Un ciclo domestico

racconto di Maurizio Cometto (*) … fra Julio Cortàzar e certi ricordi d’infanzia

Yerka-LATOwMIESCIE

Fuori, ormai, era sorto il sole. Si sedettero e aspettarono. Seduti sul dondolo in terrazzino aspettavano l’arrivo di papà.

Due sere prima era giunta la sua telefonata: da Lima, la capitale del Perù. Arrivo dopodomani mattina verso le sette, aveva annunciato con voce un po’ spenta. Papà era ingegnere minerario e lavorava per una holding multinazionale: per questo erano frequenti i suoi viaggi all’estero. Ormai da due mesi mancava da casa: da aprile.

Quella telefonata aveva turbato Giuliano. Era ansioso di riabbracciarlo, certo, eppure… non sapeva proprio come spiegarla una tale inquietudine. Seduta sul dondolo accanto a lui c’era Lidia, la sorellina di sei anni. Sul viso aveva una smorfia di trepida attesa. La mamma, invece, era rimasta in soggiorno. La sera della telefonata non era parsa particolarmente felice. Forse il motivo era stato il tono triste di papà, pensò Giuliano.

Comparve un taxi sulla strada comunale aldilà del cancello. Il taxi si fermò: ne scese un uomo alto con due grosse valigie; portava occhiali neri da sole. Giuliano si alzò di scatto e gli corse incontro attraverso il vialetto. Lidia lo seguì.

Papà, sei tornato!”, esclamò abbracciandolo.

Sì, sono tornato”, rispose papà.

Anche Lidia pretese il suo abbraccio. Chinandosi, l’uomo la prese e poi la sollevò. Ma pareva stanco, nei movimenti, come se avesse bisogno di riposo; e poi quegli occhiali scuri: Giuliano non riusciva a capire cosa guardasse di preciso. Sembrava fissare qualcosa di indefinito vicino al dondolo.

Sulla soglia della porta finestra comparve la mamma. Aveva il grembiule macchiato di caffelatte, notò Giuliano: una grossa macchia all’altezza del fianco sinistro. Guardò verso papà, senza dire nulla.

Nel complesso fu una mattinata indecifrabile, così parve a Giuliano. Sembrava che papà non avesse voglia di parlare; dopo essersi rifocillato e sistemato, si chiuse nello studio per “certe carte importanti da sistemare”. Anche la mamma pareva di malumore.

Verso la mezza si riunirono per il pranzo. Buona parte di esso venne consumato nel più totale silenzio, e ciò innervosì non poco Giuliano: dov’erano finiti gli schiamazzi di Lidia e le lamentele della mamma? Perchè papà non raccontava qualcosa della vita in Perù? Alla fine decise di rompere il silenzio.

Papà, non hai portato niente da Lima?”. Gli occhi della mamma lo fulminarono.

Certo, Giuliano”, rispose il padre, senza staccare gli occhi dal piatto. Furono le uniche sue parole durante il pranzo. Non spiegò, ad esempio, che cosa avesse portato da Lima per il figlio, e se avesse portato qualcosa anche per Lidia. “Sicuramente non ha portato nulla”, pensò Giuliano.

Nel pomeriggio papà si chiuse nello studio senza addurre spiegazioni. E’ ovvio che accusasse una certa stanchezza: il lungo viaggio, il fuso orario… ma allora perchè non andava a distendersi sul letto, si chiese Giuliano? Che avesse qualche pratica da sistemare con urgenza?

La mamma sembrò ignorare questo comportamento; verso le due e mezza Giuliano la trovò ancora in cucina, intenta a pulire i fornelli. Lavorava con foga inusuale per lei. Sulla soglia che divideva la cucina dal soggiorno provò a rivolgerle la parola.

Mamma, cosa pensi che abbia papà?”.

Si tirò su in piedi e si volse verso il figlio. Sul viso aveva un’espressione concentrata; indossava sempre quel grembiule macchiato di caffelatte.

Niente, cosa vuoi che abbia?”. Sorrise. “Perchè non vai a giocare un po’ da Luca? Non vedi che bella giornata, fuori?”.

Giuliano annuì. Avrebbe preferito trascorrere il pomeriggio con papà, ma viste le circostanze…

E porta anche Lidia con te”, aggiunse la mamma. Si chinò e riprese a strofinare.

Anche Lidia…’, pensò Giuliano con disgusto. Tuttavia non protestò. La mamma era nervosa: sicuramente si sarebbe arrabbiata con lui. Sembrava proprio che quel pomeriggio non li volesse tra i piedi: che avesse da discutere con papà?

Da Luca giocarono a tennis. Nell’ampio cortile asfaltato delimitarono il campo disegnando un grosso rettangolo con un gessetto; in mancanza della rete, poi, lo divisero a metà con una linea, in modo da individuare i settori avversari. Anche per questo ci furono molte contestazioni: in certi casi non si capiva da che parte avesse rimbalzato la pallina.

Verso le cinque successe il guaio. Stufo delle lamentele di Lidia che si sentiva messa in disparte, Giuliano le permise di provare qualche tiro. Era la prima volta che teneva in mano una racchetta. I primi due tentativi andarono a vuoto; non il terzo, purtroppo. Con insospettata violenza, infatti, centrò in pieno un vetro dell’unica finestra del capannone che lo zio di Luca utilizzava come deposito attrezzi. Il vetro andò in frantumi sull’asfalto e sul pavimento all’interno. Dopo qualche secondo di stupore inebetito, Lidia scoppiò in lacrime.

