Ursula Le Guin…

ovvero “Il piacere fuori moda dell’immaginazione”

di Clelia Farris

L’aspetto più anarchico di Ursula Le Guin consiste nel mettere in dubbio perfino lo stesso pensiero anarchico. Mi piace pensare che l’autrice scriva I reietti dell’altro pianeta per mettere alla prova la teoria di una società senza Stato, e per farlo immagina il pianeta Anarres, un luogo in cui non esiste il concetto di proprietà privata, un luogo nel quale non si possiedono oggetti ma si è proprietari del tempo. Descrivendo la vita del protagonista, Shevek, l’autrice sottolinea che “ad eccezione dei lavori e dei soliti incarichi di pulizia del suo domicilio e dei laboratori, il tempo era solamente suo” (1).

Il tempo è ciò su cui lavora Shevek, fisico teorico in cerca dell’ultimo tassello della teoria della Simultaneità, che farà viaggiare l’uomo alla velocità della luce.

Dunque, Shevek è libero e la sua libertà consiste nel possedere il proprio tempo, il tempo del pensiero. Tuttavia, a un certo punto, il suo pensiero si blocca, l’immaginazione gira a vuoto.

L’immaginazione, la facoltà più umana di tutte, è il sostrato naturale delle idee. “Con l’immaginazione”, sottolinea l’autrice, “si può arrivare a formulare la teoria della relatività e si possono mettere le basi di una società nuova”(2).

Anarres non è un pianeta solitario e unico, come la Terra nella Via Lattea, ha un suo gemello, speculare e diverso: il pianeta Urras. Le società urrasiane sono simili alle nostre, capitaliste e autoritarie. Su Urras tutto è comprabile e tutto deve essere comprato, cose e persone. Gli urrasiani utilizzano il lavoro per procurarsi il denaro, indispensabile per accedere ai beni materiali, di prima e di seconda necessità; il possesso dei beni è il fine ultimo della società urrasiana.

Non a caso ho scritto “utilizzano” piuttosto che “usano”.

È nella sottigliezza semantica tra questi due vocaboli, apparentemente sinonimi, che sta tutta la differenza tra i due mondi pensati dell’autrice. Secondo Martin Heidegger usare qualcosa significa dare un senso compiuto all’oggetto usato, realizzarne l’essere, mentre l’utilizzo è un degrado strumentale dell’oggetto, utilizzare qualcosa vuole dire estrapolarlo dal suo fine e alienarlo al proprio essere(3).

Usare un’automobile, per esempio, significa potersi spostare liberamente di molti chilometri; utilizzare lo stesso veicolo vuol dire farlo camminare per cento metri, fino al bar dietro l’angolo.

Su Anarres tutto può essere liberamente usato e perciò nulla è posseduto. Gli effetti personali sono ridotti al minimo, in una semplificazione dell’esistenza che la moderna società occidentale spesso invoca, quale soluzione al caos delle vite individuali, salvo poi trasformarla nell’opportunità di venderci l’attrezzatura da “vita semplice”.

Su Urras il tempo individuale è venduto/comprato per essere impiegato nel lavoro, lavoro che serve per produrre le merci di cui è indispensabile il possesso, e qui il cerchio dell’utilizzo si chiude.

I due pianeti, Anarres e Urras, si ignorano. Si giudicano reciprocamente in modo negativo e ritengono che nulla di buono possa provenire dall’altro, nonostante il fatto che gli abitanti di Anarres siano coloni urrasiani, emigrati dal pianeta madre duecento anni prima. Ciascuno è convinto di essere la migliore società possibile, perciò, pur attuando qualche scambio economico, evitano qualunque tipo di contatto. Le idee non circolano e i bambini anarresiani sono allevati nel ritenere che Urras sia il luogo di ogni egoismo e di ogni malvagità. Ma allora, si chiede il giovane Shevek, perché la società proprietarista non si sfascia?

Nella società dell’uso il poter disporre liberamente delle cose genera la libertà individuale. Gli anarresiani non sono mai “comprati”, il loro lavoro non è “comprato”, e ciò li porta a sviluppare una coscienza e un pensiero estremamente individualisti, secondo le linee teorizzate da Odo, la donna che per prima sognò una società differente da quella dell’utilizzo. Nel saggio La necessità del genere Ursula Le Guin ha sostenuto che “il principio femminile è, o almeno è stato nella storia, fondamentalmente anarchico.”(4) Tale principio valorizza l’ordine sociale senza che vi sia coercizione e si contrappone al modo autoritario e gerarchico di amministrare i rapporti umani, ma alla scrittrice non sono certo sfuggiti i limiti della teoria anarchica.

Shevek arriva a un punto morto, nel proprio lavoro, proprio a causa dell’ambiente apparentemente perfetto in cui vive. Sarà l’amico Bedap, da sempre critico nei confronti della società anarresiana, a smascherare la mutazione negativa della vita anarchica: la società dell’uso ha perduto la capacità di usare, gli scienziati e gli artisti non sono più in grado di generare il nuovo.

