Un reportage dal Libano di Enrico Pili

La deflagrazione potente e spaventosa fa fermare, come in un taglio di montaggio nervoso, l’immagine degli avventori nel negozio di souvenir di Amir in Hamra Square a Beirut, alle 17 e 30, ora locale, di un giorno di marzo del 2010. La commessa venuta a cercare lavoro nel Vicino Oriente da quello Lontano accenna a gettarsi a terra per salvarsi da irreparabili schegge che le pioveranno addosso come tizzoni di un vulcano in eruzione esplosiva. Malgrado l’allenamento, a Beirut la paura delle bombe pervade gli abitanti. Evidentemente non ci si fa il callo.

Una delle ultime autobomba modello siriano (unanime opinione libanese), a febbraio del 2005 – prima che l’anno successivo gli israeliani dessero saggi di potenza e prepotenza – aveva fatto saltare in aria, insieme ad altri ventidue innocenti, il Primo ministro, mai innocente, per definizione: vale per lui e tutti i premier, anche di piccole potenze, quello che i cinesi, già prima di San Paolo, dicevano per le donne: che vanno picchiati sette volte, tu non lo sai perché, ma loro sì. Rafik Hariri, l’eroe della ricostruzione, un Berlusconi arabo (stessa forza mediatica, stessa altezza ma con baffi e capelli folti senza trapianto), era di “razza sunnita”: in Libano ha un’importanza fondamentale, “costituzionale”, appartenere a una confessione religiosa. Alla fine del secolo scorso era riuscito a restituire alla città il titolo di Parigi del Medio Oriente con tanti palazzi nuovi e ricchi, strade alla moda, edifici pubblici, chiese cristiane e moschee. Il giorno di San Valentino dell’anno 2005 passò dal rango di eroe (vivente) a quello di martire (morto). Il giorno di San Valentino deve essere un bel giorno per morire. Il giorno di San Valentino, Hollywood ne farà un film. San Valentino si sta riciclando. È stufo di essere il patrono degli innamorati. A San Valentino allerta massimo all’aeroporto internazionale di Beirut. Che sia diventato il patrono dei terroristi?

Il 12 febbraio del 2008 l’uomo più ricercato dell’Occidente, Imad Mugniyeh, fondatore del Partito di Dio, ideatore degli attacchi suicidi e delle autobomba e dante causa di Osama Bin Laden, saltò in aria a Damasco. Gli israeliani dicono di non essere stati loro, la Cia pure, i siriani idem, gli iraniani ovvio: sono quelli che foraggiano gli sciiti. E se fossero Siria e Israele insieme? Una volta anche Hitler e Stalin si erano alleati. Poiché anche i musulmani ritengono il Vangelo profezia di serie A, non è piaciuto loro che si sia avverato il versetto, più che un proverbio: “Chi di autobomba ferisce…”. Che vale anche per gli eroi che diventano martiri. Il funerale è stato celebrato due giorni dopo. Il giorno di San Valentino deve essere un bel giorno per un funerale. Due adunate oceaniche a confronto: un milione di persone per (commemorare) Hariri (sunnita “trasversale”, i cristiani lo amavano), un milione per Mugniyeh (sciita, nessuno lo poteva vedere perché era invisibile e perché lo amavano soltanto i seguaci di Hezbollah). Il Libano, in un territorio meno vasto della Sardegna meno di due terzi), conta 4 milioni di residenti, più i 15 milioni della diaspora: tanti in Argentina e in Brasile, altri nelle lande più disperse del pianeta. Il monumento all’Emigrato di fronte al porto di Beirut li riunisce in un abbraccio e in un malinconico sguardo verso il mare, unica salvezza nei secoli dalle guerre e dalle persecuzioni. Il Libano è una repubblica fondata sulle confessioni religiose e sulle autobomba. Ha urgente bisogno di una riforma costituzionale (come l’Italia). Se è una “nazione” (ora che il concetto sta diventando obsoleto) e non una “espressione geografica”, insieme di feudi e signorie, lo deve a San Valentino, alle bombe israeliane e alle autobomba siriane (con una spruzzata di razzi persiani). Quella che ha reso Hariri poltiglia è esplosa nei pressi della grande moschea (orribile: i minareti sembrano missili iraniani o israeliani: come il denaro, hanno stesso colore, sapore e odore) e della chiesa cattolica, prospicienti il Solidere, il quartiere fiore all’occhiello del martire. Per questo, dopo le esequie oceaniche, il suo spirito riposa in una tomba disegnata da crisantemi bianchi sotto una tensostruttura candida: il mausoleo provvisorio. Una gigantografia lo fa sembrare ancora eroe e non ancora martire. Foto grandi dei ventidue innocenti sono disposte entro lo spazio, grande quanto due circhi Togni e due circhi Orfei insieme, dove in silenzio riverente frotte di libanesi di qualsiasi rango e religione si riversano anche di notte a rendere omaggio al martire. Altra interessante coincidenza con gli affari italiani: la provvisorietà. Al pari di altri Stati arabi, il Libano sembra essere nato così, ad interim. Per gli ottomani non esisteva, per i francesi era un coacervo di tribù coese per comodità, l’indipendenza (1947) è contestata dalla Siria – a sua volta miscuglio non identitario di califfati – che lo ritiene una sua provincia. Arafat, quando era ancora (arrogante, in sardo) ne aveva fatto il centro del suo potere finché gli israeliani (e gli amici libanesi) sono intervenuti con le bombe. Poi è scappato a Tunisi, dove era gradito come un lebbroso, mentre le signorie si sono fatte la guerra finché la capitale non è diventata un cumulo di macerie e di morti. E i profughi palestinesi, scampati al massacro di Sabra e Shatila, sono stati sigillati in recinti da cui non possono uscire nemmeno per pisciare. La capitale, provvisoriamente Parigi nei favolosi Sessanta, era una città di fantasmi presidiati al di qua (cristiani) e al di là (musulmani) della linea verde dalle forze di pace, tra cui gli italiani. Nel frangente, riscattando la fama ottenuta in Africa (a Debrà Libanos avevano sterminato persino i giovani preti cristiani), si sono meritati il titolo di “brava gente”. Unici a non sparare un proiettile, si limitarono a distribuire farmaci e pendolare con le navi lungo la costa. Per questo i beirutini li amano. Per questo non furono attaccati dai kamikaze che fecero scappare francesi e statunitensi, toccati duramente.

In Hamra Square, di nuovo “parigina”, dopo i lunghi attimi di suspense dovuti all’effetto stupore (paura) i quattro avventori del negozio di Amir – il sindaco del piccolo comune sardo di Villa Speciosa, Elio “Emme” Mameli, il sindaco di Ortacesus, l’altro piccolo comune sardo, Fabrizio Mereu noto Burt Lancaster, l’assessore dello stesso comune, Rinaldo Onnis (“Ouàr”), il “ministro degli esteri” di Ortacesus, il segretario dei due comuni, detto il “professore” – e la commessa lontano-orientale guardano all’unisono la porta a vetri da oltre la quale è arrivato senza preavviso il boato che ha scosso loro e tutto il locale. Qualche istante dopo entra barcollante l’assessore di Villa Speciosa Francesco Congiu, Cieffe, che accompagna Emme nella missione di pace. I Comuni si gemellano con omologhi libanesi per esprimere loro solidarietà, allacciare relazioni di amicizia, scambiare i segni del commercio, della cultura e della pace.

Cieffe, col baffo poco volitivo, ride di un riso forzato che nasconde l’isteria e l’istinto di scappare in Sardegna e nascondersi sotto terra o dentro un inespugnabile nuraghe. Sembra uno della band di Elio, una Storia Tesa. Lo “scoppio” altro non era che l’impatto durissimo e terrificante della sua testa sul vetro della porta del negozio, che l’orientale con gli occhi poco a mandorla aveva pulito a specchio. Emme soccorre il suo pard senza celare un moto di sollievo ma anche di rabbia: spavento e brutta figura meriterebbero la revoca immediata dall’incarico assessoriale, ma la Storia Tesa è così poco speciosa, dolorante, e talmente frastornata che alla fine, facendo finta di niente, sia Elio che gli altri proseguono, trattenendo una inopportuna quanto liberatoria risata, lo shopping di souvenir libanesi economico e vantaggioso grazie al cambio euro lira o anche euro dollaro.

Stavolta l’autobomba – la testa bernoccolata della Storia Tesa – non ha fatto messe di vittime. L’unico eroe, che ha tentato di diventare martire facendo tutto da solo, da kamikaze e bersaglio, è Cieffe in barba a San Valentino e alla sua ingordigia di vittime sacrificali libanesi. Il 14 febbraio è passato da oltre un mese. Si avvicina il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione che, a seguito di un accordo tra il papa e l’ayatollah libanese, è festa nazionale. I musulmani stimano la Madonna (ai Cristiani nulla importa di Fatima, la figlia di Maometto) e dando mostra di sportività (e unità nazionale) hanno accettato di fare festa ed esorcizzare insieme la imminente “triste” ricorrenza del 25 aprile (incipit della guerra civile). Festa comune, gaudio intero. La pace sia con loro.

Il volo Mea (Mid East Airlines) da Roma a Beirut è più tranquillo di quello Alitalia da Cagliari a Roma. Nessun intoppo alle tappe forzate delle aerostazioni, passano pure le forbicine che il “professore” aveva dimenticato nel bagaglio a mano. Obiezione, invece, per il nettapipe la cui distanza, da un punto all’altro nella massima apertura, è maggiore delle forbicine stesse, quindi è “arma” impropria ma utilizzabile per dirottamenti o attacchi suicidi e omicidi. In effetti, con buona volontà e altrettanta cattiveria, con un aggeggio del genere si può sgozzare un neonato.

«E questo che cos’è?» chiede con curiosità ostentata l’agente della polizia aeroportuale, «serve per pulire la pipa, eh?» aggiunge tronfio di aver dato da sè la risposta, facilitata dal metal detector che ha mostrato il negativo di due Tom Spanu, una Castello e due “Missouri Meerschaum”, la scorta di pipe del professore in previsione di una settimana lontano dai muri della Sardegna.

«Non solo» interloquisce questi con tono quasi beffardo riaccendendo la curiosità dell’agente che ora ostenta un segno quasi impercettibile di sentirsi preso per il naso. «Si chiama anche “pigino”. Per vincere il campionato di lento fumo, deve usarlo in questa funzione». «Quale?» L’agente non ne può più e sta per sbottare pericolosamente col rischio di una perquisizione meticolosa di tutto. Se quello si accorge delle forbicine il professore è fottuto.