Attesero immobili l’arrivo del signor Enrico. A quell’ora era sua abitudine ritirarsi in camera a leggere il giornale, li informò Luca: sicuramente dunque aveva sentito il fracasso, visto che la finestra dava proprio sul cortile. Nondimeno, trascorsero dieci minuti e nessuno si fece vivo. Cominciarono allora a tranquillizzarsi, e Lidia smise di piangere. Coi nervi tesi e le orecchie in allarme, infine, decisero di riprendere il gioco. Luca si affannava a garantire che suo zio non si sarebbe arrabbiato e che, soprattutto, non avrebbe informato del fatto la loro mamma.

Ma Giuliano conosceva bene Luca: sapeva che, messo alle strette, avrebbe finito col dare tutta la colpa a Lidia. E il signor Enrico era noto come un tipo che non lascia correre nulla, soprattutto se si tratta di soldi. In cuor suo, allora, decise di dir tutto a papà, prima che Giorgetti venisse a batter cassa.

Rientrarono a casa alle sei e mezza. La mamma stava stirando una camicia di papà: strano, perchè a quell’ora d’abitudine guardava la tv. Li salutò distrattamente; poi, colpita da qualcosa sul viso di Lidia, si chinò: si trattava di una piccola macchia di terriccio; con uno straccetto bagnato gliela lavò via. Lidia arrossì. Aveva una faccia colpevole; un debole, timido sorriso le comparve sulle labbra.

Che hai di nuovo combinato?”, fece la mamma. In realtà pareva pensare a tutt’altro.

Sai dov’è papà?”, chiese Giuliano.

Papà è nello studio”, asserì la mamma. Si rialzò, posò lo straccetto e riprese a stirare con foga. “Papà è rimasto nello studio per tutto il pomeriggio”.

Giuliano passò in corridoio e si diresse alla porta dello studio. Bussò con due colpi leggeri: nessuna risposta. “Papà”, chiamò. Silenzio. Provò allora la maniglia: la porta si aprì dolcemente. Entrò. Lo studio era vuoto; sulla scrivania, un sottile strato di polvere ricopriva tutto… anche il leggio in legno di noce, quello che la mamma aveva regalato a papà un Natale di qualche anno prima. Uscì e corse in cucina.

Mamma”, ansimò. Aveva il fiato grosso. “Papà non c’è nello studio”.

Non è possibile. L’avrei sentito uscire, altrimenti”. Si udì uno scoppio di risa provenire dal soggiorno: Lidia doveva aver acceso la tv. “Dev’essere uscito a mia insaputa”, continuò la mamma. “Senza far rumore. Come un fantasma”. Una strana espressione le comparve sul volto.

Questo episodio mise addosso a Giuliano una specie di angoscia. “Deve proprio essere uscito”, concluse, ma quel modo di fare della mamma lo angustiava. “Chissà cosa si sono detti nel pomeriggio” pensò. Andò nel soggiorno a guardare la tv.

Quando si misero a tavola per cena papà non era ancora rientrato. Fuori, sulla collina della Pica, il sole era al tramonto. “Lo aspettiamo?”, chiese Giuliano alla mamma.

Non so”, rispose lei. La testa fra le mani, fissava il proprio piatto. Lidia faceva palline con la mollica del pane. Teneva gli occhi bassi e sfuggiva gli sguardi della mamma. Pareva sentisse ancora il fracasso del vetro in frantumi.

D’un tratto si aprì la porta sul corridoio e comparve papà. Una nervosa sensazione di sollievo invase Giuliano: per fortuna non avevano ancora cominciato a mangiare. “Papà, sei rientrato finalmente”, lo accolse.

Rientrato? E da dove?”, parve stupito. “Non ero mica fuori”. Si sedette a tavola e, preso un grissino, cominciò a sgranocchiarlo. La mamma si alzò per servire.

Probabilmente stava in bagno”, pensò Giuliano.

Durante la cena nessuno si azzardò a parlare, e tutti evitavano di guardarsi negli occhi. Gli parve allora che ciascuno avesse da meditare su un proprio segreto, terribile, da nascondere assolutamente.

Quella sera la mamma parve aver fretta di sgombrare il soggiorno. “A nanna!”, ordinò perentoriamente quand’erano appena le nove e venti. In quel momento Giuliano era immerso in un fumetto di Zio Paperone; Lidia, davanti alla tv, le gote arrossate, sembrava dormicchiare; in quanto a papà, nascosto da un quotidiano newyorkese, era seduto in disparte.

Mamma… è presto!”, si lamentò Giuliano.

Il primo ad alzarsi fu proprio papà. Sembrò che quell’ordine fosse stato rivolto a lui personalmente. Senza un saluto, senza un cenno, sparì dietro la porta che dava in corridoio. Allora Giuliano si alzò per seguirlo: prima di andare a dormire voleva riferirgli del vetro rotto da Lidia. Meglio farlo subito perchè, chissà, magari già domattina si sarebbe presentato il signor Enrico a pretendere il risarcimento.

Entrò in corridoio e raggiunse la camera dei suoi. Si affacciò sull’uscio e guardò dentro, ma non lo trovò. Forse in bagno, allora… no, niente neanche lì. Si diresse verso lo studio, socchiuse la porta… all’interno era buio pesto: nessuno. Controllò infine la camera da letto che divideva con Lidia. Era vuota anche quella.

Sarà uscito”, pensò allora. “Sarà uscito passando da qui”. Di fronte alla porta della cucina c’era l’ingresso principale: dava sul cortile dell’autorimessa, sul lato opposto della casa rispetto al terrazzino. Abitualmente lo usavano di rado: era più comodo utilizzare la porta-finestra del soggiorno. Avvicinandosi, si accorse che l’uscio era socchiuso. Lo aprì completamente, scese tre bassi gradini e si trovò nel piccolo cortile. L’aria era tiepida; sulla destra, sopra la collina della Pica, il cielo sfumava in un azzurro ancora chiaro. Si guardò intorno: papà non c’era.