Una stasi molto simile a quella dell’odierna società occidentale, che pure è un misto di Anarres e Urras, nella quale si procede rimasticando il già fatto, senza trovare una via diversa, uno sguardo altro che conduca alla nuova società.

Dunque, Anarres è scivolato nella stabilità, nel pensiero fisso, nella conservazione dell’ortodossia. L’abitudine, il grande gorgo di ogni rivoluzione, ha inghiottito la possibilità del cambiamento e sbarrato l’ingresso alle nuove idee. Il timore di innovare, la rigidità, il moralismo, l’imporsi di tutti quegli elementi che hanno invalidato i principi di Odo, costringono Shevek a fuggire.

Shevek decide di recarsi su Urras e la sua partenza è un atto aggressivo, un gesto che spezza la chiusa perfezione di Anarres e perciò più anarchico di qualunque altro. Abbasso l’esistente!(5) dovrebbe essere l’unico vero motto anarchico, mentre l’assenza di distruttività è uno dei limiti di Anarres. Ci sono momenti, nella vita dell’individuo e nella vita della società, in cui il gesto più sano e più vitale consiste nello spazzare via tutto ciò che si è edificato con pazienza e che si è tramutato, da espressione di sé, in gabbia e corazza. La società anarresiana, così attenta a contenere le strutture di governo, così pronta a rintuzzare i personalismi, congela la violenza in nome dell’armonia, dimenticando che la vita stessa è violenza all’entropia.

Shevek giunge su Urras, un allontanamento che somiglia all’odierna “fuga di cervelli”, e scopre che perfino il pensiero e le idee sono una proprietà, che può essere venduta e comprata, e che deve essere utilizzata, per giustificare la perdita di tempo lavorativo che comporta l’immaginazione.

Gli scaltri urrasiani non sospettano che Shevek è lì per usarli. Infatti riuscirà a ritrovare la propria immaginazione, a pensare le equazioni che completano la teoria della Simultaneità e anche a comprendere i motivi che tengono coesa una società fondata sulla compravendita del lavoro.

Come il suo protagonista, Ursula Le Guin auspica un’integrazione al posto della separazione. Incontrando gli abitanti del pianeta gemello, Shevek scopre le somiglianze tra anarchici e proprietaristi capendo che alla base di entrambe le forme sociali c’è il piacere. Il piacere di compiere bene il proprio lavoro, il piacere di applicare la tecnica in modo intelligente, il piacere di sentirsi utili alla comunità. Marcuse scrisse che solo riappropriandoci del piacere riusciremmo a fare del lavoro un gioco, e solo nel gioco l’essere umano non è sottomesso alle regole degli oggetti su cui esercita il potere.(6)

Come Shevek, anche noi contemporanei dovremmo fuggire.

Dall’abitudine, dalla pretesa di comprare il pensiero e le idee, dalla palude del sentire e del vivere. Oppure dovremmo restare e distruggere l’esistente, per poi costruirne uno nuovo. In questo l’opera della fantascienza, e di una scrittrice come Ursula Le Guin, è divinatoria. Perché distruggere serve a poco, se prima non si è riflettuto sul futuro, sulla direzione da prendere, su quello che vogliamo fare della nostra vita, singola e collettiva. Serve a poco, se non si ritrova il piacere fuori moda dell’immaginazione.

PS: il titolo mi è stato suggerito dall’articolo L’autocrisi di Prosperi di Daniele Barbieri, pubblicato nel suo blog in data 22 marzo 2011.

Nota 1 – U. K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta, Editrice Nord, 1976.

Nota 2 – U. K. Le Guin, “Perché gli americani hanno paura dei draghi”, in Il linguaggio della notte, Editori Riuniti, 1986.

Nota 3 – M. Heidegger, “Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna” in Che cosa significa pensare? Sugarco Edizioni, 1971

Nota 4 – U. K. Le Guin, “La necessità del genere” in Il linguaggio della notte, op. cit.

Nota 5 – R. Bacchelli, Il diavolo al Pontelungo, Mondadori (varie edizioni).

Nota 6 – H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, 1967.

SPIEGAZIONE (AUTO)CRITICA

Ringrazio moltissimo Clelia Farris per questo appassionato intervento, che davvero si muove sul labile confine fra mondo cosiddetto reale e altre società possibili. Tempo fa avevo chiesto a un po’ di amici e amiche se avevano voglia di festeggiare il compleanno di “zia” Ursula (che cade il 21 ottobre). Molti “sìììììììììì” ma poi tutte/i ci siamo fatti risucchiare da Urras, da Anarres o – peggio – dal terzo pianetucolo di un periferico sistema solare. Per fortuna Clelia ci regala questo. Ricordo a chi passa da qui senza conoscere I reietti dell’altro pianeta che il sottotitolo già poneva il problema, infatti era Un’ambigua utopia. Il personaggio di Odo torna in alcuni racconti e per ammissione della stessa Le Guin (se la memoria non mi tradisce lo dichiarò in una intervista) è ricalcato su Emma Goldman. (db)

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