«Quella di pigiare il tabacco nel fornello, piano, in modo che non si spenga subito. Piano… così… » Il professore mima l’uso del pigino. «E poi – soggiunge, centellinando la dose di informazioni – c’è anche questo: il punzone. Serve per “bucare” il tabacco se è stato pressato troppo. Se il fornello è intasato la pipa non tira e… ».  «Scusi, ma lei chi è?» L’agente, ormai in soggezione, non ne può più. Ora farebbe passare anche un bazooka del Partito di Dio. «Sono il campione regionale di fumo lento e sapiente». L’agente ha un moto d’orgoglio prima di lasciar passare il professore: «Il fumo non è mai sapiente. Lo sanno tutti che fa venire il cancro… ».

La solita prosa poco poetica dei poliziotti e degli intolleranti.

Il ristorante nel centro di Beirut sfoggia una bella insegna nei caratteri astratti della lingua araba col nome di un cantante egiziano che, prima della guerra, intratteneva gli avventori con melodie modali e poco tonali come quelle di un muezzin. Insieme alle prime portate, mezzé, antipasti buoni e variopinti che basterebbero da soli a satollare un obeso, viene offerto il narghilè (il vicesindaco di Ain Zalta ha schioccato le dita e un compitissimo cameriere si è subito affrettato). I libanesi lo chiamano “argile” o “arghile”, con l’accento sulla penultima.

Il professore si affretta anche lui a chiederlo. Invenzione persiana, come gli scacchi di cui pure è un appassionato. E come il gioco simboleggia sapienza, cultura, piacere, gioia di vivere con intelligenza. Gli ottomani lo hanno perfezionato e shisha (“bottiglia” in turco, in persiano “vetro”) viene anche chiamato a indicare il contenitore d’acqua profumata ove passa una spirale che raffredda il fumo generato da un blocchetto di tabacco alla melassa a contatto con la carbonella accesa. Fumo “sapiente” perché, spiega il professore a Burt e Ouàr, smokers incalliti di sigarette, si aspira lento e raggiunge la destinazione fresco e depurato, e quindi non fa male alla salute, non cagiona il cancro al polmone né alla bocca (che non si riscalda). Cagiona – per chi lo sa apprezzare – solo piacere. Fatto da pesare attentamente sul piatto della bilancia dello “scontro di civiltà” (handicap difficile da colmare per l’Occidente che ritiene il narghilè un sopramobile). Lo scontro si manifesta subito al tavolo della prima cena imbandita dagli ospitali libanesi perché Elio e la Storia Tesa si ribellano alla maggioranza trasversale, cristiana e musulmana, che, fra sigarette e narghilè, ammorba, a loro dire, l’aere e avvelena i polmoni della minoranza (che al solito pretende il privilegio dell’intelligenza).

Questo è il problema. La democrazia è civiltà, nulla quaestio. La maggioranza decide democraticamente di fumare. Quid, se la minoranza non prova piacere ma fastidio? Il nocciolo duro della questione. Non difficile da risolvere se si addivenisse al paradigma della tolleranza che, come il buon senso, non si può codificare. Uno o ce l’ha o non ce l’ha. L’assessore di Villaspeciosa forse non ce l’ha (perché non tollera il piacere degli altri). Ma non ce l’ha neanche chi fuma (perché tollera il dispiacere degli altri). Lo scontro di civiltà sta tutto qui. Chi crede in un Dio diverso – e già questo è un fatto di presunzione e intolleranza: per definizione non può esserci un Dio diverso – dovrebbe tollerare chi crede in un “altro” Dio. E l’umanità farebbe un passo avanti nel progresso e nella pace. Un passo più grande di quello che ha fatto mettendo la prima volta un piede sulla Luna.

Nell’ottimo ristorante fumano il narghilè anche le donne. Quelle con  minigonne o attillate di casual occidentale e quelle con velo e con indosso fasci di organze indiane, paradossalmente più provocanti e sensuali. Non mostrando nulla scatenano di più e meglio la perversione maschilista della maggioranza trasversale, cristiani e musulmani, i quali ultimi, giocando in casa, si sentono più liberi di apprezzare a volte con sguardi di aperta libidine a volte con semplici commenti. Su questo punto, l’incontro di civiltà fra gli individui di sesso maschile è pressoché totale. A parte essere considerate oggetto di esplicito desiderio dai maschi, e su questo non dovrebbe esserci nulla di incivile anche perché “l’ideologia” omo nei Paesi arabi è vietata dalla legge, le donne hanno un certo potere. Riflesso. Niente quote rosa. Il feudalesimo democratico non le prevede. Chi comanda è il feudatario, ma le mogli contano. La quota si manifesta in questo antico modo patriarcale. Contano se è il maschio a permetterlo specialmente se sono belle e intelligenti. E principesse.

Nora Jumblatt accoglie con un sorriso da favola i sardi, i sindaci libanesi gemellati, il segretario della associazione di amicizia italo-araba “Assadakah” (“amicizia”), Talal Khrais, che ha la doppia cittadinanza e parla correntemente arabo e italiano. Senza un interprete sarebbe una missione impossibile. E poiché è un giornalista della stampa estera riesce a organizzare incontri al più alto livello con le cariche dello Stato o personalità eminenti. Questo meeting favolistico, tra Andersen, Basile e Fratelli Grimm, non lo paga nessuno neppure la trade union di Dio e Allah.

La principessa sembra la bella addormentata nel bosco dei cedri, che si è svegliata (da poco, ma non si vede) nel sogno di chi le sta di fronte affascinato dal sembiante di sovrana che tutti vorrebbero, come avrebbero voluto Grace Kelly per madre, moglie, sorella, compagna e, specialmente, partner. È fiabesca, come la residenza dove sarebbe avvenuto l’incontro con il leader druso, Walid Jumblatt se lui la domenica mattina non andasse a stringere le mani e sorridere ai sudditi fra le strade impervie del feudo confinato e protetto dalle montagne, i cui picchi più alti sono innevati di neve bianca come latte (e “Libano”, la radice araba “lbn”, latte vuol dire). È lei, dunque, la principessa, una “vera” principessa proveniente da Aleppo, antica città siriana, a rappresentare il misterioso popolo dei drusi e a fare, tutta da sola (la servitù si limita silenziosa a passare succhi di frutta esotici e buonissimi ma presto scompare), gli onori di casa. Anzi di castello.

Non è grande il castello di Mokhtara (dove la “H” non è muta ma fa sentire la gutturale aspirata araba, rimasta anche in Sardegna, forse a ricordare la discendenza) rendendo ancor più nobile il blasone e la stessa roccaforte drusa nella regione dello Shuf. Non è barocco il castello di Mokhtara né magniloquente. L’architettura è un misto di gotico arabo e romanico toscano. Affascinato dalle vestigia del Rinascimento italiano, l’emiro druso Fakr Eddin, che aveva l’ambizione di essere laico e di cacciare via gli odiati turchi dal Libano, strinse amicizia col Granduca di Toscana Cosimo II (che voleva trarre vantaggi dalla disgregazione dell’impero ottomano). Aveva fatto i conti senza l’oste del Vaticano che non vedeva di buon occhio la nascita di uno Stato libero (e laico) nella terra dei Crociati. La sollevazione sollecitata dall’emiro fallì. Le grandi potenze riuscirono a far tornare nella sua terra dall’esilio in Toscana l’emiro che portò con sé alberi di ulivo e bachi da seta, agricoltori, architetti e ingegneri. Se ne vedono ancora i segni. Splendidi palazzi, castelli, moschee in una fusion arabo-toscana sono sopravvissuti a tutti i disastri che può vantare il Libano. L’emiro non visse tanto da vedere il disfacimento dell’impero all’indomani della “grande guerra”. I turchi, lungimiranti, lo avevano già impiccato a Istanbul. Non è un museo il castello di Mokhtara. È la “roccaforte dei patrioti” – i drusi si ritengono i “veri” libanesi –, la residenza del leader e della famiglia, la sede principale del feudo e quindi del partito socialista, uno dei pochi scampati agli sconvolgimenti tellurici della fine del secolo scorso. In Libano anche un partito politico fa parte integrante di un feudo e lo si eredita con esso.

Il padre di Walid, Kamal Jumblatt, ucciso, come tanti, durante la guerra civile, era un leader di livello mondiale. Presidente dell’Internazionale Socialista, durante la guerra fredda era ricercato come autorevole mediatore, filoccidentale ma amico dei sovietici. Sui quadri, scene della Rivoluzione di ottobre e i suoi epigoni costellano le pareti dei diversi ambienti del castello: “il generale Zuchov a cavallo sui resti miserabili della Wehrmacht” è la copia perfetta dell’originale all’Hermitage. Un’altra, Lenin conciona alle masse proletarie e le istruisce, si trova nell’ampia biblioteca, ricca di libri poliglotta e di fascino. Qui gli omaggi: la statua in ceramica (dono di Burt Lancaster) di una donna sarda nell’antico variopinto costume, un bel facsimile di bronzetto nuragico (dono di Emme) e – regalo personale del professore – il libro contenente il reportage della precedente missione e una raccolta di racconti di viaggio, che la principessa si affretta a sistemare in un pertugio che attendeva di essere chiuso proprio da un libro che mancava. Che fosse uno dei suoi, il professore è molto contento come lo sarebbe se il reportage fosse tradotto in arabo malgrado i fondati dubbi che l’ironia, con la quale ha descritto un imam dal naso grosso e quindi – si dice – anche qualcos’altro, possa scatenare una fatwa. Sull’argomento il sense of humour dei maomettani è pressoché zero.