Chiudendosi l’ingresso alle spalle, rientrò e poi corse in soggiorno. “Mamma…”, cominciò. La frase gli morì in bocca: il soggiorno era vuoto. “Han dimenticato di spegnere la luce”, pensò. Andò alla porta-finestra e si mise col naso schiacciato sul vetro, cercando di penetrare l’oscurità. Si accorse subito della presenza di qualcuno lì fuori: c’era un lumicino rosso che sembrava disegnar scarabocchi nel buio. Sentì il cuore accelerare. Uscì e, appoggiato alla balaustra del terrazzino, riconobbe papà. Stava fumando una sigaretta. Appena Giuliano fece cenno di avvicinarsi questi si voltò e, piegandosi in avanti ad appoggiare i gomiti sul mancorrente, parve immergersi nella contemplazione dell’oscurità.

Papà”, cominciò Giuliano.

Che c’è?”

Volevo dirti una cosa che è successa oggi, dai Giorgetti”.

Che è successo dai Giorgetti?”. Nella sua voce, smorta, c’era una punta di irritazione.

E’ stata Lidia. Sai, quando le prendono quei momenti potrebbe fare di tutto…”.

Che è successo?”.

Ha… ha rotto un vetro del capanno degli attrezzi del signor Enrico, con una pallina da tennis…”.

Con una pallina da tennis?”

Si, papà. Luca… potrebbe fare la spia, lo conosci Luca. Se domani venisse il signor Enrico…”

Ne hai parlato con la mamma?”. Un alito di vento fece oscillare il dondolo, che scricchiolò.

No… sai, la mamma mi sembra un po’ nervosa…”.

Parlane con la mamma”. Soffocando il mozzicone sul mancorrente si rialzò.

Ma papà…”.

Vedrai che non si arrabbia. Parlane con la mamma”.

Giuliano rientrò in soggiorno. Il cuore pulsava come impazzito; si sedette sul divano cercando di ritrovare la calma. Perchè si sentiva così teso, così agitato? Perchè parlare con papà lo aveva così sconvolto? In fin dei conti l’aveva rotto Lidia, quel vetro, mica lui. Ma non era quello il punto, pensò. Non gli era piaciuto come papà lo aveva trattato, ecco.

Si alzò e raggiunse la cameretta che divideva con Lidia; seduta sul letto della sorellina c’era la mamma, intenta ad augurarle la buonanotte. Giuliano, fermo sulla soglia, rimase per un attimo a contemplare la scena. Ambedue sorridevano teneramente; in particolare, il sorriso di Lidia era ancora timido e colpevole. Poi la mamma si chinò e le diede un bacetto sulla guancia, proprio nel punto dov’era stata la macchia di terriccio. Giuliano non amava questo tipo di scena.

Mamma, mi vuoi spiegare cos’ha papà?”, chiese.

La madre si alzò e gli venne incontro. Il suo volto pareva essersi disteso: appariva più serena rispetto al pomeriggio.

Perchè? Che cos’ha papà?”, domandò.

Non so… mi sembra strano”, rispose lui. “Non me lo ricordavo così”. Immagini della vita senza papà gli balzarono, d’improvviso, alla memoria. Le grida della mamma, gli schiamazzi di Lidia; le risate; le passeggiate serali, i gelati al Charlot. Sembravano ricordi di tanti anni prima. Invece era passato solo un giorno. Solo un giorno.

Giuliano cominciò a svestirsi; la madre prendeva i suoi vestiti e li ripiegava accuratamente su una sedia. “Ah, mamma… c’è una cosa che devo ancora dirti. Prometti di non arrabbiarti?”.

Certo”, si fermò a guardarlo. “Che c’è?”.

Questo pomeriggio, dai Giorgetti. Lidia ha…”.

Oh, non ti preoccupare”, lo interruppe lei. Sorrise. “Me ne ha già parlato Lidia. E’ tutto a posto”.

Impiegò più di due ore per addormentarsi. Si rigirava tra le lenzuola inquieto; di quando in quando aguzzava l’udito, perchè gli pareva di sentire dei rumori provenienti da qualche punto della casa. Allora lo prendeva uno strano timore: “E’ papà che gironzola nell’oscurità del corridoio, avanti e indietro, avanti e indietro, incapace di prendere sonno”. E avrebbe voluto scendere dal letto per sbirciare oltre la porta, ma non ne ebbe il coraggio.

Erano già le nove e mezza quando si alzò. In cucina trovò solo Lidia e la mamma: la prima stava finendo la sua zuppa di corn-flakes, la seconda era intenta a risciacquare il tazzone di papà, quello colorato d’azzurro.

Papà è uscito”, informò subito la mamma, senza neanche voltarsi. Pareva indaffarata come non mai.

Trascorse la mattina facendo i compiti delle vacanze. Non che ne avesse voglia, ovviamente; fu piuttosto una specie di azione riflessa: trovandosi seduto alla scrivania per chissà quali motivi, decise di approfittarne.

Intorno alle undici meno un quarto suonarono all’ingresso. Andò lui a vedere chi fosse perchè la mamma era occupata in bagno. Aprendo la porta presentì che doveva trattarsi del signor Enrico. E difatti, ai piedi dei tre bassi gradini, c’era proprio lui; alle sue spalle, un po’ in disparte, Luca.

