Viaggiare domandando

Note di viaggio nel Messico ferito dal terremoto, dalle disuguaglianze, dalla corruzione politica e dalla violenza patriarcale sulle donne. Dalla selva chiapaneca ai ticabus, percorrendo i sentieri aperti dalla ribellione indigena e zapatista, fino ad accompagnare la nuova sfida alle istituzioni della portavoce del Consiglio Indigeno di Governo

di Angela Bellei (*)

Sono agli sgoccioli di un viaggio che non può essere considerato una vacanza. Tre mesi di riscoperta di luoghi già visti ma mai vissuti come in questa occasione nella quale ho cercato di entrare nello spirito e nel corpo di questo popolo. Non ho solo guardato le bellezze naturali, architettoniche (quello che è rimasto dalla violenza del terremoto), ma il contesto in cui mi sono mossa a piedi, sui mezzi collettivi, i ticabus. Poi, fuori dal Chiapas, gli altri stati del sud (Tabasco, Guerrero) tra i più poveri del Messico.
La visione quotidiana è quella di donne, uomini e bambini, principalmente indigeni, camminare per sentieri sostenendo sulla testa cataste di legna da vendere o per accendere il fuoco nei piccoli villaggi dove ancora vivono in capanne di legno, senza energia elettrica, senza sistema idrico, distanti chilometri e chilometri dai principali centri urbani, come San Cristobal de Las Casas o Tuxtla Gutierrez, Tapachula, Comitan o Palenque. Sono immagini che riportano a scene di vita di centinaia di anni fa.
Alzo gli occhi da queste doloranti tracce umane e il cielo è consolante. E’ il grande cielo della selva, con banchi di nuvole rosa appena sfiorate dal sole che si sta alzando dietro la cortina della giungla.
Camminare domandando ci si sente rispondere che il Messico si trova in un processo storico senza uscita che produce una violenza permanente.
L’entrata in scena dell’EZLN il 1° gennaio del 1994, gridando Ya Basta, è stato e continua ad essere un campanello di allarme, che obbliga a ripensare dove si vuole andare, considerando che quella appena descritta continua ad essere una triste realtà attuale.
Il Chiapas è uno stato diviso tra una popolazione indigena che rappresenta il 30% e una popolazione meticcia per il restante 70%.
Tutto il territorio chiapaneco, che ha una superficie di oltre 73 mila chilometri quadrati (incluse piccole e grandi città) risente degli effetti di una massiccia migrazione tra zone rurali, centri urbani e nei suoi 125 municipi.
Senza dubbio in Chiapas negli ultimi 30 anni si è migliorata la rete delle comunicazioni e quella stradale che collega i più piccoli centri abitati (poblado) con le città e le regioni limitrofe. Il servizio educativo, così come quello sanitario raggiungono un numero maggiore di cittadini, come pure il servizio elettrico, telefonico e il collegamento satellitare, ma questo solo nei grandi centri abitati.
Però è ancora incalcolabile la corruzione della classe governativa come altrettanto alto è il dislivello sociale nel quale vive la maggioranza della popolazione.
Sicuramente l’aspetto più grave è quello di una giustizia sempre più permissiva verso i potenti e la ferocia con cui vengono trattati quelli che si trovano in basso nella scala sociale. Omicidi, desaparecidos da parte della squadre paramilitari sono all’ordine del giorno e dalle comunità indigene si scende per manifestare pubblicamente nelle piazze e per denunciare e chiedere giustizia.
L’EZLN, dalla Selva Lacandona invia messaggi chiari sia sugli atti delle violazioni che subiscono gli indios, sia sulle esigenze che ancora attendono risposte: casa, terra, lavoro, cibo, educazione, salute, indipendenza, democrazia, libertà, giustizia e pace. Queste sono state le bandiere dell’alba del 1994 e che ancora sventolano nei caracoles. Queste sono state le richieste per più di 500 anni. Queste sono ancora oggi le loro esigenze.
Il tessuto sociale in Chiapas è lacerato, – dicono gli zapatisti – e deve essere ricostruito. Però coloro i quali si assumono la responsabilità di amministrare la società fanno finta di non vedere o semplicemente fanno finta di non capire il processo futuro e il momento storico in cui stanno vivendo. I campesinos delle comunità continuano così ad essere ancorati, bloccati nel sottosviluppo, come queste donne e uomini incluso i bambini di 4-5 anni, nella loro maggioranza indigeni, che osservo/vedo ogni giorno camminare nei sentieri caricando legna o i raccolti dell’orto da vendere al mercato in sacchi più grandi di loro. Non hanno diritto all’educazione e ai servizi sanitari. Non hanno diritto ad una vita decorosa, degna di una infanzia. Trasportano a piedi scalzi per chilometri in sentieri e viottoli non asfaltati i loro ammalati sorretti su una amaca per portarli a morire in cliniche dove l’unico medicinale che viene somministrato è un antidolorifico… mentre alcuni, pochi, si riempiono le tasche degli 83 miliardi di pesos che ogni anno invia lo Stato centrale in Chiapas per il suo sviluppo…
Intanto la portavoce degli indigeni e dell’EZLN continua il giro degli stati messicani per la raccolta delle firme utili alla presentazione della sua candidatura alla presidenza della Repubblica nel 2018.
Sembra esistere consenso sul fatto che occorre un cambiamento quasi in tutto. La strada non passa necessariamente per le urne. Non quelle che ben conosciamo anche in Italia. Ma le apparenze ingannano, non tutti vogliono il cambiamento. Quelli che hanno il potere pretendono che le cose seguano la propria rotta, così che si arrivi al disastro totale dal quale essi credono di potersi salvare con profitto. Per il resto, tra la maggior parte dei messicani, si va generalizzando la certezza che non ci si può fidare dei partiti né dei loro governi.
I messicani per il cambiamento devono scrollarsi di dosso la rabbiosa ipocrisia: razzismo, misoginia, sessismo, violenza familiare, abitudine alla corruzione, predisposizione a tacere e sopportare.