La sera precedente il professore lo ha chiesto – di tradurre il reportage segnalato proprio per il senso dell’umorismo – al segretario particolare e italofono della moglie del presidente della Camera, la carica numero due secondo la Costituzione e la divisione poco montesquieuiana dei poteri. La democrazia feudale non l’ha inventata il grande illuminista ma i francesi hanno motivo di vantarsene. Abbandonando il Paese dopo il “mandato” post grande guerra, avevano ratificato lo status quo di califfati confessionali. Non era il caso di eliminarli o modificarli pena una lotta senza esclusione di colpi e la guerra civile. Tuttavia fu inevitabile quando i palestinesi, in maggioranza islamici, si riversarono in massa a Beirut per far vedere al mondo, col sistema degli attentati e delle bombe, quanto erano sfigati e derelitti. I cristiani, oltre il cinquanta per cento secondo il censimento costitutivo, non ci misero molto a capire che gli equilibri millenari erano ora molto precari e mettevano in dubbio la loro sopravvivenza. Il 25 aprile 1972 – il “giorno triste” – gli sventurati risposero (al fuoco degli sventurati). La guerra civile era iniziata.

Il presidente della Camera Nabi Berri, in visita ufficiale dagli una volta odiatissimi turchi, è il califfo sciita del Sud Libano (la Galilea) dove Villa Speciosa si gemellerà con Yanouh. Come dice il toponimo arabo, il paese di Noè. C’è anche – dice il figlio ventenne del sindaco, Hassan, che assolve con empatica efficienza l’incarico di trasportare gli ospiti da una parte all’altra del Paese con la macchina e proteggerli con la pistola che spunta timidamente sulla schiena – “the grave of the prophet”. Hassan si esprime in buon inglese per parlare col professore che traduce agli altri in assenza di Talal Khrais. «Ma non è a La Mecca?» chiede il ministro degli esteri di Ortacesus. The prophet, spiega fiero Hassan, è Noè, e a Yanouh c’è la sua tomba. Che porterebbe, continua con una punta di malinconia, caterve di turisti da tutto il mondo e tanta valuta pregiata da consentire di ricostruire in fretta la Galilea devastata dall’ultima guerra (2006). Le bombe israeliane intelligenti hanno colpito persino il sito di Canaan, dove Gesù tramutò l’acqua in vino: nella voragine è stato scoperto un bel reperto paleocristiano, forse la prova del miracolo, che un giorno metterà in fila visitatori da tutto il mondo. Prima però devono essere sicuri che gli israeliani plachino l’ira funesta ora tenuta a bada dai contingenti Unifil tra cui uno di Italiani dislocati a sud del fiume Litani – confine della Galilea – e di stanza, con seicento soldati e soldatesse, nel paese di Noè.

I sardi sono invitati a pranzo (finalmente spaghetti e cotoletta alla milanese) dal colonnello Galletti, comandante della postazione sita su un rilievo inaccessibile ai terroristi se non per via aerea, da cui si domina un panorama che spazia dai confini di Israele, a un tiro di schioppo e di missile, al mare fenicio e alle alture innevate del Golan. Possedimento degli israeliani (preda della “guerra sei giorni”, 1967) e rivendicate dalla Siria e in parte (le fattorie di Sheba, il villaggio di Gagar, le colline di Kfar Suba) anche dal Libano (ma la Siria dice che sarebbe tutto suo). La profonda depressione – un dislivello che va dagli oltre duemila metri a sotto il livello del mare – contiene il liquido più prezioso che si contende l’umanità a colpi di cannone. Non petrolio ma acqua dolce che disseterebbe siriani, libanesi, israeliani e palestinesi e le aride lande predesertiche. L’importanza delle alture è talmente strategica che, finché non sarà risolto il contenzioso, il pericolo di una guerra non sarà scongiurato. Il loro possesso permette a Israele di “trattare” da posizioni di forza. Cioè, gli consente di non trattare affatto.

La tomba di Noè è una piccola moschea, nel mezzo di una disastrata location urbanistica: cupoletta arabesca di un verde intenso e, dentro, di fronte a quella che potrebbe essere una pala d’altare, un armadio di medie dimensioni dove non si capisce se vi siano depositati ex voto o, più probabile, indumenti per chi si fosse dimenticato di rispettare con abbigliamento discinto il posto sacro. Hassan accompagna Burt Lancaster e il professore dentro la moschea dopo aver ricordato loro di togliersi le scarpe. È orgoglioso delle glorie nazionali. Burt Lancaster è orgoglioso anche lui, come il Gattopardo al giro di walzer, mentre deambula danzando sul pavimento piastrellato poveramente, indegno di uno dei più grandi profeti di tutti i tempi.

Hassan, in maglietta e jeans, e l’altro giovanissimo accompagnatore dei sardi, suo cugino Mohammed, sono ammessi, insieme al sindaco di Yanouh (padre di Hassan) e a quello di Ain Zaltan (Edward Mghabghab, un gentiluomo cristiano, anzi cattolico, tiene a precisare), all’udienza concessa da Randa Berri ai sardi nello studio del presidente del parlamento. Hassan e il padre appartengono al feudo sciita di Nabi Berri – e al partito Amal che vuole dire “Speranza” – il quale ereditò la leadership da Musa Sadr, un martire, che in Italia avrebbero fatto santo subito. Se non fosse sparito – dice Hassan con un’ombra di rimpianto – senza lasciare nemmeno un’oncia di molecola per il riconoscimento tramite dna, in Libia, dove si trovava per interloquire con Gheddafi e i leader arabi, sarebbe riuscito a impedire la guerra civile e a evitare quella israeliana. Musa Sadr, capo religioso e politico, è ancora vivo nel ricordo della gente. La sua gigantografia campeggia nella hall del piccolo e ammalorato municipio di Yanouh a fianco alla bandiera italiana. Un grande riguardo verso gli ospiti (forse non avevano quella dei Quattro Mori con la benda sulla fronte) e il contingente italiano: due anni fa, durante la prima missione dei Comuni sardi, fianco a Musa Sadr giganteggiava, cruccio fatale e ieratica severità di profeta incazzato, l’Ayatollah Komheini.

Diversamente da quel luminoso soggetto di oscurantismo (non più luminoso di affini o parenti), Musa Sadr era un pacifista che della tolleranza aveva fatto un progetto politico interpretando il Corano così come dovrebbero essere interpretati i testi “sacri”, nel senso dell’amore e della pace universale. E diversamente da come fa il Partito di Dio, che dalla Galilea ha iniziato la Resistenza e ogni tanto spedisce dei missili a Israele per ricordargli che, grazie a essi, una guerra l’ha persa e, prima o poi, ne perderà anche un’altra. E Nabi Berri e Amal perderanno la leadership degli sciiti e il feudo. Come dimostra l’esito delle ultime elezioni politiche dove – all’interno della sfera feudale – Hezbollah è quasi alla pari con Amal, e non solo nel sud del Paese (disastrato come lo sono tutti i Sud del mondo) ma in tutto il Libano.

Il comandante della base italiana mostra di conoscere bene il motivo della missione e le regole di ingaggio. Non può far nulla contro i due caccia con la stella di Davide che in quel momento sorvolano la base, né può, come dovrebbe secondo la risoluzione dell’Onu, disarmare Hezbollah. A pensarci bene, perché? Loro sì e Israele no? Allah sì e Jahveh, no? E bravo il comandante del contingente italiano di stanza nel paese di Noè, ha capito tutto e allora tanto vale fare del bene alla popolazione. Che non ha nessuna voglia di farsi lasciare dai militari italiani; odia Gheddaffi (che ha fatto uccidere Musa Sadr), i siriani che vogliono annettersi “la provincia” e gli israeliani che vogliono farla sparire. E riversa tutto il suo amore per gli italiani. Brava gente.

Al segretario particolare della second lady il professore chiede, prima di farle dono del reportage del primo viaggio in Libano (2008), se la potente donna sciita non se la prenderà per la benevola presa in giro a un leader del Partito di Dio. Ammiccando, il segretario risponde sottovoce: «Ma quando mai? Non li può vedere, come tutti qua, anche se ora con l’unità nazionale devono abbozzare, a parte che la popolazione, anche quella che non li vota, li apprezza perché sono gli unici che sono riusciti (e riescono) a opporsi a Israele». «Bene, allora, posso regalarle il libro. Ma – soggiunge il professore abbassando ancor più il tono della voce –, chi rifornisce Nasrallah e i suoi pards di missili e di armi?». «L’Iran, ovviamente – replica ancor più sottovoce il segretario – e la Siria. Non ha visto il voltafaccia nei confronti di Assad, il capo di Damasco, già denunciato al Tribunale speciale e alle Nazioni Unite con l’accusa di aver fatto uccidere Rafik Hariri? Sia il druso Jumblatt che, peggio, il premier sunnita Saad Hariri, figlio di Rafik, hanno ufficialmente chiesto scusa al presidente siriano… Ma quando mai?».

«A Randa Berry, tanto gentile e tanto onesta…» così dedica il reportage alla seconda donna del Libano il professore. Aggiunge a voce che gli piacerebbe molto – anche rischiando una rappresaglia (ma non lo dice) – se il racconto venisse tradotto nella lingua araba.

La lady si distingue – fa l’elenco nel salutare gli ospiti di tutte le sue iniziative culturali e di beneficenza – per l’attenzione nei confronti di disabili e disagiati: in assenza di un sistema sanitario pubblico e di assistenza garantita ci pensano i feudatari e le brave mogli ad aiutare i derelitti. Sorride compiaciuta (per il paragone dantesco… blasfemo: meriterebbe davvero una fatwa, l’autore) e promette, dando esplicito incarico al suo segretario, di far tradurre il testo a cura della Associazione della Cultura da lei presieduta.

Lo studio del presidente della Camera è ricco di lampadari, tavoli in legni pregiati, arredi importanti e di inservienti filippine (o originarie di quei tropici) lente ma minuziose e silenziose che servono i consueti succhi di frutta freschi e i dolci. Anche in questo il Libano ricorda la Sardegna. L’accoppiata fenicia miele formaggio ha reso famose le “seadas” sarde nel mondo. La Berri è sobria nel vestire misto arabo-occidentale e gli unici monili che ostenta sono un fermaglio che chiude al collo un foulard di seta e un grosso anello all’anulare della mano destra, una pietra preziosa bianca su platino. In realtà non è tanto grosso, sono le mani della lady a essere piccole, come lo sono i piedi calzati da scarpe con moderati tacchi a spillo. Quando si alza, la lady non bascula né barcolla, stabile nella postura ferma, favorita dalla statura e dall’abitudine a comandare. Gli ospiti la salutano con cordialità, affascinati dalla second lady del Libano, una donna potente che ha concesso loro un’udienza come fossero statisti e non rappresentanti di umili comunelli. La seconda donna del Libano! pensano congedandosi dalla sede del Parlamento… Che onore. Chissà come sarà la first one, la moglie del presidente della Repubblica. Non lo sapranno durante il corso della missione né se Suleiman ha moglie. E, forse, non lo sapranno mai.

