Valentino Parlato: «La rivoluzione non russa»

una recensione condita di riflessioni e qualche lacrimuccia

Il quotidiano «il manifesto» sta esplodendo e/o implodendo. Persino le persone più distratte sanno che ieri nella prima pagina del quotidiano «comunista» (così si legge sopra la testata) Rossana Rossanda annuncia che non collaborerà più al quotidiano che fondò nel 1971 e aggiunge: «un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito www.sbilanciamoci.info».

Io sono arrabbiato con la redazione per molte ragioni (che magari spiegherò un’altra volta) ma – del tutto incoerentemente? – continuo a sostenerlo, a pensare che (se non finisce nelle mani di un padrone però) pur con tutti i suoi difetti sia una lettura necessaria di questi brutti tempi. Addirittura ho preso dall’editore Manni 25 copie del libro di Valentino Parlato «La rivoluzione non russa» (sottotitolo «Quarant’anni di storia del manifesto», a cura di Giancarlo Greco: 188 pagine per 14 euri) e le ho già vendute, con lo sconto: anche questi pochi soldini – così hanno deciso editore e autore – andranno a rimpinguare le casse del quotidiano; o meglio finiranno forse in una grande “colletta” per tentare di ricomprare, in modo collettivo, il giornale quando i curatori fallimentari indiranno “l’asta”.

Ho preso le 25 copie “al buio” (beh, so bene chi è Parlato) e dunque in questa sorta di recensione devo anzitutto dire se sono rimasto deluso. No, il libro è proprio come «il manifesto» cioè pieno di pregi e difetti ma comunque unico nel suo genere; con Parlato sono a volte d’accordo e qualche volta invece mi fa inferocire.

Leggetelo per favore. E non solo per solidarietà.

Forse la frase-chiave del libro, la speranza irriducibile, è a pagina 96: «Cadere 7 volte, rialzarsi 8». Almeno io spero sia così.

In sostanza il libri è una lunga intervista, divisa in 7 (saranno mica le 7 cadute?) parti, cronologiche con frequenti flashback e flashforward. Si inizia con «Praga è sola» cioè «La nascita della rivista» e la radiazione (non l’espulsione) dal Pci. Il secondo capitolo, «Piazze piene e urne vuote», racconta «il quotidiano e le elezioni politiche del 1972» seguito da «Il Pdup per il comunismo» ovvero i dubbi su un «giornale o giornale-partito». Il quarto capitolo si chiama «L’album di famiglia» e ragiona «dagli anni di piombo alla manifestazione del 1994» (ovvero un 25 aprile anti-berlusconiano). Nel frattempo è arrivato il 1989, per qualcuna/o significa «il comunismo è morto»; nel quinto capitolo Parlato commenta «il manifesto a cavallo della caduta del muro di Berlino». Sesto e penultimo capitolo: «il bacio del rospo», inteso come governo Dini, con il sottotitolo «dall’avvento di Berlusconi al sequestro Sgrena». Per finire con «Senza confini» ovvero quanto è difficile «il futuro del manifesto e della sinistra».

Può darsi che questa ricostruzione faccia arrabbiare qualcuna/o perché privilegia alcune persone e scelte, dimenticandone altre. Sui primi anni non saprei dire perché io militavo altrove e leggevo «il manifesto» occasionalmente. Dalla fine di «Lotta continua» invece è diventato il mio quotidiano di riferimento e dagli anni ’80 in poi ho cominciato a collaborare: per quel che so, Valentino Parlato non omette o censura questioni importanti. Certo è il suo punto di vista: come lui stesso scrive (pagina 56) era «il più moderato del gruppo»; la Rossanda avrebbe su molti passaggi giornalistici e politici uno sguardo diverso, come lo aveva indubitabilmente avuto il graffiante e geniale Luigi Pintor (per fermarsi al trio più “resistente” dentro il quotidiano).

Quel che mi ha personalmente colpito – ecco le lacrimucce – è il finale ma prima di arrivarci voglio, a gran velocità, accennare alcune pagine particolarmente interessanti.