E’ in casa tua madre?”, chiese il signor Enrico. Era un uomo sui quarant’anni che indossava sempre pantaloni di velluto color nocciola… secondo un’assurda convinzione di Lidia, sempre lo stesso paio.

D’un tratto comparve la mamma… “Oh, signor Giorgetti! Entri, la prego, non faccia complimenti. Luca! Come stai?”.

Si accomodarono in soggiorno. La mamma offrì a Luca qualche cioccolatino al ribes; Giuliano, vedendo questo, si stupì: “Ma come, avevamo dei cioccolatini al ribes?”, pensò. “E io che non ne sapevo nulla…”. Anche il signor Enrico ne accettò uno, con un gesto così impacciato che per poco non fece cadere l’intero vassoio. Pareva nervoso, come se avesse fretta; e d’improvviso, mentre ancora aveva in bocca il cioccolatino, cominciò a parlare. Visibilmente teso, con un tono di voce risentito, raccontò come la sera precedente, di ritorno da una fruttuosa escursione in cerca di funghi, avesse scoperto un vetro del capanno degli attrezzi in frantumi. Interrogato Luca sulla questione, era saltato fuori il nome di Lidia. “Vero, Luca?”, apostrofò, lasciando intendere dall’espressione come disapprovasse il nipote. Luca, arrossendo, assentì con il capo. Giuliano ebbe l’impressione che stesse lottando per non piangere.

Non si preoccupi, pagheremo tutto”, rispose la mamma. “Sa, mia figlia ha confessato… come vede non c’era bisogno di torchiare Luca…”. Sorrise all’indirizzo del signor Enrico, come in attesa di una sua reazione. Ma proprio in quel momento la porta che dava sul corridoio cominciò a muoversi; tutti si voltarono, incuriositi. A poco a poco, attraverso l’apertura, fece capolino il viso di Lidia. Era rossa e sorrideva in un modo malizioso. “Piccola bricconcella!”, esclamò la mamma; le corse incontro e la fece entrare a forza, trascinandola per un braccio.

E’ proprio una bambina deliziosa”, osservò il signor Enrico. Sembrava d’improvviso sulle spine. Lidia gli rivolse un’occhiata da sotto in su, come se si fosse trattato un orco. L’uomo parve perdere il controllo. “Suo marito non è in casa?”, balbettò. “Mi… mi pareva che fosse tornato ieri…”.

Cadde uno strano silenzio.

E’ uscito poco fa”, rispose la mamma dopo qualche secondo. “E’ andato al circolo tennistico. Credo che…”, ma fu interrotta. Per la seconda volta la porta che dava in corridoio si era spalancata. Adesso sulla soglia c’era papà. Giuliano fu colpito dai suoi occhi: parevano assenti, come persi nel vuoto. Per un secondo o due stette lì, fermo, come a controllare chi fosse nella stanza. Nessuno aprì bocca. Poi, inaspettatamente, si richiuse la porta alle spalle e scomparve.

Credo sia ora di tornare, vero Luca?”, la voce di Giorgetti parve stridere. “Allora per quella faccenda siamo d’accordo così…”.

Certo, non si preoccupi”, rispose la mamma. “Pagheremo quel vetro. Capisco perfettamente”. Fissava il tappeto.

Dopo un po’ se ne andarono. Prima di tornare ai suoi compiti Giuliano sbirciò nelle varie stanze per vedere dove fosse papà. Tutto inutile: doveva essere uscito. Perchè, invece che entrare e salutare il signor Giorgetti, aveva fatto la bella statuina sulla soglia del soggiorno, per poi sparire? Seduto alla scrivania davanti ai quaderni non riuscì a trovare la concentrazione. E gli venne in mente che non aveva scambiato neppure una parola con Luca. Neppure un saluto.

Verso mezzogiorno passò in cucina. La mamma stava tagliuzzando una cipolla; Lidia, seduta a fianco, colorava un giornaletto. Sembravano molto concentrate: non lo degnarono neppure di uno sguardo. Andò in soggiorno e uscì in terrazzino. Era una giornata soleggiata e limpida: del resto domani, ventun giugno, iniziava l’estate. In lontananza, oltre la statale e i roveti che costeggiavano la ferrovia, si scorgeva la vecchia fabbrica del tannino.

Quel pomeriggio sarebbe andato da Luca, a dimostrargli che non ce l’aveva con lui. Gli era parso giù di corda, quella mattina; di sicuro si sentiva in colpa per aver spifferato tutto a suo zio. Ma Luca era fatto così, pensò Giuliano: inutile prendersela troppo.

Gli venne voglia di fare una passeggiata su per la collina della Pica. Una volta avevano costruito una capanna, lui e Luca e Marco Giordani, proprio su un fianco della collina, sotto un enorme castagno. Ma quella passeggiata l’avrebbe fatta insieme a papà; decise di proporglielo dopo pranzo.

Rientrò in soggiorno e passò in cucina. Un forte odore di cipolle fritte lo investì; sul gas sfrigolava una grossa padella. “Mamma, sai dov’è papà?”, chiese.

E’ uscito”, rispose lei.

Si diresse verso la tavola. “Che c’è da mangiare?”.

Fiori di zucca impanati”.

Fiori di zucc…”.

Il piatto preferito di papà!”, esclamò Lidia; saltellando per tutta la cucina cominciò a cantilenare: “Fioridizuccaimpanaaati!, fioridizuccaimpanaaati!”.

Papà forse non sarà a pranzo”, sentenziò la mamma. Era assorta nell’impanatura come se rappresentasse lo scopo ultimo della sua vita. Sguardo concentrato, gesti rapidi e precisi… Giuliano non l’aveva mai vista così.

