Un mondo ch’ixi: mille sfumature di grigio

Intervista a Marianna Scaramucci (*) sul pensiero di Silvia Rivera Cusicanqui

di Maria Teresa Messidoro (**)

*

D. Una sua breve presentazione, per conoscerla e poter interagire

R. Insegno Letteratura portoghese e brasiliana alla Statale, e sono traduttrice dal portoghese e dallo spagnolo. Mi sono occupata della letteratura di testimonianza che in America latina rielabora i traumi legati alle dittature militari del secondo Novecento. Mi sono concentrata sul Brasile, che, rispetto a Cile e Argentina, può essere considerato in un certo senso un paese sui generis nella rielaborazione della storia violenta della dittatura e dei suoi postumi. All’università ho studiato letterature ispano-americane e letteratura portoghese e brasiliana, per questo mi sono interessata fin da subito ad alcuni aspetti che legano la storia e la cultura latinoamericana tutta, seppur con profonde differenze tra un paese e l’altro. È un continente che nasce da una ferita, dall’esperienza violenta del colonialismo, che sopravvive a se stesso in termini che alcuni (non Silvia Rivera Cusicanqui, però), hanno chiamato colonialità. Qualunque ambito dell’espressione culturale latinoamericana fa i conti con questo passato, e ogni giorno si riafferma la necessità di scalfire dinamiche di potere che sono ancora retaggio del sistema di esclusione di stampo coloniale. È per questo motivo che mi sono avvicinata alle proposte di Silvia Rivera Cusicanqui, perché mi è sembrato chiaro fin da subito che la letteratura che studiavo fosse portatrice di una forte spinta decoloniale, e che andasse letta anche in quel senso.

 

D. Può spiegare il concetto di Ch’ixi per Silvia Rivera, soffermandosi in particolare sulla dimensione spazio temporale?

R. Quello di ch’ixi è un concetto interessantissimo, che ci indica la direzione per uscire dalle logiche binarie con cui siamo abituati a pensare, e che producono, probabilmente dall’epoca delle colonie in poi, un’immagine dicotomica del mondo: bianco/nero; Nord/Sud; Occidente/Non occidente; uomo/donna; umano/animale ecc. Silvia Rivera si avvale dalla lingua aymara e del suo grande potenziale concettuale per scardinare le logiche che, ad esempio, individuano nella figura del mestizo la risoluzione pacifica e non contradditoria del passato coloniale. Silvia Rivera, che è a sua volta discendente aymara ed europea, propone l’idea di ch’ixi proprio per parlare della risoluzione non pacifica, dinamica, del conflitto identitario. Questa parola indica un colore che è bianco e nero al tempo stesso: è un grigio che al suo interno conserva, nell’unità, la separazione degli opposti cha lo compongono. È un’idea straordinaria che, come dice Silvia Rivera, apre orizzonti epistemologici nuovi. Una logica ch’ixi, o un pensiero ch’ixi, infatti, non risponde al criterio della sintesi, perché non è interessata a risolvere la contraddizione, ma la assume in quanto tale: ecco il suo enorme potenziale decoloniale. Gli opposti non si annullano, ma si rendono produttivi a vicenda. Ci propone, secondo Silvia Rivera, la logica del “terzo incluso”, totalmente antitetica rispetto a quella del mestizo ufficiale, quale terzo “escluso” dalla società e totalmente slegato dal suo passato.

È possibile pensare al ch’ixi come proposta epistemologica, come criterio di rivalutazione dei saperi. Un’epistemologia ch’ixi sarebbe un’epistemologia manchada (macchiata) o abigarrada (variopinta, eterogenea): la forza decolonizzatrice del ch’ixi sta proprio in questo, nell’uscire da un idea pacificata di fusione, meticciato o ibridismo, e nel proporci di abitare la contraddizione. Ch’ixi, lo dice lei stessa, è un’utopia, ma non per questo non dovremmo provare a praticarla.

Altro invece è il concetto che ribalta la nostra concezione del tempo, è l’idea che viene dalla parola aymara “qhipnayra”, che letteralmente si può tradurre con “futuro-passato”, la si ritrova in una frase rituale (qhipnayr uñtasis sarnaqapxañani)  che si può tradurre con: “guardando al futuro come al passato bisogna camminare nel presente”. Questa parola è straordinaria, perché ci invita a sovvertire la nostra concezione lineare del tempo.

Come dice Boaventura de Sousa Santos, dovremmo tendere verso un’ecologia delle temporalità: cioè smettere di pensare che la nostra concezione del tempo sia l’unica esistente, ce ne sono molte altre, e a ben guardare forse la nostra non è nemmeno la più diffusa! La parola qhipnayra ci dice proprio questo: il passato, nella concezione veicolata dalla lingua aymara, non è qualcosa che abbiamo alle spalle, anzi, forse è proprio l’unica cosa che abbiamo di fronte a noi, perché è l’unica che possiamo “vedere”. È una parola che ha un forte vincolo con lo sguardo, con gli occhi: il passato è ciò che vediamo, mentre il futuro potremmo immaginarlo come qualcosa che sta dietro di noi, perché è ciò che non possiamo ancora dire di aver visto.