Forse molti lo hanno dimenticato ma, quando nacque, il quotidiano trovò un muro di insulti: «estremisti» urlava «Il corriere della sera» (dal suo punto di vista non aveva torto) e «pagati dalla Confagricoltura» accusò, senza alcuna prova, «L’unità». Altro punto spesso sottovalutato è «l’egualitarismo» dentro il giornale: «con la rotazione delle mansioni per cui anche un redattore doveva occuparsi a esempio delle spedizioni e con gli stipendi uguali per tutti».

Un paio di errori scappano anche alla ferrea memoria di Valentino Parlato. A esempio la «strategia della tensione» non viene inaugurata il 17 maggio del 1972 (con l’assassinio del commissario Calabresi) ma ben prima: quando nel 1969 iniziano a scoppiare le bombe con la strage – il 12 dicembre – di piazza Fontana e il tentativo (costruito a tavolino ma fallito) di incolparne gli anarchici. L’espressione fra l’altro è l’intelligente parodia della frase, allora di uso comune, «strategia dell’attenzione» per indicare che una parte della Dc cominciava a ragionare su una qualche apertura al Pci.

Altro errore che ha dell’inverosimile (la fretta di fare uscire il libro?) è datare al 1986 «l’anno in cui Psichiatria Democratica ottenne la chiusura dei manicomi».

Se il libro capita in mano a persone giovani sarà utile ricordare che il «referendum» del quale si parla nel secondo capitolo è quello indetto per abrogare il divorzio (vinse nettamente il «no», dunque prevalse lo schieramento di chi era contrario al fronte abolizionista dei catto-fascisti). Invece il «Verisco» (a pagina 65) è il tenente colonnello dei carabinieri Antonio Varisco ucciso dalle brigate Rosse il 13 luglio 1979. Quanto allo scandalo «Stravinsky» (citato a pagina 71) il musicista non c’entra: se la memoria non mi tradisce il riferimento è allo scandalo Stavisky del 1934. Vaghissimo il riferimento (pag 141) agli «scioperi della polizia». In tutti questi casi qualche nota a piè di pagina avrebbe aiutato chi legge.

Divergo in partenza sul rapporto amore-odio con il Pci. Ci sono poi alcuni giudizi lapidari di Parlato (per esempio sul movimento del ’77) che non mi convincono e mi spiace invece che non abbia dato rilievo alla coraggiosa campagna de «il manifesto» contro gli arresti del «7 aprile» (1979) e il «teorema Calogero». Nel complesso però la radiografia del cosiddetto «album di famiglia» è interessante.

Egualmente valida è l’analisi sulla cosiddetta «morte» del comunismo («questa constatazione andrebbe estesa anche al capitalismo» scrive Parlato). Ed è qui che viene ricordato il proverbio francese «cadere 7 volte, rialzarsi 8». Ma soprattutto va sottolineato un punto: quando crolla il Muro «la sinistra italiana è colta di sorpresa: il manifesto, che aveva denunciato per primo in Italia stalinismo e socialismo reale, non poteva che gioire del crollo dei regimi. Tanto più che avveniva in maniera incruenta. Ma la soddisfazione era accompagnata da enorme preoccupazione per la resa condizionata al capitale con cui stava avvenendo». Pintor scrive: «La morte del comunismo è, come la morte di Dio, una di quelle formule idiote che non significano niente […] Gli ideali possono oscurarsi ma non morire: il comunismo è un ideale, un’utopia razionale di libertà e di eguaglianza che accompagnerà e motiverà la vita individuale e sociale, e troverà sempre nuove espressioni finché il mondo non uscirà dalla preistoria». Ricorda giustamente Parlato che «i regimi dell’Est non avevano incarnato alcuna prospettiva comunista» e su quello si era consumata infatti la rottura con il Pci. E sull’incapacità di fare «la distinzione tra comunismo ed esperienza storica del socialismo reale» si consuma il disaccordo con Occhetto e i suoi amici che Parlato qualifica «una classe dirigente di burocrati avulsi dal Paese» mentre Rossanda in un editoriale parla di un partito con «antica abitudine poliziesca» (verso i dissidenti) e «permanente incapacità di capire l’altrui autonomia».

