Violenza, risposta a Monica Lanfranco

di Mauro Antonio Miglieruolo

Ritengo che qui, come altrove, vi sia una sovrapposizione di problemi diversi. L’assunzione di un principio etico di per sé, non articolato per fornire risposte concrete a situazioni concrete.

Una cosa infatti è l’etica, ben altra i processi reali attraverso cui la storia prende corpo; attraverso cui gli esseri umani regolano i conti fra di loro. Il principio deve trovare riscontro nella realtà, non può ignorarla, non può non tenerne conto. Il prezzo di questa eventuale omissione è l’inefficacia dei princìpi; anzi, la loro estraneità rispetto le circostanze alle quali li si vuole applicare.

I piedi ben piantati in terra: vi sono dinamiche di trasformazione regressive contro le quali non basta prendere posizione, ma occorre anche l’azione. Ora, il conflitto sociale, non per volontà degli sfruttati e oppressi, è molto più che una guerra. La guerra conosce momenti brevi di sospensione (gli armistizi), quelli più lunghi di interruzione (chiamati periodi di pace); la guerra sociale invece è permanente, senza sosta, coinvolge tutte/i ed è combattuta senza regole. Anzi la sua prima regola non è solo di ignorarle, se possibile, ma anche di eliminarle (eliminare le regole per eliminare la possibilità si costituisca un fronte di resistenza). Inizia con la nascita, con un carico iniquo di handicap per il quale ha senso parlare di peccato originale, il peccato di essere nato all’interno di una certa classe o con attitudini non in linea con le richieste della classe dominante; e finisce con la morte, le cui modalità ugualmente differenziano gli uomini e le donne. Tormenti del vivere e persino del morire: con la possibilità di non porvi termine secondo i propri intendimenti ma come altri (i capi delle religioni in primo luogo) comandano.

Ogni contatto fra Datori di Miseria e Lavoratori-Lavoratrici ne è un episodio: continuazione e fine della sterminata serie di episodi che hanno portato a quell’incontro, in quelle determinate condizioni. Non per cattiveria dei componenti della Classe Dominante (se così fosse una speranza minima di influenzarla con argomenti morali potrebbe sussistere) ma per necessità oggettive che trascendono la volontà dei suoi componenti. I Capitalisti, presi individualmente, possono anche essere uomini probi, di buon cuore, amanti della giustizia, capaci di non infierire. Di questi uomini e donne registriamo la presenza tutti i giorni. Ma sono subordinati a leggi che li trascendono; che alla lunga, se insistono a inseguire i princìpi etici o le buone inclinazioni personali, tendono a marginalizzarli dal “mercato”.

Ho detto leggi. Avrei dovuto dire dinamiche: la dinamica propria alla “legge” che si chiama “accumulazione” che è consustanziale al capitale. Che non può essere elusa. Anche quando si convincesse la stessa Classe Dominante di un Paese ad accantonarla (miracolo che richiede non l’intervento di un santo, per quanto potente, ma di Dio Onnipotente in persona) non si farebbe altro che portare quel Paese alla rovina. Se pure Lenin redivivo venisse incaricato di governare l’Italia e con lui i più accesi rivoluzionari del mondo, dovrebbe rassegnarsi a fare gli interessi del Capitale (temperando solo gli eccessi dei tecnici carogna attualmente in auge) oppure essere travolto degli avvenimenti. A meno di non prendere in mano la frusta e scacciare i mercanti dal tempio. Operazione che nessuno può illudersi possa essere indolore. Può essere allora che i non-violenti lo siano (illusi) anche perché soddisfatti dalla mera prospettiva di temperare il capitale, che ci riescano o meno? Più o meno consciamente consapevoli che con la non violenza oltre non è possibile andare? Rassegnati che vogliono indurre alla rassegnazione chiunque sia tentato di ribellarsi? Malignità che è più di una malignità: è già quasi un’analisi.