Attese l’ora di pranzo in terrazzino, seduto sul dondolo. Con gli occhi scrutava lungo la provinciale perchè sperava, da un momento all’altro, di veder comparire papà. Tra le mani stringeva il grosso yo-yo di plastica, trasparente, come quegli orologi che si vede il meccanismo. Due anni prima, in luglio, papà l’aveva vinto ad una specie di lotteria, alla fiera di S. Anna, e gliel’aveva regalato. Stranamente, era diventato uno dei giocattoli preferiti di Lidia.

Cominciarono a mangiare senza papà. L’insalata… la pastasciutta… silenzio. Giuliano fu colpito da un particolare: il rumore delle posate. Era la prima volta che durante un pasto notava il rumore delle posate; insinuandosi nella sua testa divenne come un’ossessione: non udiva più altro che il rumore delle posate.

Giunsero infine ai fiori di zucca impanati… e proprio in quel momento si spalancò la porta del corridoio e comparve papà. Dapprima annusò l’aria, le pupille verso l’alto, come chi cerca di ricordare qualcosa… poi… “Mmmm… fiori di zucca impanati”, mormorò fra sé e sé, annuendo con la testa. A passi strascicati, si diresse verso la tavola e si sedette al suo posto. Sbadigliò. Prese dall’insalatiera un pomodoro, uno di quelli non troppo maturi, e lo tagliò a fettine regolari. Poi le condì con un po’ d’olio… niente sale, niente aceto… e si mise a mangiare.

Giuliano ruppe il silenzio. “Papà, dove sei stato di bello?”.

A dormire”, rispose distrattamente. “Ero stanco per il viaggio di ieri”.

Quella risposta gli parve sospetta. La mamma aveva detto che era uscito: forse che s’era sbagliata? O aveva mentito? O forse era papà a mentire? E perchè? Si ricordò di come avesse fatto capolino, papà, sulla soglia del soggiorno, durante la visita del signor Enrico. Si ricordò di come l’avesse cercato, dopo, in tutte le stanze: inutilmente. Allora lo prese una strano timore: che papà stesse perdendo la memoria.

Il pranzo continuò in silenzio. Poi, verso l’una, papà passò in soggiorno; sbirciando dietro l’uscio, Giuliano lo vide uscire in terrazzino. Gli andò dietro e lo raggiunse mentre si accendeva una sigaretta; aspirò qualche boccata di fumo, incurante del figlio, e si appoggiò alla balaustra. Guardava lontano, verso la fabbrica del tannino. Giuliano ripensò alla sera precedente. Il cuore cominciò ad accelerare, accelerare, fino a pulsare come impazzito. “Perchè, perchè?”, si chiese sgomento. “Perchè ho paura? Lui è il mio papà. Devo calmarmi”.

Si sedette sul dondolo che scricchiolò… papà si volse a guardare…

Per due minuti ci fu silenzio. Poi Giuliano si fece coraggio: “Ti annoi, papà?”.

Il padre si voltò e sorrise. Un sorriso affaticato. “Qualche volta mi annoio”, rispose. “Qualche volta”. Sembrava che dentro di lui si fosse risvegliato un ricordo.

Che ne diresti di una passeggiata alla collina della Pica, dopo? Magari… per funghi?”.

Tornò a voltarsi, ad appoggiarsi alla balaustra; gettò la sigaretta nell’erba poco avanti. Così piegato sulla ringhiera dava l’impressione di un uomo schiacciato da un peso insopportabile. “Hai litigato con Luca?”, chiese, senza voltarsi.

Oh, no, papà”, si affrettò Giuliano. Sentì di volergli bene. Sentì di volergli bene così, tutto d’un tratto, proprio in quel momento, chissà perchè. “Oh, no, non ho litigato con Luca. E’ stata Lidia, lo sai com’è fatta. E’ stata Lidia che…”, ma dietro di lui qualcuno scoppiò a piangere. Si voltò a guardare: Lidia… non si era accorto che fosse sulla soglia della porta-finestra. Provò rimorso per ciò che aveva detto… eppure, ripensandoci, non aveva detto nulla di male. “Credo di averla offesa, ma perchè?”. Si sentì come paralizzato. Vide papà voltarsi e tornare in cucina. Cercò di ritrovare la calma… respinse l’impulso di fuggire via. Poi si alzò e rientrò anche lui.

Nel soggiorno, sedute sul divano, c’erano Lidia e la mamma. Lidia teneva il volto nascosto in grembo alla mamma. Era scossa dai singhiozzi. La mamma la dondolava cercando di consolarla. Papà non c’era.

Giuliano si avvicinò. “Mi dispiace”, disse. Si sentì una specie di corpo estraneo. Indesiderato. Forse avrebbe fatto meglio ad andarsene subito, certo. Ma aveva ancora la domanda. Un misterioso, terribile impulso gli imponeva di fare la domanda. E la fece.

Dov’è andato papà?”

La mamma alzò due occhi verso di lui, increduli, di fuoco. “Tu e il tuo papà!”, urlò. “Non lo so dov’è andato papà! Era li fuori con te, no?”. Lidia si voltò. Aveva il viso stravolto. “Hai fatto la spia con papà!”, strillò. “Hai fatto la spia con papà, brutto spione!”, e pesanti lacrimoni gli calavano sulle guance. Giuliano corse in camera. Preso un vecchio numero di Zio Paperone e cercò di mettersi a leggere. Sentiva un rimescolio agitarsi nelle profondità del petto: come se qualcosa si fosse ingarbugliato; come se un nodo si fosse formato, terribile, doloroso, che chissà quanti anni ci sarebbero voluti per sbrogliarlo.