Sorvolo inevitabilmente su molti passaggi storici successivi ma accenno all’analisi feroce del liberismo – che Parlato cataloga come un’utopia fallita – e della paura, «la merce che si vende meglio». L’analisi inevitabilmente deve far tappa per «la sinistra italiana che conosciamo è morta», frase d’apertura di un famoso editoriale che poi proseguiva «quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco» e nel finale auspicava una nuova «internazionale […] il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Ancora una volta la firma era di quel Pintor che, a ragione, Parlato ricorda così: «Luigi le parole le modellava e le manovrava, come il fioretto e l’obice, a seconda delle circostanze».

Poco centrato (o almeno parziale, incompleto) mi pare l’identikit che Parlato traccia a pag 84: «Il lettore del manifesto non è l’operaio ma un medio-piccolo borghese colto, arricchitosi negli anni del miracolo (economico) che vota comunista ossessionato dalla fragilità del proprio successo sociale e sperando in uno Stato garante di stabilità e di uguaglianza». Punti di vista comunque. L’arcipelago de «il manifesto» è così vasto da includere chi lo compra solo il sabato (perché c’è il supplemento «Alias») e chi il sabato non va in edicola (proprio perché c’è «Alias»).

Parlato cita una frase, riferita a un altro periodo storico, che vale ancora oggi: «Per difficile che possa parere, perché la fantasia politica è scarsa, vogliamo essere l’ embrione di una società politica aperta».

La chiusura del libro – lo ripeto – mi ha commosso: «Le ripetute crisi del manifesto mi hanno ricordato il mito di Anteo. Il combattivo gigante […] vinceva perché tutte le volte che cadeva per terra (la Terra era sua madre) riprendeva le forze e batteva l’avversario. In tutte le ripetute crisi del manifesto la Madre Terra sono stati i lettori compagni […] che sempre ci ha ridato forza. E se Ercole ci solleva da terra per strangolarci, si sollevi la Terra pur con tutte le critiche e i rimproveri che meritiamo […] ».

E viceversa: per non venire strangolato Anteo-manifesto deve ricordare da dove viene (può venire) la sua forza.

 

UNA DOVEROSA (BIO)-NOTA

Onesto sì, cerco di esserlo ma oggettivo, imparziale, obiettivo per carità no. Così – a chi non mi conosce e passa di qui – preciso che ho lavorato per anni a «il manifesto»: in tandem con Riccardo Mancini (la firma era Erremme Dibbì) sulle pagine culturali negli anni ’80 e nel decennio successivo soprattutto come corrispondente dall’Emilia-Romagna. Mi sento parte, in piccolo, della sua storia e dunque mi angoscia quello che sta accadendo. (db)

 

Redazione
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19 commenti

  • A Daniè, lassa perde. Il giornale è ridotto a uno schifo, e, a quanto ne so, manco quelli che hanno “rottamato” la vecchia guardia sono disposti a metterci il TFR per comprare la testata. Che me ne faccio di un giornale dove Vauro e Rossanda sono così schifati da scappar via. Dove le migliori firme chiedono di essere messe in cassa integrazione a zero ore perchè lì non ci vogliono più entrare.
    Di un giornale che mi propina un pezzo sull’intervento di Calogero (il giudice) a un convegno, senza dire una parola su chi è Calogero ? Dove i migliori articoli vengono scritti da esterni. Dove la Collotti scarica i pezzi da internet e li firma come suoi !!! Dove le pagine culturali non le capisco io che ho una laurea, figurati un operaio ! Dove le pagine culturali sono il triplo di quelle sul lavoro ?? Dove di lunedì mi fanno un numero speciale sulle primarie, ma non sulla riforma delle pensioni, sull’art. 18 o su qualche argomento serio.
    E’ un peccato, lo so, anch’io sono sentimentale. Ma forse è meglio che chiuda piuttosto che continui a sputtanarsi.

