Un maledetto mondo fatto di spettri

L’ontologia fantascientifica di Philip K. Dick a 30 anni dalla morte

di Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia

«Io sono vivo e voi siete morti» (da «Ubik», 1969).

Affermazione forte, piena di amara realtà, nella sua essenza irreale.

Philip K. Dick lo immaginava: era certo non fosse un caso di essere sopravvissuto alla sorella morta in modo troppo prematuro.

Era certo che non fosse un caso o un mero fraintendimento che fosse stata posta una lapide con il suo nome e la data di morte ancora indefinita accanto alla defunta.

Dick percepiva a modo suo che la propria esistenza fosse assolutamente friabile e inconsistente, esattamente come quella di un fantasma che crede di essere vivo o di un avatar informatico che ritiene di pensare.

Come la sua, anche l’esistenza del mondo cosiddetto esterno e quella dei suoi simili erano assolutamente inconsistenti, sarebbero scomparse non appena avesse smesso di crederci. Nel racconto «La formica elettrica» (1969), Garson Poole – androide ignaro di esserlo – trafficava in modo infausto con il suo nastro di realtà, arrivando alla fine ad asportarlo. Poole si auto distrusse, ma anche la realtà intorno a lui iniziò a sfaldarsi e scomparire velocemente.

Il nastro della realtà: invenzione assolutamente felice per rendere vivido e concreto un concetto che viaggia lungo i secoli, attraversa tutta la storia del pensiero occidentale.

La realtà è solo una produzione umana, ogni essere vivente crea un suo universo che nella migliore delle ipotesi è destinato a cadere a pezzi dopo due giorni.

Philip Dick era un uomo di fantascienza; alcuni asseriscono vi sia incappato per caso, quando per errore acquistò una rivista di SF al posto di un’altra di divulgazione scientifica.

Anche qui il nostro sognatore di mondi avrebbe interpretato la cosa come un sapiente complotto dei servizi segreti, atti a eliminare la cellula impazzita che avrebbe fatto franare il fragile apparato di potere occulto che determina il destino degli spettri viventi.

Dick festeggia il trentennale della sua morte in piena forma: per essere morto è anche troppo vivo. Le sue parole, la sua immagine, la sua presenza concreta viaggiano ancora lungo le strade della collina di Mercer, grazie alla professionalità e competenza dell’editore Fanucci, che da poco ha ristampato in belle ed economiche edizioni l’opus omnia dickiana, con introduzioni accurate scritte dall’anglista Carlo Pagetti.

Un messia? Forse un filosofo elettrico, uno sbandato che ha assaporato come Paolo di Tarso gli abissi della bestia prima di riuscire a vedere uno spiraglio di luce.

Un barlume che lo sorprese dal dentista, quando gli venne somministrata l’anestesia. In quello stato di deprivazione sensoriale, affermò candidamente di aver visto un ammasso di colore indistinto, che egli definì Dio. O meglio, coniò un termine meraviglioso, un acronimo che ora è ad uso e abuso di molti: VALIS (Vast Active Living Interactive System), un vasto sistema interattivo vivente, una intelligenza artificiale fabbricante di mondi e quant’altro. Certamente rivestì una certa importanza l’abuso di anfetamine che ispirò a Dick il terribile libro «Un oscuro scrutare» (1975). Ma tant’è…

Dick vive tuttora fra noi, simulacro non vuoto della nostra cultura iconografica e pubblicitaria, vive come stella di prim’ordine della letteratura nord americana, definito «il Borges americano» dalla scrittrice Ursula K. LeGuin. Il contributo è riconosciuto da più parti, oltre alla LeGuin, anche da scrittori come Ian Watson, Greg Egan, Rudy Rucker, K.W. Jeter e accostato come grandezza ad autori come John Steinbeck e Raymond Chandler, a postmoderni come Heller, Vonnegut e Pynchon, anticipando la corrente cosiddetta avantpop di Jonathan Lethem e Steve Erickson.

