Un ricordo di Elio Pagliarani

«Sperimentatore» o invece «poeta degli operai»? Isolato o tipico esponente delle avanguardie letterarie? Una voce poetica «altissima» del ‘900 italiano o un personaggio minore?

A leggere quanto è stato scritto nei giorni scorsi non sembra esserci un giudizio comune su Elio Pagliarani (morto l’8 marzo a 84 anni) ma probabilmente il disaccordo è anche su cosa sia poesia, letteratura, impegno. E dentro quelle contraddizioni lui stesso ha zig-zagato.

Riassumeva così la sua biografia: «Romagnolo di nascita; padano, anzi milanese per apprendistato sentimentale e non (dai18 ai 33); romano da circa metà della vita». Nel premiarlo con la massima onorificenza cittadina, il Comune di Rimini usò questa impegnativa definizione: «Più di ogni altro poeta italiano del dopoguerra ha dato voce memorabile al disagio della società industriale»

L’attenzione di pubblico e critica iniziò a concentrarsi su di lui nel 1959 con il poemetto «La ragazza Carla», poi con l’antologia collettiva «I novissimi» (del 1961) che, fin dal titolo, ruppe con la tradizione. Pagliarani collaborò con i quotidiani «L’avanti» e «Paese sera», anche come critico teatrale ma soprattutto animò molte riviste importanti (da «Officina» a «Quindici», a «Il verri», a «Nuovi argomenti» e a «Il menabò» oltre a «Periodo ipotetico» da lui fondata).

Fra le sue opere più importanti «Lezione di fisica» nel 1964, il romanzo in versi «La ballata di Rudi» che si snoda (ed è scritta ) nell’arco di 30 anni e che si chiude con versi citatissimi: «Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare».

Etichetta vuole che Pagliarani sia esponente del «gruppo ’63» e della «Cooperativa scrittori». Ma è difficile 50 anni dopo rendere conto delle polemiche su apocalittici e integrati (definizione resa famosa da un libro di Eco), su letteratura sperimentale, antiromanzo o metaromanzo, aura semiologica, mimetici contro oggettuali. Di certo si litigava molto. Se non proprio prendersi a pugni come gli scrittori d’oltreoceano (da Hemingway a Kerouac) in quel periodo qualche intellettuale italiano mise il naso fuori da salotti e castelli. Alcuni non furono nè apocalittici nè integrati ma semplicemente dotati di sguardo critico e impegnati in qualche progetto per migliorare il mondo e non solo l’arte.

Pagliarani ebbe una sua specificità nel raccontare personaggi concreti: amori difficili, fatica del lavorare, sporcizia, soprusi. Come recita «La ragazza Carla», verso la fine: «svolgimento / concreto dell’uomo in storia che resiste / solo vivo scarnendosi al suo tempo». E infatti «Carla Dondi fu Ambrogio» non è una musa o una inquietudine esistenziale ma soprattutto una diciassettenne, apprendista dattilografa, incerta fra scelte piccolo-borghesi e trasgressioni, fra il negarsi del corpo e della sessualità da un lato e dall’altro improvvise esplosioni vitali.

Un’altra caratteristica di Pagliarani era la capacità, condita da piacere comunicativo più che da narcisismo istrionico, di leggere i suoi versi in pubblico: una tradizione che (tolta la Sardegna e poche altre zone) in Italia si è andata perdendo da secoli, respingendo la poesia verso le elites.

Chi conosce, o magari scoprirà in questi giorni, il suo poema – che dal titolo appare cupissimo – «Oggetti e argomenti per una disperazione» dovrà fare i conti quasi subito con una geniale ironia. Per esempio qui: «Faccio una pausa / rileggo questo inizio non è male mi frego le mani / dove c’è un po’ di reumatismo stagionale, sollevo gli occhiali / mi guardo l’occhio allo specchio. Non lo capisco, non so giudicare». Auto-ironia anche, come nella famosa definizione: «siamo in troppi a farmi schifo». Davvero insolito nella scena italiana.

BREVE NOTA

Questa mia recensione è uscita (parola più, parola meno) su «L’unione sarda». (db)

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