E’ impossibile, a me sembra, non vedere che la violenza permanente esercitata contro le classi subordinate (utilizzo il minuscolo proprio perché queste classi accettano di esserlo, non ancora classi maiuscole, classi di per sé) assume i connotati suoi più specifici a principiare dal Contratto di Lavoro. Il contratto di lavoro: sopraffazione istituzionalizzata, violenza del più forte contro il più debole, finzione intollerabile che simula l’incontro fra uguali, pur sapendo che sono disuguali. Tutta la società è costruita per permettere che questo ricatto continuo (il contratto di lavoro) possa essere e mantenersi. L’intimidazione del manganello non è che l’espressione aperta di ciò che è già implicito: o muori di fame o accetti di sopravvivere alle mie condizioni. Condizioni che divorano la dignità umana, la possibilità di crescita dell’individuo, i concetti stessi di equità e giustizia.

Questo senza contare la violenza quotidiana sui corpi. Le vite spezzate dai troppi “incidenti” sul lavoro, le mutilazioni, le malattie, l’avvilimento per l’assurda spropositata sopraffazione messa in atto sui posti di lavoro, l’assenza di prospettive che portano molti lavoratori a depressioni e suicidi (alla depressione e al suicidio quando si ha il lavoro; a depressione e suicidio perché non si ha il lavoro o li si è “perso”). Aggiungiamo a questo le beffe degli ideologi del capitale, economisti, giuslavoristi e giornalisti: il quadro è completo. Un universo di violenza rispetto al quale appaiono quantomeno inappropriati se non risibili gli interrogativi etici; e peggio la condanna implicita o esplicita delle manifestazioni di insofferenza che è inevitabile simili condizioni producano. E mi induce a esclamare: quanta dabbenaggine!
Ma io non voglio esclamare, voglio capire. Capire perché vi siano persone alle quali spetta stima che però rifiutano di vedere e di SENTIRE tutto questo. Tutto questo dolore, evitabile e però inevitato. Perché queste persone oppongono nel loro argomentare affermazioni apodittiche quali “la violenza intelligente è un ossimoro”. Chi lo dice che la violenza sia intelligente? Chi lo dice sbaglia: sbaglia indirizzo. Sbaglia argomento. La violenza è stupida, non c’è dubbio. Manifestazione di primitivismo, ennesimo torto che si fa alle masse. Sulle spalle di queste ultime cade, attraverso di essa vengono educate. Con il corollario dell’ulteriore violenza di non lasciar loro altra strada, non solo per emanciparsi: per sopravvivere. Dunque violenza come ennesimo torto, ennesimo dolore. Ma come opporsi all’aggressore stupido se non volgendo contro di lui la stessa aggressione? O quel che si propone è di rinunciare alla difesa della propria incolumità e dignità, insieme a quella della famiglia e della comunità tutta?

La violenza è conseguenza di condizioni di vita insopportabili; è l’essere costretti in una condizione dalla quale si può uscire solo ribellandosi. Non dunque mera risposta alla violenza si tratta, ma il volersi sottrarre alle condizioni di insopportabilità imposte dal capitale con ogni tipo di violenza: materiale, ideologica e psicologica. E all’occorrenza apertamente militare.

Sia chiaro: coloro che soffrono questa violenza è impossibile capiscano chi rifiuta di capirli. Trovo persino ripugnante che vi sia qualcuno che chieda loro di rinunciare alla difesa. Poiché le si priva della possibilità stessa di temperare le condizioni di oppressione e sfruttamento, temperabili solo con azioni ponderate, misurate, di autodifesa. Le masse non abbisognano di prediche, di affermazioni di grandi princìpi, ma devono cercare indirizzi, proposte, indicazioni concrete e credibili che portino al cambiamento. Hanno-abbiamo bisogno di strategie, non di riproposizione di quel che dovrebbe essere, ma non è.

Mi si dice che Vandana Shiva abbia scritto : la pace non si crea dalle armi e dalla guerra. Giusto. Ma non abbiamo il problema di stipulare una pace, magari potessimo. Abbiamo il problema di vincere la guerra secolare scatenata contro di noi e che oggi conosce una inaudita intensificazione. Forse dopo la fine di questa guerra, se la vinceremo, forse sarà possibile concepire condizioni di pace effettiva.

La proposta alternativa, rispetto alla realtà di questa guerra, che miete quotidianamente morti e feriti a migliaia, quale sarebbe? Quella di astenersi dall’intervenire? Di porgere l’altra guancia? Dire: mi chiamo fuori, tutto questo non mi appartiene?

