gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata” e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa e lui è pazzo di dolore. “Ecco un fannullone” dice un altro uccello che passa di là, “quello è come uno che vive di rendita”. Intanto il prigioniero continua a vivere e non muore, nulla traspare di quello che prova, sta bene e il raggio di sole riesce a rallegrarlo. Ma arriva il tempo della migrazione. Accessi di malinconia – ma i ragazzi che lo curano nella sua gabbia si dicono che ha tutto ciò che può desiderare – ma lui sta a guardare fuori il cielo turgido carico di tempesta, e sente in sé la rivolta contro la propria fatalità. “Io sono in gabbia, sono in prigione, e non mi manca dunque niente imbecilli? Ho tutto ciò che mi serve! Ah, di grazia, la libertà, essere un uccello come tutti gli altri!”. […] E gli uomini si trovano spesso nell’impossibilità di fare qualcosa, prigionieri di non so quale gabbia orribile, orribile, spaventosamente orribile…».

Prigioni magari moderne, gabbie hi tech… che importa del cielo aperto, dove il blu si apre all’infinito? «Non c’è libertà a questo mondo; solamente gabbie dorate» affermava Aldous Huxley, rimarcando il grado di civiltà di questo nostro piccolo mondo perfettamente imperfetto. 

 

L'astrofilosofo
Fabrizio Melodia,
Laureato in filosofia a Cà Foscari con una tesi di laurea su Star Trek, si dice che abbia perso qualche rotella nel teletrasporto ma non si ricorda in quale. Scrive poesie, racconti, articoli e chi più ne ha più ne metta. Ha il cervello bacato del Dottor Who e la saggezza filosofica di Spock. E' il solo, unico, brevettato, Astrofilosofo di quartiere periferico extragalattico, per gli amici... Fabry.

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