Immergendosi nella lettura del fumetto, Giuliano pian piano rimosse l’accaduto. Verso le tre decise di uscire per andare da Luca. Voleva fargli capire che non ce l’aveva con lui; dopodiché, senza Lidia fra i piedi, avrebbero potuto giocare a tennis in santa pace.

Su un balcone del secondo piano uscì la madre di Luca. “Ha da fare i compiti delle vacanze”, lo informò perentoria. “Non può uscire, oggi”. Altroché compiti delle vacanze, pensò Giuliano. Evidentemente, sentendosi ancora in colpa, non aveva il coraggio di affrontarlo faccia a faccia. Pieno di stizza verso l’amico, se ne tornò a casa.

Davanti al terrazzino, ginocchioni sull’erba, trovò Lidia intenta a pettinare la Barbie. La mamma gliel’aveva regalata circa tre mesi addietro, in occasione del suo compleanno; Lidia amava soprattutto pettinarla, la Barbie. C’erano giorni in cui passava ore intere a pettinare la Barbie, e questo nauseava Giuliano. Sfilandole accanto evitò di incrociarne lo sguardo; tuttavia non poté fare a meno di notare l’improvviso scatto violento dei suoi movimenti: fece un gesto, Lidia, passando il pettine tra i capelli della bambola, come se volesse strapparglieli.

Scappò in soggiorno e chiamò la mamma. Voleva le chiavi della soffitta. Avrebbe trascorso quel pomeriggio a leggere un giallo, ecco. Quella specie di inquietudine andava soffocata e, inconsciamente, intuiva nella lettura il mezzo più efficace per farlo. In soffitta c’era uno scatolone zeppo di vecchi libri gialli; molti anni addietro papà aveva vinto l’abbonamento ad una collana di classici polizieschi; nondimeno, poiché non aveva tempo di leggerli, e alla mamma non interessavano, i volumi erano finiti lì. Giuliano ne aveva già divorati parecchi; dopo i fumetti, erano la sua lettura preferita. Attirato dalla copertina, scelse un volume intitolato “Le tre bare” di un certo John Dickson Carr. Scese in terrazzino, si sistemò sul dondolo (subito Lidia, vedendolo, si alzò dall’erba e rientrò in soggiorno) e cominciò a leggere.

Per l’intero pomeriggio non si staccò dal libro; e invece che placarsi, la sua inquietudine aumentò. Raccontava, il romanzo, di due omicidi: il primo commesso in una camera chiusa dall’interno, sorvegliata da testimoni disposti non solo ad asserire di aver visto entrare soltanto la vittima ed uno sconosciuto dal volto celato, ma anche a giurare di non aver visto uscire nessuno fino al momento dell’irruzione della polizia (all’interno della camera avevano trovato solo il cadavere); il secondo, invece, in mezzo ad una strada completamente sgombra, da qualcuno che, nei dintorni della vittima, sulla neve fresca, non aveva lasciato impronte (il manto nevoso era intatto) e questo nonostante il colpo di pistola fosse stato sparato a bruciapelo. E non poteva trattarsi di suicidio, in ambedue i casi: prove inconfutabili lo dimostravano.

E’ stato un fantasma”, pensò Giuliano. Richiuse il libro: la mamma lo stava chiamando per cena. “Solo un fantasma può attraversare porte chiuse senza essere visto e camminare sulla neve fresca senza lasciare impronte”. Sapeva, però, che doveva esistere una soluzione logica: nei gialli era sempre così.

Mentre mangiava non fece altro che meditare sull’“uomo invisibile”: il misterioso assassino. Lo impressionava in una maniera inspiegabile. Viscerale. Quel suo sgusciare inafferrabile da una stanza all’altra… Si accorse d’improvviso dell’assenza di papà. Anche durante il pomeriggio non l’aveva visto. Dall’immediato dopopranzo non s’era più fatto vivo.

Quella sera, disteso sul letto, la testa appoggiata al cuscino, Giuliano leggeva alla luce di un piccolo abat-jour. Lidia, accanto a lui, dormiva della grossa; la mamma già da mezz’ora aveva spento la luce nella sua camera.

Giuliano alzò gli occhi dal libro e si stirò. Non era ancora giunto al finale, alla soluzione del caso. L’uomo invisibile somigliava sempre di più ad un fantasma. “Papà… sarà già rientrato?”, si chiese. Neppure dopo cena s’era visto.

D’improvviso udì un rumore dalla cucina. Una specie di tonfo soffocato. Un altro tonfo. Un altro ancora. “… i passi dell’uomo invisibile…”. Immobile, l’orecchio teso ad ascoltare, restò così per qualche istante. Silenzio. Pensò che quel libro lo stava impressionando troppo. Meglio andare a vedere.

Si alzò e scese dal letto; facendo piano per non svegliare Lidia uscì in corridoio. Da sotto la porta della cucina non filtrava luce. A passi leggeri si avvicinò. Lentamente aprì la porta. La penombra… il ronzio del frigorifero… l’odore di cucina… non c’era nessuno. Si voltò per tornare in camera. Ma non si mosse d’un millimetro. Fermo in mezzo al corridoio c’era papà che lo guardava. Gli parve alto, altissimo, come non aveva mai notato, e terribilmente largo di spalle. Giuliano ebbe voglia di fuggire. “Lui è papà”, recitò mentalmente. “Lui è papà… lui è papà…”. Perchè gli pareva l’uomo invisibile.

Sei rientrato?”, riuscì a chiedere. Deglutì a vuoto. “…lui è papà…”.

L’uomo non si mosse. Sembrava far fatica a respirare.

