Varley sì e (questo) Herbert no, no, no
Recensioni alle ristampe di «Millennium» e di «Gli occhi di Heisenberg»
Che lavoro fai? «Arraffo». Chi parla non è uno degli 80 – quasi tutti per reati legati al “mettersi in tasca” qualcosa – fra imputati, indagati e condannati che siedono nel Parlamento italiano (riepilogo su «Il fatto quotidiano» del 13 e 14 agosto); perché «l’arraffo» è un importante e rischioso lavoro dalle parti del 99° secolo, ha a che fare con i viaggi nel tempo e… nient’altro dirò perché – si sa – «chi svela le trame poi puzza di catrame». Recensendo la prima edizione su «il manifesto», nel luglio 1986, io e Riccardo Mancini – firmandoci al solito Erremme Dibbì – notavamo che siccome una delle critiche più feroci a John Varley era la mancanza di un finale… qui, oltre ai tempi, l’autore moltiplica punti di vista, scritture e finali.
Urania porta in edicola la ristampa del romanzo «Millennium» (del 1983, traduzione di Antonio Bellomi) di John Varley: 5,90 euri ben spesi per 276 pagine. Ogni capitolo riprende nel titolo una delle storie che affrontano i viaggi temporali; e «che in un modo o nell’altro hanno ispirato questa» scrive Varley nella nota finale. Ne è stato tratto anche un film, nel 1989, che non ho visto.
Il futuro è dei cyborg: «si trapianterà o rivestirà tutto: arti e organi, gambe, reni, occhi». Utilissima la «guainpelle»: «non ci si accorge mai di averla indosso […] è una cosa semiviva e funziona in una specie di relazione simbiotica con quel poco o tanto che resta del corpo». Ma per casalinghe/i (cyborg o meno) con forti stress prezioso risulterà anche il laser che distrugge i mozziconi: «lo so, lo so, adesso vi chiederete che diavolo inventerà la prossima volta la scienza ma vi assicuro che questo sistema fa sfigurare i posacenere».
Visto che siamo dalle parti dei viaggi temporali il libro è strapieno di «time loop» ossia cappi – paradossi se preferite – temporali, con «twonky» – oggetti anacronistici – in sovrappiù (ma «Twonky» è anche il titolo d’un bel racconto di Henry Kuttner). A proposito di paradossi, teorici e pratici, ecco una delle migliori battute del romanzo: «questa teoria è conosciuta come la Teoria del Disgusto Cosmico. Ossia: se intendi metterti a fare di questi giochetti io mi ripiglio le mie cicche e me ne torno a casa. Firmato: Dio». In altri termini: «I viaggi temporali sono così pericolosi che al loro confronto le bombe H sembrano innocui regali da fare ai bambini». A proposito di misurare il tempo qui ci sono orologi così fusi e così pazzi da ricordare un dipinto di Salvator Dalì, quello in apertura di post. Altra battuta memorabile, in qualche modo legata ai paradossi temporali: «Noi disponiamo del libero arbitrio, Louise. Solo che è predestinato». Al riguardo debbo avvisare Paolo di Tarso, Agostino d’Ippona, Pelagio, Lutero, Erasmo, Calvino e Fabrizio Melodia che non autorizzerò in “bottega” commenti polemici. Aperta invece la discussione se noi umani siamo «castori» intenti a distruggere il mondo: a mio parere così si diffamano pesantemente… i poveri castori.
Varley è autore di molti racconti e relativamente pochi romanzi: 11 se non ho perso il conto, gli ultimi 4 non ancora tradotti (perché?). Il suo migliore resta, a mio avviso, il primo cioè «Linea calda Ophiucus» dove Varley – come scrisse Piergiorgio Nicolazzini – «è riuscito a stipare materiali per almeno un’altra mezza dozzina di romanzi» in una struttura che ricorda «Helzapoppin» (film del 1941 ma ancora godibilissimo).
Mi sento di consigliare «Millennium» a tutte/i con l’esclusione di chi lavora sugli aerei e/o vola nel perenne incubo degli incidenti: ho pensato a loro (e a Varley) leggendo, qualche giorno fa, delle ricerche di Abraham Wald (è qui: «Un tortuoso cammino»). Quando incontrerete la frase «da far rivoltare Walt Disney nel suo fluido di criosospensione» forse non capirete la battuta; vi consiglio di non passare oltre… senza avere indagato nel cosiddetto mondo reale dove galleggiamo io, voi e il “congelato” Disney.
Nel lontano futuro del romanzo incontriamo una specie di anarchia «alla fine del tempo» ma anche computer così complessi e precisi che si programmano da soli; «ci sono tuttavia qualità che nessuno è riuscito a piazzare nei (loro) banchi della memoria. Non chiedetemi quali sono. Una potrebbe essere l’immaginazione, un’altra l’empatia».
Due parole su un’altra ristampa, «Gli occhi di Heisenberg» (del 1966: 192 pagine per 6,50 euri) di sua “dunità” – nel senso di «Dune» – Frank Herbert, nella traduzione di Roberta Rambelli. Che c’entra Heisenberg? Herbert si riferisce – in modo improprio – al suo «principio di indeterminazione». L’ho riletto: nei miei ricordi era godibile ma devo averlo confuso con un altro. Invece è una banale, stra-vista distopia, per di più mal scritta e il finale fa cagare. Lo sconsiglio a chi molto ama il ciclo di «Dune» come a chi poco lo apprezza.