All’hotel Casa d’Or in Hamra, quando tornano per riposare, fanno il riepilogo del guazzabuglio costituzionale libanese e un countdown mentale: la carica numero quattro ai drusi, la carica numero tre ai sunniti, la carica numero due agli sciiti e la numero uno ai cristiani (il presidente della Repubblica, il generale Michel Suleiman, capo dell’esercito, ben voluto da tutti e che grazie al carisma ha messo d’accordo tutti due anni fa evitando lo scoppio della seconda guerra civile). I sardi cominciano a capire e possono dormire sonni tranquilli: l’unica bomba che li farà trasalire sarà la testa lucida e dura dell’assessore di Villa Speciosa.

Il sabato mattina, il giorno dopo l’arrivo a Beirut, viene siglato il primo patto di solidarietà, amicizia e cooperazione (così vuole che si scriva Burt Lancaster sensibile alle foglie pettegole per le quali la parola “gemellaggio” sa di viaggio di piacere e turismo sessuale) tra Ortacesus e Ain Zalta, ai piedi della grande montagna ove ha sede la riserva naturale dei cedri del Libano. I preliminari sono lunghi e un po’ faticosi. Il protocollo è bilingue e gli arabi sono prolissi. Il professore ha portato la pen driver con il file della bozza ma la tastiera del computer con i caratteri arabi è impraticabile per lui. Occorre affidarsi alla impiegata del comune libanese. Pascale è molto bella ma efficiente come i colleghi italiani che contestano la diffusa ideologia del mini-ministro Brunetta. Per i dipendenti pubblici tutto il mondo è paese e, a quanto pare, anche la burocrazia in Libano è feudale. Siglato l’accordo tra lampi di flash digitali, applausi, discorsi di fraterna circostanza (Ouàr fa uno speech come parlasse all’Onu), abbracci e strette di mano, sir Edward – il sindaco gemello – porta gli ospiti a fare un giro del paese (1200 abitanti, molte chiese cristiane) e mostra loro la sua casa (scavata nel tufo nel diciottesimo secolo) dove dimora quando è in paese per svolgere le funzioni di sindaco e d’estate perché la temperatura è ideale per dormire bene. Ora c’è abbastanza freddo. E molto freddo c’è a duemila metri sulla montagna dei cedri. La riserva è sorta trent’anni fa sulle macerie della guerra. Jumblatt, invece di sciogliere le sue milizie, le riciclò in guardie forestali che poi hanno usato bene le nuove armi: vanga, piccone e forbici da potare. Ora i cedri – unici al mondo – non corrono più il pericolo di estinguersi. Alcuni hanno più di mille anni, altri –“i cedri di Dio” – duemila. Rari, ma ci sono. È uno spettacolo, così ancora molto spruzzati di neve, vederli innalzarsi sui cieli mediterranei. Di fatto sono loro, più dei drusi, i “veri” libanesi. Non hanno mai rivendicato nulla se non il diritto di esistere. Non appartengono a feudi, a falangi, a milizie, a partiti. Hanno sempre vissuto in pace e l’unica opzione politica cui hanno fatto riferimento è la voglia di vivere in pace. L’umanità dovrebbe far tesoro del loro insegnamento e seguire il loro entusiasmante istinto di sopravvivere con poco: acqua, sole, neve e amore.

La discesa dalla montagna dello Shuf è mozzafiato. Dallo spalto calcareo si domina praticamente tutta la metà del Libano che si affaccia sul mare fenicio. L’altra metà, divisa dal crinale del monte chiamato anche lui Libano, è la valle della Bekàa, chiusa da un’altra catena di monti in­nevati, in comproprietà con la Siria. La Siria è vicina. Da Beirut a Damasco sono appena due ore di macchina sulla superstrada che le collega. Ora che le relazioni diplomatiche sono state riallacciate e il presidente Assad perdonato (per il presunto assassinio di Rafik Hariri) c’è un traffico continuo e pericoloso tra le due metropoli vicino-orientali. Pericoloso perché il rischio di rimanere folgorati sulla via non è stato del tutto eliminato.

Il secondo patto di amicizia e solidarietà è siglato a Yanouh il lunedì successivo tra il sindaco di Villa Speciosa Elio Emme e quello del paese di Noè, Alì Ibrahim Jaber. Cieffe non fa, come Ouàr, discorsi, non ha il bernoccolo della parlantina sciolta, è un timidone. L’altro bernoccolo, quello ai confini della fronte e dell’attaccatura dei capelli che non ci sono, è il leitmotiv della sua esistenza in Libano. Presenti le autorità civili e militari (italiane), la popolazione è in festa, felice di essere “considerata” degna di amicizia e di amore e di essere accarezzata invece che bombardata. Yanouh è un paese povero come lo sono quelli del sud del Libano, che, da quando esistono, hanno conosciuto distruzioni e devastazioni. I Crociati non furono i primi, gli israeliani si spera che siano gli ultimi. Sono stremati e hanno solo bisogno di pace. Il sindaco di Yanouh ha fatto una colletta per sobbarcarsi l’onere dei doni (una targa ricordo a tutti, compreso il professore che il suo libro lo ha donato ad Hassan) e del pranzo al ristorante di Tiro di fronte a una bella spiaggia – come si gloriano i libanesi che non conoscono quelle dove erano approdati i loro ascendenti fenici che fondarono le poche città costiere sarde, fra cui la capitale dell’isola Cagliari, fenicia anche nel toponimo solo foneticamente spagnolizzato. Allo Shawatina restaurant di Tiro, dove è stato invitato anche il comandante Galletti, sostituito dal vice che si chiama – nomen omen – “Pace” (ma c’è un collega, di grado inferiore, che si chiama “Guerra”, precisa il vice,  contento tuttavia di chiamarsi “Pace”) viene servito ogni ben di Dio e di Allah fra cui per la prima volta il pesce. La presenza maggioritaria (siamo nel feudo di Amal e Hezbollah) di Allah fa commettere allo stesso un peccato mortale che, però, dato il rango di “superiorem non recognoscens”, non avrà il contrappasso: essere immerso per sempre in una botte di Cannonau o di Vermentino. Non si è mai visto un giudice, pure riconosciuto colpevole, autocondannarsi. Accompagnare il pesce con acqua o pepsicola-sevenup-mirinda (tutte le lattine sono stampate in arabo), lascia i sardi con l’acquolina a mezza bocca e un senso di insoddisfazione che però non lasciano trasparire. Alì Jaber ci rimarrebbe male con tutto quello che deve aver speso. Nemmeno la Storia Tesa si permette di sbilanciarsi in un giudizio di disvalore culinario, lui così poco corrivo quando si tratta dei piaceri altrui. Solo il bernoccolo traspare sulla fronte. Lo fa sembrare, di profilo, e forse perché si trova in zona profeti, Mosè. Uno stigma che un giorno sarà scolpito nella memoria di un viaggio al termine del buio. Verso la fine del pranzo, lumen in fundo, entra nella sala, dove non mangiano soltanto i sardi e i loro ospiti ma anche molti autoctoni alcuni dei quali donne col velo ma a faccia scoperta, un omino alto mezza spanna dal visus volitivo e furbetto. Secco, asciutto, un fascio di nervi politicamente corretti. È il Capo – vola veloce di bocca in bocca seppure a mezza voce – dell’unione dei comuni del “caza” (comprensorio) di Tiro e sindaco della città da cui partivano per il mondo i legni ben calafatati e bardati già prima dell’era volgare.

Dopo aver brevemente interloquito coi “suoi” sindaci, Abdel Mehesen Al Husseini, senza aver mangiato né bevuto nulla, si alza e comanda a qualcuno qualcosa. Viene portato un grosso scatolone. Al Husseini lo apre e tira fuori le copie del libro, ben rilegato e a colori, “TyrL’histoire d’une ville”. Il francese è la seconda lingua ufficiale in Libano. Poi fa il giro dei tavoli e consegna a tutti, anche alle donne col velo, una copia del libro. Ancora a mezza voce, vola veloce di bocca in bocca un asserto che a nessuno viene in mente di confutare: presto in Libano ci saranno le consultazioni per il rinnovo delle cariche amministrative dopo la contestata riforma del sistema elettorale (niente più elezione diretta del capo dell’amministrazione). Evidentemente il sindaco di Tiro ha tutta l’intenzione di volersi ricandidare e, chissà, pubblicare un altro libro, senz’altro opera meritoria e viatico per l’immortalità anche per il Corano a patto che non vi siano stampati versetti satanici. La democrazia feudale libanese non ha niente di diverso da quella italiana, nella quale hanno grande influenza i califfati, tipo Mafia, Camorra, Ndrangheta, Sacra Corona, che amministrano vaste lande del Paese. Può persino venire il dubbio che quella libanese sia la migliore possibile.

Terminato il luculliano pranzo fenicio, i sardi (scortati da funzionari del partito di Amal e dalla polizia di Tiro) vengono portati a visitare una “riserva” (più somigliante a una discarica) sul mare destinata alla tutela delle testuggini che vi vanno a deporre le uova. L’hobby umanitario numero due di Randa Berri: dopo i disabili, le testuggini sono i soggetti deboli libanesi da proteggere per scongiurarne l’estinzione. Indi, a qualche chilometro di distanza, sempre ben scortati, un altro sito saliente di Tiro viene mostrato con orgoglio, L’hippodrome, dove quelli come Ben Hur facevano le loro scommesse, è ben conservato così come le rovine della città romana sulle quali incombe, quasi a volerle occupare per strappare qualche metro cubo d’aria, il campo profughi dei palestinesi.