  • Francesco Cecchini

    Avendo vissuto ad Algeri ho dei compagni algerini anche su Facebbok del Parti des Travailleurs della compagna Louise Hannoune, che a fine del 2008 conosco. Il partito e’ criticabile come tutto, ma e’ sincero. Alle ultime elezioni benché vittima di imbrogli elettorali , elegge 20 deputati di cui 10 donne. Alle prossime elezioni con grandi sforzi cerca di essere presente in tutte le città del paese per un Algeria migliore. Bene nello stesso giugno non e’ Giuliana Sgrena che conosce l’ Algeria che commenta le elezioni, ma Kaim Metref un algerino il cui risentimento vela lo sguardo. Poco prima definisce alla sua morte il compagno Ben Bella un disonesto rinnegato. Nel suo articolo da un’ immagine distorta di un paese che pur con i suoi limiti e contraddizioni e’ una realtà positiva nel Magherb, basti pensare all’ appoggio alla lotta di liberazione del popolo saharawi. Bene Metref descrive il Parti des travailleurs un’ organizzazione fantoccio, di chi? Dell’ FLN, di Bouteflika? Non si capisce bene, ma e’ una menzogna. Di Metref me ne importa un’ accidente. E’ impermeabile a critiche, mi sono gia’ confrontato con lui su Ben Bella. E’ il padrone di una verita’ sua. Ma de Il Manifesto mi interessa, sono stato un militante quando non era diventato PDUP, conosco il gruppo dirigente, Rossanda e Magri, leggo il giornale dal primo numero anche se non sono d’ accordo con molte cose che scrive, lo rispetto comunque. Invii due o tre lettere alla redazione per una rettifica, ma invano. Ho l’ email di Valentino Parlato, so come arrivare alla segretaria di Rossana Rossanda, scambio opinioni, sull’ India con Marina Forti, ma preso da altre cose non insisto. E’ un episodio, ma significativo. L’ immenso addio di Rossana Rossanda, e’ anche il mio piccolo addio. Le vignette di Vauro so dove guardarle, così’ dove leggere Giuliana Sgrena e Rossana Rossanda. Marina Forti che ultimamente ha pubblicato un bel libro sull’ India credo abbia un blog o un sito, comunque le inviero’ un messaggio. Addio Il Manifesto!

  • avendo diffuso Il Manifesto quando era ancora un settimanale e anche dopo quando diventò quotidiano e quindi anche perchè militavo nel Pdup essendo “persona informata dei fatti” beh non piango mica. E’ la fine di un equivoco protattosi per troppo. Più che “quotidiano comunista” sarebbe più giusto che sulla testata ci fosse “quotidiano della Terrazza” intendendo io famoso film in cui si dipanano le vicende un pò misere di una consorteria di mezzi burocrati falliti dall’irresistibile vocazione e cultura piccolo borghese. Insomma tanta “puzza sotto il naso” poca sostanza e con un seguito al limite del ridicolo. Un quotidiano “romano” nel senso più cialtrone e supponente del termine ed infatti più letto dai burocrati statali che da operai ed anche i primi perchè glielo mettevano nella mazzetta e quindi a gratis. Il Manifesto si è retto per un pò esclusivamente per i finanziamento pubblico non certo per le copie vendute. Artificialmente insomma. Che chiuda mi sembra quindi una buona notizia. Come una tassa in meno.

