Un mare di storie

di Lucia Pepe

Ho pensato, ho provato a immaginare cosa c’è prima, cosa ci sta dietro a tutte quelle notizie date dai telegiornali con la noncuranza dell’assuefazione, la noncuranza del nominare e ascoltare cifre non comprendendo che dietro ogni numero c’è una storia, ci sono paure e speranze.

Quei numeri di immigrati che arrivano, quelli che non ce la fanno, quelli che vengono espulsi, non possono scivolarci addosso, devono toccarci nel profondo, ognuna di quelle vite con tutto il bagaglio che si porta dietro ci riguarda molto da vicino.

Vite segnate dalla speranza, dalla paura, e dal coraggio.

«Caro Zakariyya, sono Ibrahim, tuo fratello maggiore, chissà se ti ricordi di me, non ci vediamo da tanti, troppi anni. Da quando quella notte sono andato via di casa di nascosto; è stato difficile quella sera augurarti semplicemente buonanotte quando, invece, avrei voluto stringerti forte.

Non potevo, se lo avesse saputo papà mi avrebbe vietato di partire, per quanto anche lui sapeva che era l’unica cosa da fare, l’unica via d’uscita rimasta. E chi, se non io, doveva lasciare tutto e rischiare?!

Eppure, nonostante le innumerevoli paure, mi sentivo quasi privilegiato: io stavo andando alla ricerca della mia possibilità e vi lasciavo nella miseria e nel terrore costante dell’oppressione, ma partivo con la speranza che un giorno ci saremmo riuniti.

Adesso trovo il coraggio di scriverti, voglio finalmente raccontarti di quel viaggio.

Quando partii lei venne a salutarmi al porto, era l’unica che sapeva della mia partenza, partivo anche per avere la possibilità di costruire un futuro con lei; fu un saluto veloce, senza troppi drammi, ma carico negli sguardi di tutte quelle parole che non ci eravamo detti e che non sapevamo se mai avremmo avuto la possibilità di dirci.

Poi la barca partì, era piccola, o forse eravamo noi che eravamo davvero tanti…

Il viaggio durò quattro giorni, durante i quali la mente di ogni passeggero era affollata da sogni, speranze, guardando il mare che ci stava davanti; e da ricordi della nostra terra, che guardando indietro già non vedevamo più e, forse proprio per questo, sentivamo crescere come imponente presenza dentro i nostri cuori.

Feci amicizia con qualcuno dei compagni di viaggio, ci raccontavamo le nostre storie, parlavamo di quello che avevamo lasciato e di tutte le speranze che nutrivamo.

Uno fra noi, Muhammad, diceva di avere già un fratello in Italia: gli aveva raccontato di questa terra fantastica, dalla gente ospitale, il buon cibo e le belle ragazze, lui aveva addirittura preso moglie in Italia. Ci tirava su Muhammad con le sue storie, anche se non sapevano quanto potessero essere veritiere, ci dava più forza, facendoci credere che l’aver intrapreso quel viaggio fosse la cosa giusta.

Sul barcone c’era anche Suad, mi aveva fatto sentire la sua bimba calciare dentro la pancia, aveva perso il marito, ma aveva uno sguardo forte, diceva che con la creatura che portava in grembo non si sentiva mai sola, ed era certa che quel viaggio era il miglior regalo che poteva fare alla bambina per il suo avvenire.

Fu un viaggio lungo e disagiato, ma eravamo solidali fra noi, potevamo sentire tutti il cuore del nostro vicino, i battiti di speranza.

L’ultimo giorno di navigazione il mare era agitato, mi sembrava proprio un essere vivo, quasi ci avvertisse, quasi provasse a rimandarci indietro, con le sue onde che sanno essere tanto dolci quanto crudeli.

Tu lo sai, sono sempre stato particolarmente legato al mare, mi piaceva andare al molo e, seduto, tra il familiare suono del verso dei gabbiani, immaginare quella terra al di là della massa azzurra, mi piaceva pensare che le onde che si rifrangevano sotto i miei piedi fossero le stesse che bagnavano le sponde opposte.

E, nel momento in cui ci avvicinavamo sempre più alla sponda opposta, vedevo quella della mia terra sempre più lontana.

Lasciavo la mia terra fra la rabbia e la tristezza… il legame con la propria terra è sempre così forte, un legame fatto di odori, di luoghi, di suoni che ti marchiano e che ti porti indietro dovunque tu vada».

 

Questo racconto, questo pezzo di storia che ho immaginato non ha una conclusione, vuole rimanere aperto, come aperta è la possibilità di cambiare il finale delle quotidiane storie di incontri, di partenze e arrivi con cui a ognuno capita di confrontarsi.

Forse è una presunzione immaginarsi una storia che altri hanno vissuto sulla propria pelle; per me è un modo di cambiare prospettiva, pur sentendosi comunque un ospite indiscreto.

La Sicilia per la sua posizione geografica, in quanto isola al centro fra diversi mondi differenti, è sempre stata, fin dai tempi più antichi, patria di molteplici culture e crocevia di popoli.

E ancora oggi continua a rivestire un ruolo primario in quanto meta d’arrivo di numerosi flussi migratori, soprattutto dal nord-Africa, punto di partenza verso il ”continente” e non solo, per quanti, con rabbia e tristezza, si vedono costretti a lasciare la propria terra alla ricerca di maggiori possibilità per futuro migliore.

Perché sì, la Sicilia è un’isola, ma tutt’altro che isolata (anche se non sotto tutti i punti di vista): per questa terra spesso il mare non è stato elemento che divide, bensì che unisce. Unisce di un legame speciale, perché il mare che bagna le nostre coste è lo stesso che alimenta le speranze dell’uomo che lo guarda sulle coste opposte, immaginando una vita migliore oltre quell’orizzonte.

La società cambia, si arricchisce di nuove sfaccettature, e fra queste c’è la realtà della crescente presenza di immigrati: non si può arrestare un fenomeno del genere, piuttosto le energie e il denaro spesi in discriminazioni potrebbero essere meglio investiti in progetti volti all’inserimento sociale e lavorativo degli immigrati.

fotoLucia

Lampedusa, foto di Daniele Barresi.

 

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