Giuliano…”, disse. Ci fu come un pesante sospiro. “Sì, sono rientrato. Non dovresti essere a nanna?”. Parlava come se qualcosa gli ostruisse la gola. “Mi dispiace”, continuò. “Mi dispiace per la passeggiata alla Pica. Domani, forse…”.

Non importa… papà. Buonanotte”. Tornò in camera evitando di guardarlo ancora. Voltato sul dorso, aperto alla pagina 172, sul cuscino c’era il libro. Lo prese e tentò di leggere, inutilmente; allora spense la lampada e si coricò, girandosi su un fianco, la faccia verso il muro. “Papà soffre”, gli venne in mente. “Papà soffre quando è rinchiuso tra le mura di casa”. E gli parve stranamente famigliare, quel pensiero; come se, pur non ricordando, l’avesse già pensato innumerevoli altre volte; nonostante che sembrasse, a prima vista, così nuovo ed improvviso.

Riuscì ad addormentarsi ma dormì male. Poi ebbe un incubo: suo padre veniva condannato a rimanersene per tutta la vita in una camera chiusa a chiave. Lo squillo d’un telefono cacciò via l’incubo; si ritrovò in un agitato dormiveglia. Erano le sette e venti. Di lì a poco si sarebbe svegliato.

La mattina seguente, a colazione, Giuliano trovò papà: seduto a tavola, seguiva con profonda concentrazione il telegiornale della mattina. Erano le otto e trentacinque. La mamma, assonnata e silenziosa, gli riempiva di latte il tazzone azzurro. Lidia era ancora a letto nonostante Giuliano, passandole accanto, avesse notato che fosse già sveglia.

Si sedette vicino a papà. Questi lo accolse con un sorriso. ‘Papà che sorride…’, pensò. Pareva un altro rispetto a quello della sera precedente. Come se, nel frattempo, avesse ricevuto una bella notizia.

Hai dormito bene?”, chiese Giuliano.

Certo”, rispose. “E tu?”.

Abbastanza”.

La mamma uscì dalla cucina. Giuliano si servì il latte dalla caraffa che ancora stava sulla tavola; poi si alzò e, dalla credenza, prese la confezione di Orzobimbo e i biscotti al miele che tanto gli piacevano. Gettando un’occhiata fuori della finestra, notò che era nuvoloso. Tornò a sedersi.

Fecero colazione guardando il telegiornale. Era bello far colazione con papà, pensò Giuliano. Da quando era tornato, cioè da… da due giorni… per la prima volta facevano colazione insieme.

Poi papà si alzò. Aveva finito di bere il suo caffelatte. Senza dire una parola guardò l’orologio; parve preso da un’improvvisa fretta, e se ne uscì dalla cucina passando in corridoio. Proprio in quel momento finì il telegiornale.

Giuliano inzuppò ancora qualche biscotto. Per dieci minuti, poi, rimase lì fermo, inchiodato, rapito dagli inseguimenti di Tom e Jerry alla tv. Finché balzò in piedi. “Stamattina il telefono ha squillato”, pensò. Verso le sette e mezza, mentre lui ancora sonnecchiava. Quel ricordo, chissà come, lo inquietò. Sentiva di dover fare qualcosa, subito, altrimenti… Allora gli venne quest’idea: seguire papà. “Questa mattina voglio provare a seguire papà. Voglio scoprire cosa fa quando non è in casa”, si propose.

Passò in corridoio: forse non era ancora uscito. Aprì la porta della camera dei suoi. Vide il letto ancora sfatto: le lenzuola erano stropicciate e tirate da un lato, il lato della mamma. Non c’era nessuno. Vuoto anche lo studio. E la sua cameretta: niente. Neppure Lidia o la mamma. Nessuno. Rimaneva il bagno.

Provò la maniglia. Era chiusa, la porta, dall’interno. Chiusa dall’interno. “Papà!”, chiamò. Subito nessuna risposta. Dopo lunghi istanti la voce della mamma. Irritata. “Che vuoi?”, come da sotto un tombino. Avrebbe voluto chiedere: “Hai visto papà?”. Tuttavia, ricordando la scena del giorno precedente… le lacrime di Lidia, le urla della mamma… desistette. “Niente”, rispose.

Papà doveva essere uscito: sicuramente adesso era fuori, in cortile. Si diresse verso l’ingresso, quello davanti alla porta della cucina, e uscì. Per poco non rovinò addosso a Lidia. Ancora in pigiama, se ne stava accucciata sul secondo dei tre gradini; i suoi occhi erano persi lungo la strada sterrata che, sulla destra oltre il cancello, saliva alla collina della Pica.

Che ci fai tu qui?”, chiese Giuliano.

Senza guardarlo rispose: “Affari miei”.

Hai visto papà?”.

Si voltò verso di lui. Aveva un’espressione impenetrabile. Fece cenno con il capo: no.

Eppure l’ho visto passare in corridoio”, ragionò Giuliano mentre rientrava. “Non è in nessuna camera e Lidia non l’ha visto uscire. Ma allora dov’è? Dov’è?”. D’un tratto sentì freddo. L’uomo invisibile, gli venne in mente, “… senza far rumore, come un fantasma…”. Picchiò sulla porta del bagno: “Mamma! Mamma!”.

Che vuoi di nuovo?”.

Papà è scomparso!”, urlò. La mamma non rispondeva: silenzio. Scoppiò in lacrime. “Mamma, papà è sparito. MAMMA!”, e coi pugni tempestava la porta. Papà era sparito… inghiottito dai muri… “ingoiato dalla casa!”.

MAMMA!!”.