 

D. E’ attuale secondo lei il pensiero di Silvia Rivera? Quale potrebbe essere lo spunto più importante da tener presente in questa situazione complessa?

R. Sono tanti gli spunti di riflessione sul presente che il pensiero di Silvia Rivera ci offre, me ne viene in mente uno su tutti, che riguarda lo scardinamento del tempo lineare. Perché la concezione lineare del tempo produce l’idea che la nostra storia debba procedere a senso unico verso il progresso. Ma, come abbiamo capito da tempo, questa idea si è fondata sulle disuguaglianze, le ha approfondite, e ha portato con sé il consumo inesorabile delle risorse del pianeta. In altre parole, la corsa al futuro rinnega il passato e svuota di senso il presente. La situazione attuale, con lo shock causato da questa apparentemente improvvisa pandemia, ce lo sta dimostrando in modo lampante, e su tutti i fronti, quello economico, quello ecologico, quello della giustizia sociale, della parità di genere, del rapporto con gli altri animali e con la tecnologia. Dalla riflessione di Cusicanqui impariamo che possiamo vedere futuro, presente e passato con occhi diversi: non più attraverso le categorie fisse di arretratezza e avanzamento.

Il passato non è qualcosa da cui sganciarsi totalmente, ma non è nemmeno una catena a cui bisogna restare legati, può essere considerato come una fonte per immaginare il futuro, attraverso il dialogo fra saperi e al di fuori delle categorie di valore che ci portiamo dietro dal colonialismo. Saperi come quello andino, che sono un’ispirazione primaria per Cusicanqui, ci suggeriscono di abitare il presente in modo diverso, come integrazione fertile di passato e futuro. Un esempio di questo meccanismo ce lo dà il concetto di “taypi”, la “zona intermedia” della cosmovisione aymara. Il taypi è quello spazio in cui mondo materiale e spirituale si incontrano in modo conflittuale e produttivo. È lo spazio del qui e ora, dove, come spiega Silvia Rivera, la società cammina sul suo sentiero, portando il futuro sulle spalle e avendo davanti agli occhi il passato. È uno spazio di interazione dinamica tra opposti che si dà sul piano del tempo, e che ci aiuta a stare nella contraddizione, senza negarla, pensando la realtà in termini dinamici. Un mondo dove A non esclude B, anzi, dove A può essere B e viceversa. Cusicanqui ci dice che la cosmovisione aymara ci aiuta proprio a ripensare temi attualissimi, a partire dal nostro posto nell’ambiente naturale di cui siamo parte. Ci aiuta a ripensare “la relazione tra la vita umana e la pluralità degli esseri (viventi o no) che esistono dell’incommensurabilità del cosmo:  animali e piante, sostanze, luoghi e paesaggi, rocce e metalli, il cielo e l’infinità dei suoi mondi, le profonde voragini e i fiumi sotterranei delle incognite profondità del pianeta”.

D. Ha dei testi da consigliarci su Silvia Rivera, magari in italiano?

R. Non mi risulta che ci siano traduzioni italiane dei testi di Cusicanqui, per chi legge lo spagnolo, un buon punto di partenza è sicuramente Chi’ixinakax utxiwa. Una reflexión sobre prácticas y discursos descoloniales, Buenos Aires, Tinta Limón (2010), seguito da Sociología de la imagen: ensayos, Buenos Aires, Tinta Limón (2015). Nel 2018 è uscito invece Un mundo ch’ixi es posible. Ensayos desde un presente en crisis, Buenos Aires, Tinta Limón.

Uno spunto interessante ce lo dà anche la conversazione di Silvia Rivera con il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos, in un testo che si trova anche online: Revueltas de indignación y otras conversas, http://www.boaventuradesousasantos.pt/media/BSS_Revueltas(1).pdf

NOTE

Una interessante intervista a Silvia Rivera Cusicanqui è apparsa qui a maggio https://comune-info.net/?mailpoet_router&endpoint=track&action=click&data=WyI0NDA4IiwiNjA2NTlhIiwiMTE0IiwiMGM3ZWM1NjY1Y2Q0IixmYWxzZV0

Qui invece https://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/7847 si può trovare il testo di Marianna Scaramucci, Ch’ixi, Qhipnayra, Nkali: modi dire l’emergenza coloniale, 2016, testo da cui è scaturita l’idea dell’intervista.

(*) docente a contratto di Letteratura portoghese e brasiliana presso l’Università degli Studi di Milano

(**) vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento, www.lisanga.org

 

 

 

Teresa Messidoro

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