  • Rispetto ovviamente tutte le opinioni e c’è del vero anche nella “cattiveria” di questi tre interventi. Io però continuo a credere che sia utile avere un giornale dove Gabriele Polo (in questi giorni) o Loris Campetti vanno in giro per fare eccellenti inchieste, dove scrivono Sandro Portelli, Guglielmo Ragozzino, Marina Forti ma anche Marco D’Eramo e Rossana Rossanda (sino a pochi giorni fa, ora non più) o esterni come Gian Paolo Calchi Novati (che con molte buone ragioni si arrabbia spesso per certe sciatterie in redazione) oppure quel Luca Fazio che una sentenza voleva imbavagliare; dove scrivono (troppo poco però) Maria Grazia Giannichedda, Marco Cinque, Luisa Betti solo per fare qualche nome. Dove trovo buone corrispondenze dall’America Latina (e, più raramente, dall’Africa), le traduzioni di Eduardo Galeano e, una volta al mese, “Le Monde diplomatique”. Forse a qualcuna/o pare poco o niente; a me sembra molto… almeno di questi orribilii tempi. Certo si potrebbe e si dovrebbe fare di più, di meglio; scrivere in modo comprensibile (è il mestiere del giornalista, altrimenti si è uno “specialista”); dar voce alla società invece di discutere su ogni stronzatina nei Palazzi; raccontare di più il lavoro e il non-lavoro; cercare più notizie (dal basso) e meno commenti (dall’alto), spiegare chi è Calogero certametne; ascoltare i circoli organizzati; recuperare il filo di una informazione scientifica critica (senza cadere nella pessima forbice apocalittici o integrati); e molti ecc. Anche, forse soprattutto, scavare di più nelle ragioni di una rabbia che monta e, di certo, prima o poi esploderà… anche se probabilmente senza una adeguata organizzazione e coscienza, alla disperata. Come in effetti stiamo diventando: disperate e disperati. (db)

  • Sono chiamato in causa in questo dibattito nel quale centro poco.
    Non che non m’importi niente del manifesto. Mi ricordo, quando negli anni novanta cominciai a frequentare l’Italia, quanto fui piacevolmente sorpreso di trovare ancora (quando la stampa internazionale strombazzava che il comunismo era morto) un “quotidiano comunista” nei chioschi accanto ad un altro che recitava: “fondato da Antonio Gramsci”.
    Capì presto che quello fondato da Gramsci portava quel nome solo come alcuni ragazzi portano Il Che sulle loro magliette, perché fa figo.
    Ma al “quotidiano comunista” rimase abbastanza attaccato anche se come a tutti mi faceva arrabbiare per vari motivi. Vederlo morire è triste. MA forse tutti i mali non vengono per nuocere. forse era già morto da tempo. E l’accanimento terapeutico che l’ha mantenuto nello stato semi-vegetativo in cui è immerso da anni non ha fatto che rimandare la fatalità.
    Ma questo attaccamento al Manifesto e il fatto che io ogni tanto abbia scritto qualche pezzo sopra non rende la mia figura così centrale nella vita e la morte del Quotidiano.
    @Francesco Cecchini. Il tuo commento sulla mia persona occupa più della metà del commento su un articolo che parla del manifesto. Finisci dicendo che te ne freghi di me. Credo che sarebbe buono mettere in atto questo tuo pensiero e dirigere le tue fissazioni su cose e persone più importanti di me. da parte mia non spenderò una riga di più per te.

    • Francesco Cecchini

      Il tuo caso: la pubblicazione su Il Manifesto di un articolo che calunnia le Parti des Travailleurs e’ solo uno dei tanti esempi di cosa si sia ridotto il giornale negli ultimi tempi. Tutto sommato ha un’ importanza relativa. Nel Parti des Travailleurs ti conoscono ed inoltre sanno de Il Manifesto in caduta libera e con pochissimi lettori. Caso anche per me chiuso.

  • Mauro segnala un’intervista a Rossanda (uscita su “Pubblico” del 17 novembre, potete leggerla sul sito). Troppo breve a mio parere ma con spunti interessanti.

  • Francesco Cecchini

    La verità a volte e’ cattiva. Attenzione Marco D’ Eramo come Rossanda ha lasciato. Buoni giornalisti ancora vi scrivono. Marina Forti, per esempio. Colgo l’ occasione per invitare alla lettura del suo IL CUORE DI TENEBRE DELL’ INDIA , pubblicato recentemente da Bruno Mondadori.

  • Francesco Cecchini

    L’ interviste di Marco Berlinguer sono tra le cose migliori di Pubblico. Anche quella di oggi a Bertinotti.

