Una stella tranquilla

di Andrea Bernagozzi

Erano quasi le sei del mattino del 24 febbraio 1987 quando il ricercatore canadese Ian Shelton, astronomo all’Università di Toronto, controllò le fotografie che aveva ripreso durante la notte di osservazione. In un primo momento fu sconfortato. Si trovava in un ufficio all’interno dell’Osservatorio Astronomico di Las Campanas, in Cile, in cima a una montagna delle Ande a circa 2.400 metri di altezza. Benché appena trentenne, lavorava regolarmente lassù da diversi anni, quindi si poteva considerare un astronomo esperto. Come poteva avere compiuto un errore così marchiano? Una bella ripresa panoramica della Grande Nube di Magellano, una galassia satellite della nostra Via Lattea, era completamente da buttare. Aveva impiegato tre ore per ottenerla, utilizzando un astrografo, cioè un telescopio ottimizzato per le riprese fotografiche, di modeste dimensioni: appena 25 cm di apertura. In mezzo a un grappolo gigantesco di stelle e gas, posto a più di 160.000 anni luce da noi, c’era una bella macchia luminosa che rovinava l’inquadratura. Un errore di esposizione? Un difetto nel meccanismo di puntamento del telescopio? Pur stanco, era lucido a sufficienza per ripercorrere mentalmente tutti i passi che aveva compiuto. Accidenti, era sicuro di aver fatto tutto giusto. Ma se non era un errore, poteva essere un reale fenomeno astronomico?

Come avrebbe poi scritto riguardo a Ian Shelton il fisico inglese John Barrow (https://www.librimondadori.it/libri/le-immagini-della-scienza-john-d-barrow/ ) quello che c’era sulla fotografia era «talmente fantastico da indurlo a fare quello che gli astronomi dell’era tecnologica non fanno più molto spesso: si precipitò fuori a guardare il cielo». Sì, perché gli astronomi moderni, fin dall’introduzione della fotografia chimica, quella con lastre e pellicole, e ancora di più con la fotografia digitale, quella dei sensori di silicio, studiano il cielo con la mediazione di macchinari complessi: sono telescopi e camere fotografiche speciali gli occhi dell’astronomo di oggi. Fuori, all’aperto, sotto la meravigliosa volta stellata che sovrasta il deserto di Atacama, il giovane astronomo non credeva a quello che vedeva. La foto era vera. Lassù, nella Grande Nube di Magellano, c’era un brillante puntino di luce, chiaramente visibile anche a occhio nudo! Data la grandissima distanza, milioni di miliardi di km, doveva essere una stella luminosissima. Una stella NUOVA? Comparsa all’improvviso e così potente, piuttosto doveva essere una stella VECCHIA che era esplosa, spegnendosi in un gigantesco e violento fuoco d’artificio cosmico, emettendo in una frazione di secondo tanta energia quanto miliardi di stelle normali tutte insieme. Un fenomeno, tecnicamente noto come supernova, molto spettacolare e ancora più raro. Shelton sapeva bene che era dai tempi di Galilei e Keplero che nessun essere umano aveva visto una supernova a occhio nudo. Quasi quattro secoli dopo, dopo quei giganti dell’astronomia, era toccato a lui. Uno storico, unico privilegio.

Shelton si riprese, tornò dentro e attivò il protocollo previsto in questi casi. Con le tecnologie telematiche dell’epoca, informò tutti gli astronomi del mondo dell’incredibile fenomeno. Ufficialmente, fu il primo a dare comunicazione dell’evento. In realtà quella luce era già stata notata, un paio d’ore prima e sempre a occhio nudo, anche da Oscar Duhalde, tecnico e assistente proprio all’Osservatorio Astronomico di Las Campanas: forse non si era fidato della sua impressione e aveva tardato a riferirla al collega. In Nuova Zelanda l’astrofilo Albert Jones aveva osservato quella zona di cielo nella stessa notte e notò anch’egli l’intruso astronomico. Successivamente si scoprì che altri l’avevano fotografata, ma se ne erano accorti solo dopo aver sviluppato lastre e negativi (sì, era quell’epoca lì). Oggi Shelton, Duhalde e Jones sono considerati gli scopritori della supernova, la prima osservata nell’anno 1987 e perciò indicata come SN 1987A. Dalla posizione si comprese che la stella esplosa doveva essere quella nota nei cataloghi come Sanduleak-69° 202a, una supergigante blu con una massa circa venti volte quella del Sole; fu calcolato che l’esplosione era stata registrata sulla lastra fotografica quando erano ancora le undici di sera del 23 febbraio 1987, ora di Greenwich, quindi questa è la data dell’osservazione (in realtà la stella era esplosa 160.000 anni prima, ma la sua luce raggiunse la Terra dopo un lunghissimo viaggio nel vuoto intergalattico). Da allora, ciò che resta del cadavere stellare, particelle di gas e polvere scagliate nello spazio, è stato studiato con tutti i telescopi più importanti, dalla superficie terrestre e dallo spazio, con continuità. Recentemente è stato pubblicato uno studio, compiuto da un team guidato da ricercatori italiani, che cerca di comprenderne l’evoluzione e i processi chimico-fisici coinvolti (https://www.media.inaf.it/2019/02/06/quarantanni-con-gli-occhi-puntati-su-sn-1987a / — anche se in realtà sono poco più di trent’anni!).