Ci pensa Sir Edward Mghabghab, il sindaco del paese dei cedri gemellato a quello degli struzzi (a Ortacesus c’è uno storico allevamento), a ristabilire il giusto tasso alcolico nel sangue annacquato e frizzante di bollicine arabo-americane degli ospiti che cominciano a sognare, dopo solo qualche giorno di soggiorno, pastasciutta, pizza e vino. I libanesi ritengono di essere loro gli inventori della pizza e non devono avere tutti i torti perché a ogni angolo non mancano i facsimili che sono molto buoni, eccetto che in una “pizzeria napoletana tradizionale”, di fronte al Casa d’Or, dove francamente l’elaborazione lascia a desiderare. In fatto di pane i libanesi non sono secondi ai sardi che vantano il pane più buono del mondo. Ma i sardi discendono dai fenici e i libanesi pure: ecco spiegato l’arcano. Il pane carasau, chissà perché chiamato “carta da musica” (forse mangiandolo si sente un sottofondo di launeddas o una sinfonia concertante di Mozart)  ha varcato le soglie poco protette del Tirreno e impazza nel Continente avido di esotismo e ha, facendo un olimpionico salto con l’asta, scavalcato le Alpi, le Piramidi, il Manzanarre e il Reno. Riuscirà la globalizzazione a rendere inascoltabile la musica del pane sardo e di quello libanese?

Per recarsi dall’hotel Casa d’Or al Commodore e superare la “linea verde”, Burt Lancaster e tutta la compagnia non hanno bisogno delle autovetture guidate con la saggezza di Alonso da Hassan e da Louis, l’autista personale di sir Edward, nel traffico surreale di Beirut. È a un tiro di schioppo, o di bomba a mano. La megalopoli ha un tassista ogni quattro abitanti e quattro macchine per famiglia, considerando quattro il numero medio dei componenti. Le automobili ormai d’epoca hanno una cilindrata non inferiore ai duemila, perlopiù mercedes o bmw, le più nuove sono sfavillanti suv nipponici, le italiane sono poche malgrado l’Italia sia il principale partner commerciale del Libano. Sir Edward ha noleggiato per tutta la settimana un fuoristrada giapponese, più un salotto che una macchina. La guida di Louis è di quelle che fanno pensare di percorrere un confortevole rettifilo senza buche, senza curve, senza divieti di transito che si può far finta di non vedere per evitare un rallentamento nella democrazia anarchica del traffico di Beirut. Louis ha una faccia rugosa. Non dà segno di emozioni. È un gentleman driver, elegante e compassato, come sir Edward. L’unica passione che gli fa cambiare la smorfia, quando qualcuno gliene offre una, è la sigaretta. Non ne accende una col mozzicone, come fanno i tabagisti persi, ma quasi. Il professore gli ha offerto un antico toscano ma lui ha declinato. Quando gliene offre uno aspirabile se lo fuma con un piacere indefinibile.

Louis non entra all’hotel Commodore dove i sardi sono accolti dal direttore, vestito yuppy, nipote di sir Edward. Li fa accomodare nell’angolo più salottiero della hall, luci soffuse, atmosfera da piano bar parigino. Chopin viene diffuso senza capire nella penombra quale esecutore lo stia interpretando senza infamia e senza lode. Né si vedono i camerieri che tengono sempre alto il livello del vino, rosso come il cannonau, ma è uno Chateau della valle della Bekàa: non ha niente da invidiare a un fratello bordolese nel bicchiere – non un gotto – panciuto ed elegante che ciascun ospite ha davanti, incapace di rendersi conto di quanto liquido prezioso, caldo e morbido, ha ingollato. Alla fine si contano otto bottiglie, più di una pro capite. Sir Edward e il nipote ne avranno scolata una in due e Talal Khrais, arrivato in ritardo, bevicchia solo per buona educazione non dimenticando, pur lamentandosi laico, le ascendenze sciite. Fortuna che c’è il sushi! Mentre si conversa un po’ di tutto, specialmente delle complicazioni della politica che rendono simili l’Italia e il Libano e dei problemi dei piccoli comuni che, a causa delle complicazioni, hanno vita difficile sia in Italia che in Libano, vengono servite senza soluzione di continuità portate di sushi che meriterebbe il vino bianco ma la presenza di tonno crudo nella raffinata e prelibata composizione dà maggior credito al fiume di Chateau che alla fine rende i sardi, con e senza bernoccolo, allegri, gioviali e contenti che in Libano ci sia la pace. Mentre percorrono i pochi metri che separano l’hotel Commodore dal Casa d’Or, sono sempre più convinti che sir Edward sia di un lignaggio nobile, un gentiluomo di altri tempi. E una persona molto ricca. Otto bottiglie di Chateau della Bekàa, sushi a volontà, l’Avana più buono e costoso che esista (aperitivo e digestivo), un conto che i bilanci di Ortacesus e Villa Speciosa insieme non riuscirebbero a saldare. Sir Edward è ricco come deve essere ricca Beirut. È vero è la capitale finanziaria del Medio Oriente, costellata com’è di tante banche quanti sono i feudatari, i vassalli e i valvassori ma è impossibile non porsi una domanda: dove li prendono i soldi per comprarsi tutte le macchine e per pagare il petrolio che in Libano, unico Paese del Medio Oriente, non si estrae? Potrebbero sfruttare un giacimento sul mare della città, di fronte ai faraglioni (Raouche, le rocce dei piccioni) che si vedono più dalle cartoline postali che dalla “Corniche”, il lungomare intasato di automobili e costruzioni pretenziose. Ma non possono perché Israele, il giorno dopo l’installazione di una piattaforma, bombarderebbe i pozzi.

Il rovescio della medaglia, il professore, Burt Lancaster, Ouàr, Elio Emme e la Storia Tesa, lo vedono al ritorno al Casa d’Or dal Commodore. Decidono, per smaltire sushi e annessi e connessi, di fare un paio di vasche (ma niente struscio, dice il professore ai compagni di viaggio) in Hamra Street, bella di notte, un locale a ogni angolo, trattorie, ristoranti alla moda, ammorbati tuttavia dai gas di scarico. Rincorrere la modernità – dopo le distruzioni e le crisi culminate nel 2006 nel conflitto fra Israele e Hezbollah – e lo sviluppo sfrenato e riappropriarsi del cosmopolitismo hanno una contropartita salata. In Hamra Square, una donna di un’età indefinibile ma dal censo reso evidente dagli stracci che indossa, chiede nello stile e nel mood di una zingara l’elemosina. Il professore, cinto d’assedio per primo, se ne libera dandole una lira libanese (vale un po’ di più della vecchia moneta italiota, molto meno dell’euro: più o meno un terzo). Un pacchetto di sigarette, che in Libano costano poco, la “zingara” se lo può comprare. Poi la donna si rivolge agli altri non mollando l’osso finché non si è messa nelle tasche stracciate qualche altra lira. La Storia Tesa ha un balzo improvviso di pressione, già lui, Rom e quella gente lì, insomma, maschi o femmine, non li sopporta per più di cinque minuti anche se non è razzista e svolge l’incarico di assessore ai servizi sociali con equilibrio e imparzialità; ma pagare un obolo proprio dove – in Hamra Square – la sua testa ha causato un’esplosione che stava per riaccendere i fuochi della guerra civile, questo lo sopporta anche meno. Perciò dopo una lotta accanita, la sua testardaggine ha la meglio su quella della donna senza età e senza soldi e riesce a scappottarsela dal versamento. Così crede. Perché subito viene circondato da due meninos senza moccio ma ancora senza una peluria che faccia presagire a una barba. Loro non chiedono l’elemosina. Vendono gommine americane in bustine arabescate: potrebbe esserci scritto anche “polvere da sparo per gonzi” (arma di distruzione di massa). Uno mastica la gommina e – bum! – diventa un “eccebomba”, peggio di Cieffe. E poi, a seconda di come si è comportato in vita, passa nel cerchio dei martiri (paradiso) o nel girone dei “ma-che-cosa-ci-sei-passato-a-fare-in-questo-mondo-se-non-hai-contribuito-in-nulla-a-migliorarlo?” (limbo). L’inferno non esiste. Superato dai tempi. Anche Ratzinger (e il Grande Ayatollah gli fa eco) tentenna e presto scriverà un libro di teologia dove cercherà di trovare soluzioni alternative adeguate alla perdita dolorosissima del ricatto terribile grazie al quale la SpA che presiede contende alle maggiori multinazionali dividendi e utili apprezzati anche a Wall Street.

I meninos si attaccano ai passanti, che hanno avuto il torto di dare qualche penny alla donna dall’età del cane che fugge, come cardancas, le zecche, come dicono tutti i sardi nella loro lingua, quelle che succhiano il sangue ai cani. I meninos cercano di succhiare denaro in cambio di gommine e alla fine un parziale lo ottengono. Il professore, da buon giocatore di scacchi, elabora una tattica e due strategie benefiche. Lui acquisterà le gommine. Mentre tirerà fuori le lire, i meninos gli si accalcheranno attorno e faranno una gara a base d’asta. In quel momento il resto della comitiva svicolerà rapidamente in direzione sudest sino all’incrocio di Hamra Street e la via del Casa d’Or. La tattica è perfetta, sembra pensata da Mourinho più che da Tigran Petrosian, il campione di scacchi più famoso in Libano perché armeno. La strategia ha raggiunto gli obiettivi. I meninos rifilano cinque scatolette di chewing gum con la scritta in arabo (sul retro è in inglese: “Adams chiclets”) al gusto di strawberry, fragola, che al professore non va per niente a genio, ma non c’era scelta, prendere o lasciare. Prendere; così, la sera, i meninos mezzo kebab o mezzo shawarma a testa lo mangeranno. Nella hall del Casa d’Or sono rimasti ad aspettarlo Burt Lancaster e Ouàr. Il professore dà loro una confezione di chiclets. «Ma… sono alla fragola» dice perplesso il ministro degli esteri. «L’unica fragola che mi piace – aggiunge Burt Lancaster – è quella dei preservativi». «Beh, allora – chiude la conversazione il professore prima di avviarsi all’ascensore (senza porta come tutti quelli di Beirut) che lo porterà all’ottavo piano – faccia le bolle e sperimenti se, per l’emergenza, fanno alla bisogna». «Professore…!». «Dica, sindaco». «Non vorrà scrivere anche stavolta…». «Io vivo la vita e scrivo ciò che vedo, ha detto Anna Politkovskaia…». «Ed è stata uccisa… Io non sono vendicativo come Hezbollah, ma mia moglie è molto gelosa…». «Vuol dire che la ama, sindaco». «Anch’io la amo» chiude Burt Lancaster.