In Italia, oltre alla testimonianza concreta dell’editore, la sua opera influenza attivamente scrittori come Valerio Evangelisti e Tommaso Pincio.

Si può affermare con tranquillità che il pensiero e la personalità di Dick siano stati digitalizzate e trasferite in un corpo androide, il quale continua a vergare inconsistenti universi, popolati da derelitti e sbandati, in governi dittatoriali e criminali, mentre egli pensa ancora di vivere negli anni cinquanta, un periodo che contribuì a far conoscere nel suo aspetto più tetro.

Tornato di moda nella nostra penisola, l’androide Philip Dick viaggia sulla bocca di studiosi, giornalisti e addetti alla cultura che contribuisco a creare uno specchio non sempre veritiero dell’uomo che anticipò in «Cacciatore di androidi» (1966, ma il titolo originale era: «Gli androidi sognano pecore elettriche?») la corrente cyberpunk inaugurata da William Gibson con il romanzo «Neuromante» (1984).

Philip K. Dick ha contribuito sostanzialmente a delineare mondi illusori, a volte creati dai punti di vista di androidi inconsapevoli, altre volte da intelligenze artificiali non proprio benevole, spesso attuate da forze politiche tutt’altro che rispettose del buon governo e dei diritti elementari dell’uomo, dando corpo alla paranoia iperbolica di Renè Descartes, il quale affermava ancora nel XVII secolo che un dio malevolo pareva ingannare i ragionamenti dell’Io.

Dick viene accostato spesso a tesi e teorie che probabilmente non avrebbe condiviso: egli passò per la mano di maccartisti e fanatici religiosi, conobbe l’abisso della droga e il disfacimento della propria e altrui psiche, mantenendosi fedele a una ricerca che ha meno di spirituale di quanto si possa pensare.

Nel romanzo «La svastica sul sole» (1961), terribile ucronia ambientata in un universo parallelo dove i nazisti hanno vinto la guerra e in cui si prospetta una guerra nucleare senza precedenti, un negoziante statunitense (collaborazionista con gli invasori) trova un barlume di rivalsa in un monile artigianale, in quell’oscura e indefinibile perfezione che gli orientali definiscono come WU, la saggezza. Ecco, Philip Dick con i suoi gioielli ricercava proprio questa saggezza, alla quest continua di un una realtà che non smetteva di esistere una volta smesso di crederci.

Se l’abbia mai trovata non è dato saperlo, un collasso cardiaco lo portò in un altro universo proprio quando i diritti cinematografici delle sue opere gli avevano donato un po’ di sicurezza economica.

Ironia della Sorte Artificiale, Philip morì in quel trapasso dalla parola alla celluloide, un mondo che egli aveva esplorato con dovizia e perizia, mettendo a nudo i simulacri e i falsi miti della società dello spettacolo tanto cara a Guy Debord e a Jean Baudrillard.

L’allucinante realtà da lui descritta traspare ormai in ogni anfratto del nostro mondo quotidiano, dalle tribune politiche smaccatamente costruite, allo spettacolo del Grande Fratello che tiene incollate migliaia di persone alla scatola parlante, ai rapporti sociali e personali deteriorati, ai diritti delle persone calpestati in nome dell’artificialità e del profitto a tutti i costi, all’effettiva vittoria del nazifascismo negli ambiti del quotidiano.

Philip K. Dick non se ne sarebbe sorpreso: avrebbe preso l’ I-Ching e lo avrebbe consultato ancora una volta, certo del fatto che l’Oracolo gli avrebbe indicato la strada verso il castello dell’uomo impenitente, lo scrittore che vede oltre il vacuo tessuto dell’essente.

Rimasto affascinato dal pensiero platonico ai tempi della sua breve vita universitaria, mettendo costantemente in discussione l’effettiva praticità del platonismo, Philip Kindred Dick giunse alla conclusione che tutti sono spettri che formano altri spettri, in un continuo gioco d’illusioni, in cui le mura della caverna crollano di continuo, precipitando tutti da un mondo all’altro, in un continuo gioco alla lotteria del massacro.

 

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