Sto forzando il pensiero di tante/i che invece aderiscono al credo non violento? Può essere. Me ne scuso preventivamente. Ma mi si risponda almeno a questo ulteriore interrogativo. Vedo un prepotente che molesta un innocente. Tento di dissuaderlo con le buone maniere, ragionando e chiedendogli di interrompere le molestie (che intanto l’innocente continua a subire) ma visti inutili i miei sforzi lascio che le molestie giungano a compimento (limitandomi a voltare le spalle per non assistere allo scempio)? Oppure intervengo utilizzando i mezzi opportuni per interromperne la continuazione?
Non importa rispetto a questo interrogativo che l’innocente abbia quattro anni o quaranta. Che si tratti di un bambino o bambina o di lavoratore/lavoratrice che ha dato l’intera sua vita per quel lavoro e adesso si trova senza i mezzi minimi di sostentamento. Che importa se l’aggressore è un pedofilo o un tecnico-carogna male intenzionato a privare dell’innocenza il soggetto in questione? Se l’uccide materialmente o l’uccide pur senza toglierli la vita? Lo confesso: la violenza su minori suscita in me il medesimo sdegno che quella su chi lavora. Anche perché nel primo caso se ne uccide una/o (o ferisce: nel migliore dei casi continuerà a vivere, ma una vita diversa da quella che gli o le sarebbe spettata); e nel secondo più di una/o (famiglie, comunità intere).

Ma io sono un’anima candida, si sa, a più di tanto non arrivo.

Fatemi arrivare voi a questa comprensione, per favore. Rispondete con parole nette all’interrogativo, senza sfuggire la responsabilità di dichiarare tollerabile o comunque prolungabile un regime di violenza continua. Lo posso ammettere che scegliate i tempi infiniti dell’evoluzione, di quando gli esseri umani ascenderanno all’altezza della loro umanità, decine di migliaia di anni di attesa; e ammettere a cuore più leggero quindi di discutere con voi con parole leali e sincere della vera posta in gioco. Il rinvio sine die della violenza effettiva degli sfruttatori sugli sfruttati. Altrimenti, perdonate, senza queste parole nette e questo porre sul tappeto la vera posta in gioco (cioé il rifiuto della ribellione degli oppressi e l’accettazione implicita dei metodi degli oppressori; che è sostanzialmente ciò che gli agenti del capitale chiedono e affermano: la legittimità della violenza di Stato) è inevitabile sorga il sospetto che la petizione di principio sia mera copertura dell’occulto cinismo, che si vuol rendere invisibile a se stessi. Che tale petizione di principio sia resa possibile aprendo le porte all’ipocrisia. Che sia guidata e accompagnata da una indignazione non vera, in quanto disposta a tollerare l’intollerabile. In nome della non violenza si tollererebbe una violenza spropositata che per altro cresce di giorno in giorno.

Il che mi induce a sostenere (scatenatevi pure): sarebbe non solo ipocrisia, anche non voluta, sconsiderata complicità.

UNA NOTA SU QUESTA DISCUISSIONE

Chi legge codesto post può metterlo in relazione con «Non c’è mai una violenza giusta» di Monica Lanfranco, la mia risposta «Sullo stesso piano chi aggredisce e chi si difende?» e l’intervento «Il limite, la violenza» di Giancarla Codrignani, tutti in connessione con quanto Luisa Muraro ha scritto su «Via Dogana» in un intervento sicuramente importante (e secondo me lucidissimo) che dunque invito a leggere su quel sito. Ci sono stati poi in blog commenti (a questo punto una ventina, distribuiti fra i vari post) anche lunghi e mentre scrivo so che almeno un altro intervento è in arrivo. Mi dicono – e mi fa piacerissimo – che sul sito di Maschile Plurale

 

http://maschileplurale.it/cms/index.php?option=com_content&view=article&id=536:mar-2012-qforza-giustizia-e-temperanzaq-una-discussione-in-rete&catid=65:sex-and-the-city&Itemid=55 .