Sir Edward, nel giorno meno intasato da protocolli e incontri ufficiali, ha allestito un bel giro turistico. Ha noleggiato un’automobile con guida turistica patentata che sostituirà Louis, pilota ineguagliabile ma inadatto a far da cicerone. Prima di partire ha portato agli ospiti un dono: una confezione di prodotti doc della riserva dei cedri e due fittoccelle di cedri. Al professore anche un narghilè bellissimo, ottimo anche “da sistemare nel salotto” come dice lo stesso sindaco di Ain Zalta. La confezione comprende miele di cedro, melassa di uve selvatiche e un mix di origano e mini-pinoli biologici. Il tour prevede una visita al Jeita Grotto, in lizza per essere classificato tra le nuove sette meraviglie del mondo in una gara indetta dalla competente filiale dell’Onu. Poiché anche lì, oltre ai voti, occorrono unzioni e accozzi (come pensano nella loro lingua i sardi per “raccomandazioni”), il grotto è risultato solo ottavo con disdoro dei feudi e dei feudatari. Però qualcosa di buono è avanzato. È pur sempre – il grotto – una meraviglia. Nessuno può metterlo in discussione. Senza contare che ad essere l’ottava fa un certo effetto spendibile nelle cartoline, nei biglietti da visita e nei cartelli gialli con scritta nera, quelli che indicano un sito di rilevante interesse turistico. Il biglietto per entrare, manco a dirlo, è stato già pagato da sir Edward. Questo consente ai visitatori sardi di evitare la fila fisica, perché quella virtuale in Libano non è stata ancora inventata malgrado sia proprio la virtualità la caratteristica principale del Paese dei cedri. È virtuale la stessa nazione, stavano per diventarlo i cedri “biblici”. È virtuale la pace sia all’interno dei confini che all’esterno. Neanche un anno fa, un rigurgito amaro di guerra civile ha fatto spaventare il mondo. Hezbollah, per rivendicare il diritto di esistere ed essere rappresentato in Parlamento, ha occupato l’aeroporto internazionale e scontri e morti (un centinaio) ci sono stati in tutto il Paese. Alla fine le parti, i feudi, si sono messi d’accordo e così ora in Libano c’è un governo di unità nazionale, cosa un po’ paradossale ma è meglio di niente. Il primo ministro “fantoccio” Fuad Siniora è stato sostituito da chi prima era considerato poco più di un frillo (fantoccio) dai suoi avversari politici che hanno contribuito a insediarlo. Saad Hariri ha ereditato dal martire Rafik la carica, il titolo e il feudo sunnita. A questi storici nemici degli sciiti spetta per la divisione costituzionale dei poteri la carica numero tre. Spetta loro sempre, comunque vadano le elezioni, qualsiasi vento tiri e chiunque sia l’incaricato, tonto o intelligente non importa. D’altronde Saad è figlio d’arte e il buon sangue non dovrebbe mentire.

Il “grotto” di Jeita, località dell’aspra montagna nel centro geografico del Libano, in realtà sono due enormi, fantastiche spelonche: è probabile che in quella più alta (upper grotto) sia stato girato il film “Il signore degli anelli”, grottesca com’è, con stalattiti e stalagmiti fantasy, “camere” illuminate da una luce che non si sa da dove viene, scale senza inizio né fine, una fenditura, sullo strapiombo vertiginoso, ove scorre un fiume sotterraneo. Quando si esce alla luce del sole un trenino gommato è pronto per discendere verso il grotto di sotto. Per salire all’ingresso dell’upper è stato necessario sistemarsi su una precaria cabinovia – sul calco di quelle dei lunapark – con vista sul fiume impetuoso che deve essere quello del grotto uscito a vedere l’azzurro del cielo e il verde di uno dei pochi boschi ancora in servizio permanente effettivo. I sardi decidono di non entrare nel grotto di sotto, che sarà pure una meraviglia ma niente più che una fotocopia ridotta di quello di sopra, e di partire subito per Biblos non senza prima essersi soffermati a cliccare le fotocamere digitali sull’enorme statua di pietra bianca, che potrebbe essere Zeus meditabondo e chiude il gigantismo cinematografico dello spalto delle meravigliose spelonche di Jeita.

«Sembravamo i predatori dell’Arca perduta» dice salendo in macchina Ouàr. «O i raminghi» obietta il professore. «Noi siamo drusi» si frappone Burt Lancaster. «E’ berus, nosus seus drusus» riattacca in sardo il ministro degli esteri di Ortacesus (è vero, noi siamo drusi). «Nosus seus dusus» aggiunge Burt Lancaster (noi siamo due). «Nosus seus tres» puntualizza il professore (siamo tre) «prus dusu’ de Bidda Spetziosa (più due di Villa Speciosa) e seus Sardus e Libanesus (e siamo sardi e libanesi)».

Il richiamo di pace e fratellanza – alla John Fitzgerald Kennedy –  mette tutti d’accordo. Nessuno poi contesta nessuno mentre commentano il brutalismo esibito dalle immagini, che scorrono veloci dalla berlina francese, della speculazione edilizia: il Libano è un’immensa megalopoli da Beirut a Tripoli, dalla costa sino alle vette inaccessibili (ma non tanto, evidentemente) delle montagne innevate: meno male che avevano ancora paura di essere bombardati dagli israeliani, altrimenti avrebbero costruito anche sopra il mare. Tra file infinite di palazzi sulla superstrada a scorrimento presuntivamente veloce, si arriva a Biblos, la “città” per eccellenza, la prima della storia, la prima per cultura e per economia fiorente quando gli uomini erano poco più che scimmie. Ora di fenicio c’è rimasto un muro ad usum dei turisti scemi (ma anche i più scemi si rendono conto che trattasi solamente di un inconfutabile assioma degli esperti inconfutabili e di un cartello messo lì dalla pro loco del posto: “muro fenicio”). Il “suk”, una vecchia strada che scende sino al mare, è un mercatino delle pulci e il porticciolo di fenicio ha soltanto il nome di un bar, dove i sardi, mentre cliccano senza flash la marina assolata, accettano il caffè turco (quasi al limite della imbevibilità) dal bravo cicerone orgoglioso di mostrare le vestigia anticate della sua città. Le barche ormeggiate nell’antica darsena con resto di torre medievale, forse crociata, sono come quelle che si trovano anche in Sardegna: quelle dei pescatori cariche di reti, di sapori e umori del mare più faticoso e difficile, gli yacht carichi di denaro che fa affondare lo scafo sino alla linea che separa l’opera morta dall’opera viva.

Al ritorno dalla gita, interessante e apprezzata, il segretario di Assadakah, dr Khrais, annuncia che il numero due del Partito Socialista (il numero uno è il druso Jumblatt) ha accordato un’udienza e li attende per le ore diciannove nella sede di Beirut. Breve doccia e via. Louis scapola un paio di sensi unici per non rimanere invischiato nella marmellata tossica del traffico e, in meno di mezzora, riesce a far arrivare puntuali gli ospiti alla sede del partito. Walid Jumblatt sembra guardare, dalla fotografia appesa alla parete dietro la scrivania, il suo numero due. Charid Fayad è un omone dal sembiante di vecchio leader dell’Unione Sovietica, passata non troppo leggera, come quasi tutto a questo mondo, nella spazzatura della Storia, avrebbe detto Marx. Lo avrebbe detto con la morte nel cuore se avesse saputo che si sarebbe verificata un’eventualità che lui attribuiva ad altro. Ma anche nella spazzatura qualche fiore spunta. Fayad ha anche la voce baritonale e profonda di un russo una volta potente. Lui è ancora socialista e un po’ potente come un generale dell’esercito in pensione (quale è). E come si può essere potenti in Libano. È un potente virtuale. Il suo speech di benvenuto è fluido, aperto e cordiale. Ricorda di essere stato in Sardegna negli anni Ottanta del secolo scorso, ospite del governatore. Molte somiglianze e affinità tra la Sardegna e il Libano. Era d’estate e impazzava uno degli incendi più devastanti che l’isola avesse mai conosciuto. Anche il Libano ha il problema della salvaguardia della natura e dei boschi. “I cedri di Dio”, grazie a Jumblatt (e al Partito socialista, non scomoda Allah perché è druso) sono salvi ma bisogna tenere alta la guardia. Gli piacque molto, continua Fayad, anche il cibo: non mezzè, tabuleh, mtabal, kabis, shanklish e tutte le cose buone libanesi ma – li elenca puntigliosamente e le salive sembrano scendergli dagli angoli delle labbra – porchetto, che lui non schifa come i connazionali arabi, pane frattau, coratella di agnello, malloreddus e dolci ad libitum. La nostalgia degli ospiti per un bel piatto di spaghetti si fa struggente. E tale è il discorso di replica e di ringraziamento che fa – e non ci voleva nemmeno venire perché lui non è di sinistra né ha in simpatia il presidente del Parlamento italiano – Elio Emme dopo aver consegnato il dono (il libro bilingue sardo-italiano e il gagliardetto di Villa Speciosa). La sua prosa, in genere poco coinvolgente, muove gli affetti esagerando, tuttavia, quando cita ancora una volta (al campo del contingente italiano ci poteva stare) “gli eroi di Nassirya” cui il suo Comune ha dedicato una piazza e un monumento e che lì sono fuori luogo. Tanto da imbarazzare gli amici e un po’ il suo assessore eccebomba cui il baffo, sempre meno volitivo, si arriccia impercettibilmente. Charid Fayad e sir Edward, però, sorridono.

I sardi rientrano al Casa d’Or con l’impressione di essere tornati indietro nel tempo, in un medioevo rosso o all’epoca dei dinosauri, estinti  a causa dell’impatto improvviso e poco idealistico di un pianetino impazzito. Un socialista verace, della prima ora, come i “primi cristiani”, è così raro che vederne uno in carne e ossa fa l’effetto di intavolare un vis à vis con Lenin più che con Olof Palme, la stessa sensazione provata al castello di Mokhtara tra i dipinti del realismo socialista e i ritratti dei leader comunisti e del generale Zuchov che aveva annientato i nazisti e “non aveva mai perduto una battaglia” eccetto quella contro i nemici interni che distrussero la patria.