Con le quotidiane minacce di esproprio, militarizzazione, divisione, espulsione, avvelenamento col contagocce e distruzione dell’ambiente, una parte diffusa di messicani può testimoniare della realtà di vivere aggrediti e della determinazione di non arrendersi. La lotta continua ad essere di classe per colpa non di quelli di sotto, ma di quelli di sopra. Abbondano gli esempi di danni deliberati a causa dell’espansione e dei benefici delle multinazionali. Ad esempio della Coca Cola che, per la sua grande industria, in questi giorni sta sottraendo acqua e territorio nella splendida cascata di Agua Azul, parco nazionale e patrimonio naturale dell’Umanità. Poi la progettata costruzione di un mega centro turistico. Ciò per iniziativa della madre del governatore del Chiapas con la complicità dei narcotrafficanti. In un rapporto del governo dello stato, le autorità messicane incolpano al terremoto passato la deviazione del fiume di acqua blu. La verità, sostenuta da geologi statunitensi, è che si vuole deviare il fiume verso la costruzione di questo centro benessere.
Gli indigeni non ci stanno e sono in mobilitazione permanente per evitare questo scempio. Bloccano le strade, denunciano; con grande fastidio del turismo mordi e fuggi che pretende in un giorno di visitare cascate, siti archeologici, musei, mercatini e negozi per l’acquisto di un souvenir.
Camminare domandando ci si sente rispondere: accaparrano, prevaricano, cooptano, distruggono. L’argento, l’acqua, l’energia, la terra ed il vento, a loro interessano più che la gente ed i villaggi. In quelle comunità indigene e per le loro milioni di menti, la vita non ammette il capitalismo, ogni lotta che intraprendano sarà anticapitalista.
Marichuy portavoce del Congresso Nazionale Indigeno e del Consiglio Indigeno di Governo, punta a questo principio. Non promette, invita a fare. Chiede sostegno esplicito, non voto segreto. Mette enfasi in quello che trasmette. Indigena, donna, madre, attivista, al servizio della propria comunità. Così semplicemente.
Nel Messico patriarcale e violento, per quanto si è visto, le donne rappresentano una sfida, vengono denigrate, ferite ed assassinate per sport. Contemporaneamente, per il Messico classista e razzista gli indios incarnano una sfida che ha dimostrato essere insuperabile. La sollevazione armata dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale 23 anni fa, inaugurò non solo l’esperienza collettiva di autogoverno più duratura e formidabile della nostra storia, ma ha seminato nella coscienza di milioni di indigeni messicani un’impronta che non si dissolve e che culturalmente è cresciuta moltissimo.
Non è favorita. Marichuy è cosciente di non possedere una efficace e tecnologica macchina elettorale e di scontrarsi con l’ostilità di tutti i centri del potere (blocco imprenditoriale, stampa e mezzi di comunicazione del capitale, conservatori ed opportunisti che cercano vantaggi personali nelle istituzioni statali, organismi repressivi dello Stato capitalista, oligarchia governante al servizio del capitale finanziario e dell’imperialismo statunitense, l’abituale invisibilità degli indios, la bassa stima verso le donne quando non servono come carne da cannone, la cecità di fronte alle condizioni obiettive della popolazione rurale e migrante. Marichuy viene da lì ed è lì dove parla. Gli indigeni possono essere solo la quinta parte della popolazione nazionale: ma sono milioni e costituiscono il 25% della popolazione indigena di tutta l’America. L’impatto della loro voce, l’inclusione del loro discorso non elettorale né elettoralistico dovrà raggiungere ampi settori di questo Messico ferito. Lei e la gente che esce al suo passaggio parlano della realtà.
La sua proposta, sorta dai più poveri ed appoggiata da questi e dai più coscienti, non vuole occupare posizioni di potere nello Stato capitalista, ma creare potere popolare cambiando la soggettività delle maggioranze lavoratrici, organizzando e riunendo le forze di queste, elevando la morale e l’autostima degli oppressi per portarli alla lotta sociale e a cambiare il paese.
Il raggiungimento di più di un milione di firme per convalidare la sua candidatura sarebbe già di per sé una grande vittoria organizzativa e politica, perché dimostrerebbe che c’è una grande quantità di messicane e messicani che lottano contro la discriminazione razziale e contro l’oppressione delle donne che, proprio per questo, firmano per fare rispettare il diritto altrui lasciando momentaneamente da parte le differenze di opinione politiche partitiche.
Sarà possibile grazie all’appoggio degli anticapitalisti, come l’Organizzazione Politica dei Lavoratori (OPT), il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (PRT), la Nuova Centrale dei Lavoratori (NCT) ma, soprattutto, dei gruppi organizzati di lavoratori e di oppressi, di democratici coerenti presenti soprattutto movimento di Rigenerazione Nazionale Morena e, in misura minore, tra i simpatizzanti di altri partiti e con l’appoggio militante di vasti gruppi di studenti in tutto il paese che così renderebbero omaggio concreto ai 43 studenti della Normale di Ayotzinapa vittime del terrorismo di Stato.
Dice Marichuy: essere povere, indigene e donne in Messico è una condanna, una firma indelebile sull’essere soggetto escluso da ogni diritto e possibilità. O meglio era così, oggi è diverso. Questa è solo una tappa. Il cambiamento non arriverà mai dall’alto e l’organizzazione delle popolazioni, degli uomini e delle donne è l’unico strumento reale per opporre un’alternativa al dominio del capitalismo e della politica asservita agli interessi economici.

(*) tratto da Comune-info

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