Una vicenda simile a quella di Shelton e Duhalde era stata narrata da Primo Levi sul quotidiano La Stampa del 29 gennaio 1978, nel racconto intitolato Una stella tranquilla. Il famoso scrittore – ma anche chimico e ricercatore di professione – era un grande appassionato di astronomia. Il saggista Stefano Levi della Torre così riassume il racconto (http://istitutobrunofranchetti.gov.it/liceo/wp-content/uploads/2012/11/Levi-della-Torre.pdf ): «[…] una lontanissima stella, dieci volte più grande del sole, e per miliardi di anni quieto baricentro del suo sistema di pianeti, diventa inquieta ed esplode, per un processo che la scienza ha osservato ma non chiarito. L’immane cataclisma, tra i “più brutali fenomeni che oggi alberga il cielo”, viene registrato da un astronomo andino come anomalia quasi impercettibile, le cui conseguenze saranno quelle di interferire nei suoi rapporti con la moglie e i figli» . A circa 2.900 metri di quota, simile a quella di Las Campanas, lavora Ramón Escojido, giovane astronomo peruviano, sposato all’austriaca Judith e padre di due figli. Vivendo in un luogo così isolato, aveva promesso loro che avrebbero fatto una gita insieme e quel giorno era finalmente arrivato. Ma ora, controllando le lastre fotografiche nell’ultima settimana, mentre la famiglia festeggia già l’uscita preparando borse e vestiti, Ramón nota, scrive Primo Levi, «non gran che, un puntino appena percettibile, ma sulla lastra vecchia non c’era» . Non la macchia di luce di Shelton, ma forse nemmeno un po’ di polvere oppure un difetto nello sviluppo. Una stella che mai aveva suscitato l’interesse degli studiosi, che appunto appariva tranquilla, potrebbe aver sorpreso tutti con una mortale esplosione improvvisa: «sussiste anche la minuscola probabilità che si tratti di una Nova, e bisogna fare rapporto. Addio gita: avrebbe dovuto ripetere le foto le due notti successive. Cosa avrebbe detto a Judith e ai ragazzi?» .

Il racconto – per Stefano Levi della Torre – è un esempio della tecnica del rovesciamento ironico del punto di vista tipico di molte opere di Primo Levi. Una catastrofe cosmica, un stella che distrugge un intero sistema planetario, diventa un puntino quasi insignificante, il cui primo effetto è mandare a monte la gita di una famiglia e probabilmente provocare un banale litigio fra moglie e marito. Avesse almeno annunciato la nascita del Salvatore, come nel racconto La stella del britannico Arthur C. Clarke! Questa capacità di straniamento, questo ribaltamento della narrazione e del senso di quello che viviamo è forse uno degli elementi che ha permesso a Primo Levi di sopravvivere all’esperienza del campo di sterminio. Intellettuale riconosciuto come uno dei più importanti scrittori mondiali del XX secolo, non solo come testimone della Shoah, ma anche come autore completo, anche lui sembrava aver trovato, se non proprio la pace, almeno un compromesso con la memoria di ciò che aveva vissuto. Sembrava tranquillo come quella stella, forse, anche quel giorno di aprile in cui invece morì, cadendo nella tromba delle scale della casa dove abitava, forse per un malore, forse per un turbamento più profondo che lo portò a una scelta consapevole e definitiva. Personalmente, non ho i mezzi per approfondire una questione così complessa, né ci tengo a farlo. Segnalo che proprio quel racconto dà il titolo a una delle più originali biografie di Primo Levi, Una stella tranquilla. Ritratto sentimentale di Primo Levi, a fumetti, realizzata nel 2014 da Pietro Scarnera (http://www.comma22.com/una-stella-tranquilla/ ) che sa riflettere sulla vita e anche sulla morte del grande scrittore con delicatezza e umanità davvero rare, forse ancora più dell’esplosione di una supernova nella Via Lattea. Infine noto che era il 1987, lo stesso anno in cui quella stella nella Grande Nube di Magellano, apparentemente tranquilla, all’improvviso decise di far sapere al mondo, anzi al cosmo intero che c’era anche lei, proprio nel momento in cui chiudeva la sua esistenza. E mi chiedo che cosa possa aver pensato Primo Levi leggendo di questa notizia, sulle pagine dei giornali e delle riviste di divulgazione.

L’IMMAGINE

Speriamo che Andrea Bernagozzi perdoni “la bottega” se per illustrare la sua “scor-data” abbiamo scelto la copertina di un libro di Giovanni Bignami. All’interno di “Le rivoluzioni dell’universo” la supernova del 24 febbraio 1987 occupa poche righe ma… il libro di Bignami è appassionante (scritto in modo chiaro, piacevole e persino divertente) a tal punto che ci sembrava il logico suggerimento per chi – “catturata/o” da questo post – volesse continuare ad aggirarsi oltre il cielo.

 

Redazione
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Un commento

  • Andrea ET Bernagozzi

    Caro dibbì,

    figurati se mi offendo ad essere avvicinato a Giovanni Fabrizio Bignami, anzi ringrazio!

    Ciao, Andrea

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