Restano a cena con loro, con la promessa che dopo li porteranno a fare il giro di Beirut by night, Hassan e suo cugino Mohammed. In due non hanno molto più di quarant’anni e potrebbero essere i figli di ciascuno dei sardi. Sanno il fatto loro, sono educati e non sono fanatici: musulmani ma non bigotti, patrioti ma non anti-israeliani, filo-palestinesi ma realisti. Li rattrista mostrare i campi-profughi, vere città chiuse, costruite alla rinfusa, scatole di cemento e blocchetti di tufo scadente, una sopra l’altra, loculi per fantasmi. Ai palestinesi è proibito anche solo affacciarsi. Poiché confinano col mare, è loro concesso di andare a pescare. Il rischio di essere affondati dagli israeliani è grande. Fanno anche lavori artigianali. Hassan ha regalato al professore una kefiah palestinese, regalo che il figlio, coetaneo di Hassan, riceverà con la voluttà e il piacere dell’idealismo. Tutti mangiano con gusto, ma senza l’avidità di chi è affamato, la pizza e le altre cibarie pseudoitaliane del locale pseudonapoletano quasi di fronte all’ingresso del Casa d’Or. Poiché ai sardi sono finite le lire e i dollari, e all’oste l’euro non garba, sono i ragazzi a pagare le centocinquantamila lire de l’addition. L’oste capisce più il francese dell’italiano. I sardi protestano perché non vogliono far pagare Hassan e il cugino. Alla fine si arrendono con la promessa di restituire immediatamente quanto anticipato dai due ragazzi. Dopo una colluttazione verbale (paterna) i sardi cedono ad Hassan e rinunciano, anche ora che hanno cambiato la valuta all’hotel, con l’intesa fra loro che faranno un regalo al ragazzo felice di aver vinto la battaglia e offerto lui la cena. Poi tutti stipati, tre davanti quattro dietro compreso Mohammed, nella coreana di Hassan che si tuffa nel traffico di quasi mezzanotte, fotocopia di quello di mezzogiorno. Al ritorno i sardi gli propongono di pernottare in albergo a loro spese perché farsi cento chilometri da Beirut sino alla Galilea può essere pericoloso. Si vede che il ragazzo è stanco e un colpo di sonno è probabile più che possibile. È grande il rischio di non arrivare nemmeno a Sidone, il feudo sunnita di Rafik&Saad Hariri, e di non rattristarsi davanti al campo profughi e alla megadiscarica sul mare che rende la città tossica e inappetibile ai turisti. Hassan condivide le paure degli amici e dice che guiderà Mohammed: si è alzato tardi la mattina ed è ancora fresco e in forze. I due partono per Yanouh lasciando in ansia gli ospiti. L’indomani mattina presto il professore e la Storia Tesa, il cui bernoccolo ha perso molto dell’iniziale intensità esplosiva, vanno in un chioschetto a venti metri dall’hotel e, dopo l’immancabile contrattazione di dieci minuti (una voluttuosa prassi dei commercianti arabi) riescono a strappare per cento dollari un cellulare Nokia che in Italia costa centoventi euro. Appena arriva Hassan e gli altri che li accompagneranno all’ambasciata italiana, lo chiamano in disparte e, dopo una nuova colluttazione ugualmente faticosa, gli consegnano il telefonino, oggetto di culto anche in Libano.

All’ambasciata italiana a Beirut, sita in altura nella zona residenziale dove lo smog non arriva stagnando nei quartieri a livello del mare, sono invitati tutti i protagonisti della missione di pace e di solidarietà. L’ambasciatore Gabriele Checchia – e non “Gaberiele”, come si ostina a scrivere e a dire alla maniera araba il dr Khrais, segretario di Assadakah – è molto cordiale, deciso e determinato, positivamente convinto del suo ruolo di mediatore degli interessi di due nazioni amiche. Lo dice nel salutare i sindaci e gli altri invitati (c’è anche il responsabile della cooperazione italiana) nel suo studio dove le bandiere amiche occupano mezza parete. In quella di fronte una grande finestra consente di vedere il panorama a duecentosettanta gradi della megalopoli di Beirut. Il breve discorso tocca tutti i punti, anche quelli caldi, della situazione libanese nella quale ha un ruolo importante, più politico che militare, e condiviso dai feudi, l’Italia. Nel frattempo un inserviente porta il caffè. Dopo quasi sette giorni di astinenza nei quali hanno sopportato brodaglie turche e melasse arabiche, finalmente un “Lavazza Oro”, un caffè italiano, caldo e rinfrancante cui i sardi avevano creduto di rinunciare sino al ritorno in Sardegna. Anche davanti all’ambasciatore Emme sfoggia la sua prosa monotona e monocorde e il leitmotiv patriottico favorevolmente annuito dall’ambasciatore. Il luogo è più giusto di altri dove il sindaco di Villa Speciosa si è esibito nel riff ostinato, ma i colleghi cominciano a essere insofferenti. Persino la Storia Tesa ne dà segno e alla fine non fallisce il blitz che gli era riuscito soltanto il primo giorno del viaggio al ristorante che ha il nome di un cantante egiziano: mostrare le fotografie scattate nel 1982 quando, non da bersagliere ma da marinaio, aveva fatto parte del contingente mandato dall’Onu per far cessare il fuoco della guerra civile. Mostra particolari terribili: palazzi, cinema, chiese, mercati, tutto distrutto. “Quando siamo arrivati, era palpabile l’aria della tragedia. Le macerie fumavano. La disperazione della gente, la paura… Forse dai nostri sguardi hanno capito che volevamo aiutarli” (così il generale Angioni, sardo, comandante del contingente all’epoca, a “La storia siamo noi”). La Storia Tesa, che si sta infogando a dimostrare che la “storia sono io”, fa vedere alcune foto scattate durante una perlustrazione dei campi di rifugiati di Sabra e Shatila: mentre le milizie cristiano-libanesi massacravano tremila e cinquecento persone, quelle israeliane di Sharon stavano a guardare. Le immagini sconvolgono tutti. Le rovine insanguinate dei campi, dove ora c’è il mercato degli ambulanti, rimarranno impresse per sempre nel loro ricordo. Il baffo della Storia Tesa ha ripreso colore ma il ricordo della tragedia che ha fotografato ha lasciato il segno anche in lui..

Al culmine della visita all’ambasciata, mentre sta dando il saluto conclusivo il sindaco di Yanouh, Alì Ibrahim Jaber, che cita un verso di un poeta arabo (“Gli uccelli della stessa specie si incontrano”), arriva al professore, preavvisato da una vibrazione nella tasca destra dei pantaloni, un sms. È suo nipote che, rollando e beccheggiando su una portacontainer della stazza più grande, naviga su e giù per i mari di tutto il pianeta. L’sms del giorno prima diceva: «Sono a Limassol». Risposta del professore: «Se approdi a Beirut, batti un colpo». Il nuovo ha un sottofondo di eccitazione inusuale ma giustificato dal fatto che il nipote del professore è quasi un anno che non vede anima viva se non i ventidue colleghi di equipaggio. Lui è secondo uffi­ciale e un imbarco così lungo prelude alla promozione a primo.

«Henry, Henry – dice il concitato messaggino –, sono a Beirut!». «Se puoi sbarcare, vieni a pranzo con noi». «Difficile. Il porto è grande. Ad arrivare al terminal ci vuole molto tempo. Occorrerebbe che un taxi venga a prendermi subito. Alle diciassette dobbiamo iniziare la manovra per la partenza». «Ti chiamo tra cinque minuti».

Il professore rende partecipi tutti dello scambio di messaggi col nipote. Prontamente sir Edward si fa dare il numero del nephew e lo chiama dandogli istruzioni in inglese per farsi trovare pronto. Un taxi andrà a prenderlo alla nave. Poi fa un’altra telefonata. Il giovane marinaio è al settimo cielo. Non mangiava così, “da cristiani”, da chissà quanto tempo. Un imbarco sfigato quanto a cucina. Un cuoco crucco di Slovenia che non sa cucinare nemmeno le patate. È dimagrito molto, infatti. Ma è felice e contento come la Pasqua che si avvicina. Mangia a quattro palmenti il filetto con i funghi e altre pietanze “italiane” conversando ora con Louis, per una volta insieme agli ospiti forse perché è l’ultimo giorno, ora con sir Edward in inglese ora col professore. Tutti gli fanno domande sul suo lavoro e si fanno fare il resoconto dell’ultima rotta. A Limassol era giunto da Latakia, in Siria, ove era approdato dopo esser uscito da Suez. Il mar Rosso lo avevano raggiunto dall’oceano Indiano, via Aden e prima Dubai. Vi erano arrivati dall’Australia via Shangai-Hong Kong-Singapore. Che cosa avete trasportato a Beirut? Chiedono tutti. Container, il contenuto dei quali, eccetto che per le merci pericolose, è sconosciuto all’equipaggio. Per quanto ne so, potrebbero essere anche cadaveri surgelati di cinesi.

«Avete letto il libro di Saviano, Gomorra?». Sir Edward si fa tradurre e spiegare. «Ah, le Mafie italiane – dice per niente compiaciuto –, forse sono peggio dei feudi libanesi». Burt Lancaster gli fa un’altra domanda. «Senti, Piercarlo… ma come fanno i marinai?». «Fanno come hanno sempre fatto» risponde non senza imbarazzo il giovane. «E cioè?». «Cantano in continuazione la canzone di Zucchero Fornaciari: “Senza una donna”».

Cosa che non fanno più i soldati, commentano Burt Lancaster e Ouàr, i quali, al campo del contingente italiano dell’Onu a Yanouh, hanno incontrato molte soldatesse (circa il dieci per cento della forza effettiva) tra cui “Fiore” una ragazza di Ortacesus, nipote del ministro degli esteri, molto felice di stare insieme ai suoi compaesani e commossa per una visita parenti inaspettata. “Guardare” il vicinissimo confine di Israele (per tre ore di fila) dall’altana, inaccessibile ai terroristi islamici ma non a quelli ebrei, esposta ai venti e ai fuochi, alla fine giustifica un po’ di depressione anche in chi ha compiuto da poco vent’anni. Finito il pranzo, il giovane marinaio si invola verso il porto. Senza difficoltà trova subito nel traffico di Hamra un taxi, un bmw fiammante. La difficoltà – dirà successivamente – è stata far capire al tassista la destinazione. Parlava soltanto arabo. Dopo mezzora di inutili tentativi, si è fermato e ha chiesto al primo passante anglofono di tradurre le richieste del marinaio che alle diciassette in punto era pronto al suo posto di manovra per partire nuovamente verso un altro porto del pianeta conosciuto.

