Uno (strano) sbirro di nome Luigi Longo

Ci sono due frasi memorabili in «Lavoro ai fianchi». La prima è a metà libro. Un sovversivo (o un pazzoide, dipende dai punti di vista) arringa così il poliziotto, protagonista del libro: «Veda, lei non ha capito assolutamente un cazzo». Parolaccia a parte (che oggi forse non impressiona più neanche la vecchia zia del paesino) è interessante quella crudezza preceduta dal «Veda». Ma soprattutto siamo a metà libro: l’indagine partita da Roma è arrivata in Sardegna e il commissario Luigi Longo si rende conto che sì, non ne ha azzeccata una. Deve ricominciare da capo.

La seconda frase-chiave è quasi alla fine: «sono cose che si sanno o si sospettano», verità dure a ma che per molti motivi (la ragion di Stato, la paura, una condivisione o forse il frullato di tanti stati d’animo) non vengono dette ad alta voce.

Bene ha fatto Il maestrale a ripescare dall’oblio, dopo 30 anni esatti, questo strano giallo – crudele eppur dolcissimo, beffardo e intelligente – di Marco Lombardo Radice e Luigi Manconi. Insoliti anche gli autori perché il sassarese Manconi nelle sue 100 attività ha scritto molto ma questo resta il suo solo romanzo, mentre il romano Marco Lombardo Radice (morto nel 1989 a soli 40 anni) resta nella memoria per un romanzo che tanti qualificano porno – eppure non lo è – piuttosto che per i suoi scritti importanti di neuropsichiatria e la sua pratica medica che ha ispirato anche un bel film di Francesca Archibugi, «Il grande cocomero».

La nuova edizione di «Lavoro ai fianchi» (256 pagine, 17 euri) si avvale della prefazione di Goffredo Fofi e di tre pagine che Manconi indirizza soprattutto a contestualizzare quel romanzo. Ma entrambi toccano solo di sfuggita un punto centrale: se cioè il libro (uscito quando ancora le Brigate Rosse non erano argomento per tesi di laurea ma bruciante, sanguinosa attualità) riesca anche a dirci qualcosa di più su quegli anni, utilizzando gli stilemi e le metafore del noir, per di più mettendo al centro “uno sbirro”. Che i due autori fossero allora nell’area della sinistra estrema (quella che si riconosceva nello slogan «Né con lo Stato né con le Brigate Rosse») rende particolarmente interessante che il protagonista sia un commissario di polizia. Lo sbirro è guardato con ironia: si chiama Luigi Longo come un importante dirigente del Pci di quegli anni. Sin dalle prime righe è delineato con uno strano miscuglio di affetto e comprensione (anche per le sue umane debolezze) ma anche con orrore; non a torto Fofi nella prefazione ricorda il film «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» con un memorabile Gianmaria Volontè nella parte del capo della Squadra omicidi di Roma. Ma qui non abbiamo uno psicopatico come nel film citato piuttosto un tipico servitore dello Stato, per caso più che per vocazione; lui  si giudica un brav’uomo (e per molti versi lo è) ma rimuove tutto quello che lo inquieta. E’ rimasto prematuramente vedovo e ora non sa bene come entrare in relazione con il giovane figlio. Né un superuomo né un anti-eroe alla Philip Marlowe, semplicemente umano con paure (una sessualità piena di sensi di colpa), passioni (il poeta Ernesto Ragazzoni), radici sarde in parte rinnegate, scoppi di violenza magari subito dopo un’improvvisa tenerezza .

Il libro parte come la sbobinatura di registrazioni (un espediente forse artificioso che per fortuna viene poi sommerso dalla storia) e si conclude con gli omissis (o semplicemente il cattivo audio) di un ultimo nastro dove ovviamente c’è il colpo di scena. Tutta la complessa indagine di Longo alla ricerca di un ragazzo scomparso si intreccia per caso con «la geometrica potenza di fuoco» (così all’epoca venne definita) delle Brigate Rosse: infatti la vicenda inizia il 10 marzo 1978 dunque 6 giorni prima del rapimento di Aldo Moro. L’ora patetico e ora efficiente Luigi Longo più volte intreccerà senza saperlo i brigatisti: anzi entrerà, senza capirlo, nel famoso covo di via Gradoli. La finzione di Lombardo Radice e Manconi più volte interseca i misteri del caso Moro ma anche le ambiguità con cui settori dello Stato affrontarono il terrorismo. E nelle ultime pagine le inquietudini di Longo sono molto vicine a quelle di tante persone comuni, all’insegna del già citato «sono cose che si sanno o si sospettano».

Trattandosi di un giallo sarebbe scorretto riassumere la trama ma buttiamo lì qualche frase a mo’ di titoletti: la paura del ridicolo fa tornare il coraggio perduto; il funerale rivelatore; la brutta storia dei servi pastori torturati; lo scherno del rubinetto rotto; la poesia scomparsa e l’anagramma. Finale tragico con un delitto senza motivo.

Gran bel libro davvero, per nulla invecchiato. Insolito sia nei contenuti che nello stile lievemente ironico con la ricerca di indizi mescolata all’indagine del sé. Caratterizzato da forte politicità. Se il noir francese è abituato a raccontare con efficacia gli intrecci fra i poteri e la criminalità, diritti e delitti insomma, i giallisti italiani sono stati prima troppo esitanti per poi travestirsi da  apocalittici (restando casinari e banali) senza risultare interessanti. Come se la storia recente e antica d’Italia, piena di misteri irrisolti, non aprisse spazi – voragini addirittura – da riempire, spiegare, reinterpretare con una immaginazione “mal-pensante”. Poche le eccezioni. Riletto con l’occhio di oggi «Lavoro ai fianchi» indica strade interessanti illuminate da una scrittura quasi sempre all’altezza delle ambizioni. Insomma anche se Manconi si schernisce (lo scrivemmo fretta e perché eravamo senza una lira in tasca) è un peccato che non ci siano stati seguiti o magari imitatori intelligenti.

Questa mia recensione è uscita il 7 aprile 2010 sul quotidiamo «l’Unione sarda»

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