  • C
    Caro DB una volta si considerava non la bontà del dialogante ma se diceva delle cose fondate o no. Per il resto…trovo molto singolare che qualcuno scriva sugli operai e proletari senza che questi se lo filano anzi qualcuno direbbe a dispetto di loro ovvero con i loro soldi ma senza laloropartecipazione. Quando ciò dura da circa 30 anni beh qualche domanda sarebbe opportuno farsi. Anche Pubblico: ogni giorno in edicola sono copie in meno

  • PS: la questione teorica -perchi è appassionato e maniaco della critica-critica emulo di Bruno Bauer und consorten- è la seguente: la coscienza esterna è mai stata valida -lo è tuttora od è invece oggi una insopportabile espropriazione?

  • MI SCRIVE Gianmarco Martignoni, POSTO E RISPONDO

    Poiché condivido il bel contenuto dell’intervento di Alexik65 , credo che se Il Manifesto sopravviverà sarà il caso – di concerto con Il circolo del Manifesto di Bologna – di avanzare delle proposte per un quotidiano che allarghi il bacino dei lettori, invece di restringerlo, sviluppando un dibattito a tal fine.
    Cosa ne pensa Daniele?

    RISPONDO SUBITO
    immagino che GianMarco si riferisca all’intervento di Alexik del 2 dicembre in blog, in ogni caso: sì certo: se “il manifesto” sopravviverà bisognerà cercare di farne un quotidiano incisivo e non auto.ghettizzato
    (db)

  • su “il manifesto” di oggi (con “Le monde diplomatique”) l’addio di Valentino Parlato: “mi pento di non essermi associato subito alla posizione di Rossanda, cioè di separazione”. Da oggi “il manifesto” è ancor più povero… di storia ma anche della grande capacità di mediazione e progettualità che Parlato ha sempre espresso.

    • Un giornale che lascia calunniare il Parti des Travailleurs algerino senza smentire la grossolana bugia, non merita di essere comprato e letto. Oggi anche Valentino Parlato lo abbandona. Che triste fine. Stasera vado ad ascoltare Michele Giorgio, un ottmo giornalista, che presenta il suo libro Il baratro e la domanda sara’ : per quanto tempo ancora scriverai su quel giornale? Dove potrò leggerti?

  • Su “il manifesto” di oggi un editoriale (che inizia in prima e poi occupa tutta l’ultima pagina) intitolato “Una nuova storia”. Inizia così: “La storia della nostra cooperativa è finita. Entro domani i liquidatori riceveranno le proposte vincolanti di chi è interessato all’acquisto della testata”. Leggo e rileggo: non mi convince e mi rattrista. Leggo e rileggo: aria fritta. Leggo e rileggo: non trovo impegni precisi, parole chiare, sul passato recente, sul presente o (per quel che si può) sul futuro.

  • MIRACOLI FASULLI
    Sulla prima pagina de “il manifesto” il 29 dicembre viene annunciato, con un articolo breve e incomprensibile, nientemeno che un “miracolo”. Si legge che “Il ministero dello sviluppo ha autorizzato ieri ufficialmente l’affitto del giornale alla nuova cooperativa. È un contratto che allontana, almeno per qualche tempo, l’urgenza della vendita della testata”. Illogico e loffio. Ma siccome bisogna essere buoni, mi son detto: “domani spiegano tutto”. Invece il 30 dicembre neanche un rigo. “Segreti e bugie” come nel titolo di un famoso film inglese. Per me è evidente che “il manifesto” per come lo conoscevo, con i suoi pregi e con i suoi difetti, è morto (sto parafrasando un famoso editoriale di Luigi Pintor che annunciava: “la sinistra italiana, per come la conoscevamo, è morta”). Dal 2013 il quotidiano in edicola sarà, almeno per me, un’altra cosa da quello che (ripeto: con i suoi pregi e i suoi difetti) mi ha accompagnato per anni. Sarà possibile – e come? e quando? con chi? – far nascere un nuovo “manifesto”? Se la discussione vi interessa segnalo soprattutto il sito del circolo bolognese cioè http://www.ilmanifestobologna.it/wp/ che è molto ricco (anche d’altro). Da parte mia continuo a credere ai versi di Bertolt Brecht: “Il mondo si muove se noi ci muoviamo / si muta se noi ci facciamo nuovi”. (db)

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