Alla fine del pranzo Talal Khrais riceve una telefonata. I sardi sono invitati dal numero due di Hezbollah. Ha saputo dai giornali – tutti quelli in lingua araba e quello in lingua inglese – della presenza dei sindaci e, come due anni fa, li vuole incontrare. L’imam è quello del naso grosso uguale membro grosso descritto con benevola ironia nel reportage che Randa Berri si è impegnata a far tradurre. E dunque il professore si affretta a dire che lui no, grazie, lui non va nel nido delle aquile. Per una volta i sindaci potranno fare a meno del segretario. Non è nemmeno un incontro in calendario, d’altronde. Khrais dice che non se ne parla nemmeno perché è specialmente lui, l’organizzatore del viaggio, che l’imam attende e che proprio lui sarà intervistato dalla televisione del Partito di Dio “Al Manar”, la terza, dopo Al Jazeera e Al Arabiya, più gettonata in Libano e nella grande penisola una volta chiamata “Arabia Felix”. All’hotel Casa d’Or gli ospiti hanno inutilmente chiesto il collegamento a un canale italiano che, di solito, dicono alla reception, si riceve agevolmente. Ma il segnale di Rai Uno è quasi sempre illeggibile. Per questo hanno imparato qualche parola in arabo vedendo il calcio di cui, a quanto pare, tutta la penisola è fanatica. Vedere in tv una partita di pallone fra arabi e sentire l’incredibile infogamento dello speaker è uno spettacolo imperdibile malgrado non si capisca nulla e il gioco sia talmente paleolitico, molto meno che parrocchiale, da far ridere anche un incompetente.

Davanti alla telecamera di Al Manar, il professore ha un iniziale sbando e un po’ di tremarella. Nessuno lo aveva mai intervistato. E a ragione. Per quale motivo dovrebbero intervistare uno come lui?

«Perché siete venuti in Libano?» è la domanda prima in arabo poi in italiano di Talal Khrais al professore sudaticcio e all’inizio balbettante. Poi però gli passa. «Siamo qui in missione di pace. Siamo qui per portare la nostra solidarietà alle popolazioni impaurite e rovinate dalla guerra. Siamo qui per l’incontro della nostra civiltà con la vostra che non è certo inferiore alla nostra. Siamo qui per scambiarci il segno della pace». Tornato a casa il professore riceverà molti messaggi di posta elettronica dal Libano fra cui quelli di alcuni esponenti del Partito di Dio per ringraziarlo delle parole di pace e di speranza propalate in tutta l’Arabia dalla televisione. Questa riprende anche l’incontro fra i rappresentanti sardi e Sua Eccellenza Sheik Alì Dagamoush, il “ministro degli esteri” del Partito di Dio. Così lo presenta Talal Khrais. Nella gerarchia degli sciiti viene dopo gli ulema, gli hujjiat, gli ayatollah (ma politicamente è il pezzo più grosso dopo Hassan Nasrallah). Il “grande aya­tollah” può equivalere al papa. Attualmente è l’iraniano Khamenei. Teheran è la caput mundi islamica (sciita).

“Un suo omologo, un suo collega” dice sottovoce il professore all’orecchio di Ouàr. “Un suo intervento è d’uopo” continua mentre Ouàr cerca di schermirsi sorseggiando l’immancabile succo di frutta accompagnato da un dolce che, benché ancora sazi dal pranzo recente, gli ospiti devono mangiare per non offendere chi offre loro una cosa così buona. L’imam è seduto in una poltrona davanti alla parete dove danno vita a un faccia a faccia obliquo le bandiere del Libano e di Hezbollah (gialla e verde come quella dei coltivatori diretti ma al posto della vanga c’è un mitra). Due anni fa c’era solo questa. Forte del ruolo di capo religioso e politico, l’imam ringrazia gli ospiti, a lui molto cari perché da sempre la Sardegna è amica del Libano e della pace. La presenza dei militari italiani non è malvista dal Partito di Dio se, come è, costituisce un deterrente contro l’arroganza guerrafondaia dei sionisti, che nemmeno Obama riesce a domare. Sorvola sul fatto che il suo partito dovrebbe consegnare le armi e i bagagli proprio alla forza di pace dell’Onu.

Se, invece, prosegue Dagamoush, loro, i sionisti, continueranno a minacciare il Libano, Hezbollah sarà costretto a difendere il territorio. La smettano Netanyau e i suoi seguaci di continuare a occupare i territori che non sono loro, di provocare, di minacciare l’uso o di usare le armi. Nessuno vuole la guerra. Il Libano vuole vivere in pace con tutti. Ringrazia, infine, “il santo padre” perché condivide e dice quello che lui ha appena detto e di nuovo gli amici sardi per il loro sostegno alla causa. E preannuncia che presto verrà in Sardegna dove sarà felice di incontrarli di nuovo.

Intervengono tutti in quello che ritengono l’incontro più importante. Ouàr è l’ultimo a parlare e, rifacendosi alle parole dette alla televisione dal professore, dice che fare incontrare le civiltà e gli dei, qualsiasi nome abbiano, uguali per tutti, è un dovere per l’umanità e per chi ritiene che l’uso delle armi sia l’unico modo possibile per far prevalere le proprie idee. Non può esserci un’idea che prevale su un’altra. L’unica accettabile è quella della pace.

Alla fine dell’incontro, i sardi tornano al Casa d’Or con ancora un paio d’ore di tempo prima dell’ultima cena. Talal Khrais propone di chiudere in bellezza un viaggio interessante ma un po’ stressante con un bel massaggio. A un centinaio di metri dall’albergo c’è un ottimo “centro massaggi” dove ragazze esperte ti riportano a nuovo e ti regalano un relax che dura una settimana intera. Quindici minuti di massaggio per soli trenta dollari. La Storia Tesa dice subito di sentire puzza di turismo sessuale. Perciò declina l’offerta. Emme sta male e si vede. Ha un occhio gonfio e un principio di “callentura”, dice in sardo per febbre. Decide di andare a letto dopo aver bevuto un liquido caldo. L’indomani devono alzarsi alle cinque del mattino per essere all’aeroporto alle sei. L’aereo Mea parte alle sette. Ouàr è molto stanco anche lui e un massaggio gli farebbe bene ma non se la sente di fare a piedi neanche cento metri. Il professore e Burt Lancaster accettano.

Il centro massaggi è vicino, cinque minuti a piedi. Davanti all’ingresso illuminato dall’insegna “centre de massages”, Burt Lancaster decide di tornare in albergo. Non è convinto dell’igiene del posto e gli è passata la voglia. Talal entra per primo e presenta l’ospite al titolare dell’atelier, un po’ laboratorio linguistico e un po’ boutique. Il segretario di Assadakah indica una a una le massaggiatrici che sono tutte brave. Ma Soraya, assicura, è la più brava. E anche bella. Il professore si fa persuadere e “sceglie” lei. Il gabinetto dove avverrà il massaggio è piccolo e spartano, ma pulitissimo. Soraya invita il professore a farsi la doccia, a indossare boxer comodi e a sdraiarsi sul lettino da ambulatorio ginecologico. Esce e torna dopo dieci minuti. Il professore giace bocconi. Soraya inizia a spalmargli un unguento e a massaggiarlo. È talmente brava che al professore viene voglia di dormire. Cerca di dialogare con la ragazza (ha non più di trent’anni, occhi scuri, lineamenti mediterranei). Le chiede in inglese come si chiama. Nessuna risposta. Soraya parla solo arabo.

«Me, Henry, and you?». Soraya capisce e risponde ripetendo il suo nome. Il professore prova a chiedere: «Christian or islamic?». «Christian…» poi interrompe l’improbabile seguito perché deve rispondere a “maman” al cellulare. «Soraya – continua il professore –, you are very good at…». Nel frattempo il massaggio è finito, «finish» dice la ragazza e aggiunge «extra?». «Extra?!» chiede il professore correndo seriamente il rischio di fare brutta figura. Con un rapido ma significativo cenno degli occhi, la ragazza fa capire in che cosa consiste l’extra. E aggiunge: «Thirty dollars». Conosce l’inglese il tanto che basta. Il professore è un po’ deluso e un po’ triste. Ci pensa un attimo, prende il portafogli, tira fuori cinquanta dollari e li porge alla ragazza: «Prendili anche senza extra. Soraya, sei molto bella e molto brava. Potresti essere mia figlia. Non è per questo che ti do cinquanta dollari. Ma perché ti voglio bene». Soraya non ha capito quasi nulla eccetto  «I love you, baby» e il colore verde della banconota. Gli dà un bacio e va via sorridente.

A cena ci sono anche Hassan e Mohammed, fedeli alla consegna di fare la guardia del corpo sino all’ultimo minuto. Spiazzano gli ospiti con un ennesimo regalo. Si sono fatti confezionare dai profughi palestinesi di Tiro (bravi nel tessile) magliette in cotone della nazionale libanese, a bande rosse e bianche. Manca il cedro della bandiera ma dietro, sopra il numero, c’è il nome dei figli del professore (Wolfi), di Burt Lancaster (Michael) e di Ouàr (Gianki). Ci sono anche per i figli di Emme e Cieffe. A Emme, inoltre, Hassan ha portato una ceramica, opera dello zio, il fratello di Alì Jaber, sempre presente agli incontri e ai rinfreschi a Yanouh malgrado la disabilità: uno spezzone israeliano gli ha troncato la gamba destra e non può fare a meno della carrozzina. I sardi sono commossi per la fraterna amicizia di Hassan e i suoi pards e, per non darlo a vedere, decidono di fare un’ultima vasca (senza struscio) in Hamra Street. Sul marciapiedi vedono un nugolo di meninos attorno a un suv fiammante. Ouàr dice che è meglio svicolare subito in albergo per evitare l’assalto dei meninos. Burt Lancaster è curioso. Si avvicinano e si fanno largo tra i bambini e qualche adulto. Il portellone del suv è aperto. Dentro giocano sorridenti due bambini perfettamente identici. Ci sono anche i genitori. Il professore chiede ad Hassan chi siano. Sono due divi della televisione giordana. Infatti il padre indossa una sgargiante kefiah rossa. I gemellini, che non avranno più di sei anni, sono i protagonisti di una fiction che, all’ora in cui va in onda, tiene incollata davanti allo schermo tutta la lega araba. Anche l’Iran impazza per loro.

I meninos sono incantati e chiedono soldi e autografi da cui potranno ricavare anche di più vendendoli il giorno dopo sulle strade intasate e ammalorate di Beirut.

Redazione
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