Giuliano!!! Papà non può essere scomparso. Semplicemente, è partito”.

Come, partito?”, ansimò.

Non lo sai?”, una voce petulante alle sue spalle. Si voltò: era Lidia. L’uscio che dava in cortile era spalancato.

Che cosa, non so?”.

Papà è partito. Gli hanno telefonato stamattina. Da Londra, sai dov’è Londra?, io sì: è in Inghilterra. La mamma ha detto che era urgente”.

Ma quando è partito? Quando?”. Si sentì come svuotato.

Poco fa”, rispose Lidia. “Aveva già pronte le valigie. Siamo usciti insieme”. Fece una smorfia. “Mi ha dato un bacio grosso così e mi ha detto che mi porta un regalo da Londra”.

Bugiarda! Mi avevi detto che non l’avevi visto passare!”.

Così impari a fare la spia con papà!”.

Giuliano corse in camera. Poi uscì, senza dir nulla. Portandosi dietro un fumetto di Zio Paperone s’incamminò verso la Pica. Quel giorno non aveva voglia di vedere nessuno. Si sentiva solo, certo, e svuotato, ma non aveva voglia di vedere nessuno. Si fermò presso il grosso castagno dove avevano costruito la capanna; buttò il fumetto sull’erba, si sdraiò e si mise a contemplare il cielo. Era nuvoloso ma si crepava dal caldo.

Il giorno seguente giunse una telefonata di papà: chiamava dall’aeroporto di Londra. Li informava che, purtroppo, era atteso a Lima per il crollo di un’impalcatura. Di lì a un’ora sarebbe partito per New York, dove avrebbe cambiato aereo alla volta del Perù. Potevano esserci grane, asserì; probabilmente, anzi sicuramente, non sarebbe tornato a casa che fra qualche settimana. Tuttavia, parve a Giuliano, la sua voce aveva un che di spensierato al telefono.

Seguirono due mesi molto tranquilli. Giuliano ben presto dimenticò la solitudine: perdonò Lidia, fece la pace con Luca e riconquistò l’affetto della mamma. Insieme allo stesso Luca, poi, progettò di costruire una nuova capanna; coinvolsero anche Lucia, una ragazzina figlia di villeggianti, e Lidia, che ormai si considerava troppo grandicella per non avere il diritto di condividere i loro giochi. Studiarono, provarono e perlustrarono a lungo; alla fine, però, non se ne fece nulla.

Di sera uscivano spesso insieme alla mamma; facevano lunghe passeggiate per le strade del paese e si fermavano a prendere un gelato al Charlot. C’era sempre molta gente, soprattutto durante i week-end. La mamma conosceva molte persone e amava chiacchierare e ridere con tutti, ma soprattutto con un signore di mezza età vestito sempre con una giacca color panna. Questo signore era un villeggiante che passava ogni anno il mese di luglio lì da loro, e ogni anno la mamma mostrava di gradire la compagnia e le battute di questo signore. A Giuliano stava un po’ antipatico.

Verso la fine di luglio si svolse la fiera di S. Anna. Giuliano si divertì più del solito per la presenza di Lucia. Rideva in un modo speciale, quand’era con lui, e a Giuliano ricordava la mamma quando rideva alle battute del signore di mezza età. Insieme fecero un sacco di giri sugli autoscontri e sui dischi volanti, e gli parevano sempre troppo brevi questi giri. Furono giornate speciali per Giuliano, ma troppo in fretta volarono via, e dopo la fiera anche Lucia se ne tornò alla città.

Molte altre cose successero in questi due mesi, importanti e meno importanti, ed è inutile elencarle tutte. Poi, un lunedì sera di inizio agosto, durante un temporale, giunse la telefonata. Era papà. Chiamava dall’aeroporto di Londra: sarebbe arrivato l’indomani mattina, verso le sette. Aveva una voce un po’ triste al telefono. Giuliano avvertì d’improvviso una vaga inquietudine. I ricordi gli invasero la memoria: i ricordi della sua vita con papà, e allora capì di averne sentito la mancanza. Tuttavia sapeva che dal suo arrivo sarebbe iniziata una nuova vita. Magari solo per qualche giorno: finché non fosse nuovamente partito per chissà dove. Una vita diversa da quella che lui, Lidia e la mamma conducevano in sua assenza. Per questo si sentiva turbato: adesso lo capiva. Ed era così ogni volta che tornava papà. Ogni volta.

Quella notte non dormì. Girandosi tra le lenzuola gli tornò alla mente quel giallo di John Dickson Carr: “Le tre bare”. Vagamente ricordava di averlo cominciato l’ultima volta che papà era stato a casa. Già, ma non l’aveva finito. “… l’uomo invisibile…”.

La mattina del gran giorno si alzò di buon’ora. Seduto a tavola per colazione, osservò Lidia e la mamma. La sorellina gli parve eccitata, ansiosa di riabbracciare papà. La mamma, invece, sembrava indifferente; preparò il caffè con una tal studiata concentrazione, come se si trattasse di un affare importantissimo, che Giuliano ne fu impressionato.

Infine terminarono di mangiare. Uscendo insieme dalla porta finestra guardarono il cielo. Fuori, ormai, era sorto il sole. Si sedettero e aspettarono. Seduti sul dondolo in terrazzino aspettavano l’arrivo di papà.

(*) Maurizio Cometto è spesso in “bottega” ma se anche raddoppiasse nessuna/o si lamenterebbe. Ho illustrato questo suo vecchio racconto con un’immagine di Jacek Yerka che qui in “bottega” amiamo molto da quando Mauro Antonio Miglieruolo ce lo ha fatto scoprire (db).

 

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