è stata pubblicata l’intera discussione. Grazie a tutte/i. Capire, capirsi, non smettere mai (diceva una canzone degli anni ’70). Ma anche agire quando occorre. (db)

Redazione
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4 commenti

  • Marco Pacifici

    CONDIVIDO:nel senso che condivido le parole scritte di MAM e le faccio girare tra i miei contatti :Mauro Antonio sei un grande scrittore ed un Umano immenso.Marco.

  • Mi riconosco nel ragionare di Mauro Antonio ma fra noi resta un punto di parziale incomprensione o più probabilmente di esperienze (e dunque linguaggi) differenti. A mio parere la non violenza (cioè il generico, vago rifiuto della violenza) ha pochissimo a vedere con la nonviolenza – scritto tutto attaccato – che venne teorizzata e praticata da Gandhi che a me appare invece una teoria e prassi sovversiva. Anche la nonviolenza gandhiana, è ovvio, non risulta immune da difetti o punti deboli nè risulta replicabile pari-pari ma resta una esperienza storica importantissima proprio perchè, con il minimo di violenza, mise sottosopra una società e un’epoca storica, costringendo alla resa l’impero inglese che non era proprio una combriccola di sprovveduti o di brava gente. Che poi oggi si tramandi un Gandhi di comodo fa parte di un vecchio gioco di riscrittura della storia che (su questo l’Orwell di “1984” ci aveva azzeccato in pieno) è giunto a livelli, velocità e perfezione tecnica impensabili ai tempi di Stalin (per la falsificazione fu soprattutto lui il riferimento di Orwell). Come 2-3 volte ho accennato in blog – prima o poi proverò a tornarci su in maniera più chiara – a mio avviso esistono esperienze di sovversione nonviolenta (cioè gandhiana) che ci potrebbero aiutare in questa tremenda situazione. Ho imparato molto da “Beati i costruttori di pace” (che ho affiancato in alcune azioni ingternazionali) come da ciò che mi è stato raccontato dalle e sulle Donne in nero e Pbi (Brigate di pace internazionali) per nominare solo qualche esperienza recente. Voglio dire che la nonviolenza così intesa è del tutto diversa dal ripetersi delle colorate banalità con le quali in Italia i paciocconi o i paci-finti si spacciano per pacifisti, per non violenti. Se si riesce, senza violenza o con il minimo di violenza, a gettare sabbia negli ingranaggi dell’economia di guerra e di ingiustizia sono il primo a rallegrarmi (e su questo credo che Miglieruolo sia del tutto d’accordo con me). Ma se il pacifismo è un invito a stare tutti buoni e calmi mentre intorno la violenza degli Stsati e quella mondiale imperano, non ha nulla a che vedere con Gandhi. O almeno io la penso così. Mi piacerebbe che altre/i si esprimessero anche su questo punto. (db)

  • Marco Pacifici

    Infatti il problema è proprio questo:come gettar SABBIA negli ingranaggi dell’economia di guerra, di violenza. Allora continuo a ripetere:le armi le hanno tutte loro(noi poi non ne vogliamo proprio piu sapere di armi,ci son bastate quelle che troppo spesso ci han fatto prendere trenta anni fa per difenderci), la violenza genocida è il loro humus, la prepotenza è la loro idea…come fare? Certo attaccare i sindacati è come sparare alla croce ros(s)a, ma nel ’43 gli operai per non far “delocalizzare” le fabbriche dai nazisti le occupavano e non facevano portar via le macchine o le distrugGevano:allora non vedo perchè non possiamo oggi fare altrettanto:esempio Golden Lady:se si sabotano o si impedisce di portare fuori dalle fabbriche italiane i macchinari(che costano MILIONI DI EURI) IN SERBIA O IN CINA O ì DOVE CAVOLO VOGLIONO,I “PADRONI” CI PORTANO STA MINCHIA TANTA(SCUSATE L’EUFEMISMO…)

    • Se qualcuno ritiene di poter vivere meglio in Romania o in Cina, si accomodi, libero di andarsene. Non di portare con sé la ricchezza e le speranze del paese. Le fabbriche sono state costruite in Italia, col sudore degli italiani, devono rimanere in Italia. Non solo le macchine, l’intera unità produttiva. Un governo che non impedisca che siano portate all’estero è un governo di traditori.

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