Voci dalle carceri

Dalle Vallette (Torino)
Luca Abbà, Semilibero NO TAV, domenica 8 marzo

Visto il rapido evolversi della situazione legata alla diffusione del nuovo corona virus, divenuta emergenziale, desidero comunicare il mio punto di vista nella condizione particolare di detenuto semilibero presso il carcere di Torino.
L’ambiente carcerario risulta essere, a maggior ragione in casi come questi, un luogo delicato, sensibile ma piuttosto ignorato dall’opinione pubblica e dalla classe politica; oppure considerato inopinatamente una sorta di discarica per ciò che si ritiene “la feccia” della società.
In questi giorni di grande flusso mediatico e misure di controllo imponenti, l’ansia e l’angoscia per il dilagare dell’infezione stanno crescendo anche tra le mura del carcere, tra i detenuti e il personale ivi impiegato. Scenari di
blocco dei colloqui con i familiari, sospensione di permessi e uscite per i semiliberi sono già divenuti realtà in alcuni penitenziari del territorio nazionale e stanno divenendo probabili per gli altri visto il precipitare degli eventi giorno dopo giorno.
Appare chiaro che allo stato attuale, con una popolazione carceraria abbondantemente superiore alla capienza prevista (siamo più di 60.000 in carcere in circa 50mila posti disponibili), non ci sarebbe la possibilità di affrontare con misure di sicurezza adeguate l’eventualità non remota di un contagio tra i detenuti. Non oso pensare con quali
conseguenze si ripercuoterebbe su individui già deboli e fragili, nonché ristretti, la diffusione di questa nuova infezione.
Di fronte alla impreparazione e approssimazione delle autorità statali nell’affrontare questa cosiddetta emergenza
sanitaria, non pare sensato concentrare ulteriormente i carcerati bloccando anche le uscite di chi gode di benefici o di regimi di custodia attenuata. Inoltre, così facendo si infierisce ulteriormente su persone e sulle loro famiglie che già vivono da anni una condizione di privazione, sacrificio e umiliazione.
I semiliberi, che non potendo più uscire per settimane o mesi, perderebbero sicuramente il lavoro, con tutta la difficoltà di poterlo poi ritrovare di questi tempi una volta passata la psicosi. Aggiungiamo pure i problemi di chi,
come me, ha una famiglia con figli che (non) vanno a scuola.
Partendo da questa premessa mi ritrovo ad argomentare una proposta che, per assurdo, gioverebbe per primo a chi i carceri li gestisce, li controlla e ne detiene la responsabilità.
Un provvedimento urgente, e di assoluto buon senso, sarebbe quello di liberare chi già gode di benefici, chi è sopra una soglia di età definita “a rischio”, chi ha un residuo di pena sotto i due anni. Non sta a me proporre quali misure
alternative si potrebbero applicare (tipo obblighi di firma, rientri domiciliari ecc…) e nemmeno la forma legislativa adeguata (amnistia, indulto, decreto legge).
Ai detenuti esclusi da tale provvedimento si potrebbero applicare più facilmente misure di prevenzione e sicurezza adeguate per poter garantire i colloqui con i propri cari e condizioni di detenzione meno disagiate di quelle odierne a causa del sovraffollamento cronico degli ultimi anni.
Credo che nel marasma mediatico di questi giorni debba farsi strada una simile opzione. Io per primo mi impegnerò da subito ad alimentare l’urgenza di un dibattito che, oltre a riguardare una categoria umana di oppressi e indifesi, rientra nell’etica della solidarietà e “del benessere di comunità”, concetti molto sbandierati in questi giorni.
Non sarebbe un provvedimento di clemenza, semplicemente di umanità e buon senso e non dovrebbe precludere né limitare un dibattito necessario sul senso del carcere nella società di oggi, sulle condizioni detentive, sulla
repressione del fenomeno migratorio e delle lotte sociali.
Perfino in un paese come l’Iran, che non si può certo dire sia gestito da un regime democratico, si è appreso da
alcune fonti di stampa che sono stati scarcerati e messi ai domiciliari più di 50 mila detenuti con pene inferiori ai 5 anni.
In generale, stante la situazione in cui un’epidemia rischia di provocare il collasso dell’insieme del sistema sanitario pubblico è quanto mai opportuno che al più presto vengano riconsiderati gli investimenti pubblici in spese militari e grandi opere inutili e costose (come il TAV) per liberare risorse da impiegare nella salute pubblica, sia preventiva, che curativa.
Che il sistema sanitario diventi un bene comune ed esca dalla logica di tipo aziendale nella quale è stato inserito!
Che la voglia di libertà diventi il virus più contagioso per l’umanità.

Dalle Vallette (Torino)
Avv.Valentina Colletta, legale di Nicoletta Dosio, lunedì 9 marzo

Sono appena uscita dalle Vallette dove ho incontrato alcuni detenuti, e tra questi ovviamente Nicoletta. Mi pare opportuno, visto quanto sta avvenendo nelle carceri italiane, relazionarvi su quanto ho visto e sentito.
Quando sono arrivata davanti all’ingresso principale del carcere c’erano alcuni mezzi della Polizia di Stato e dei Carabinieri ed un’ambulanza. Deserto l’ingresso riservato i parenti.
Mi hanno misurato la febbre, fatto sottoscrivere un modulo con il quale attestavo di non essere entrata o uscita dalla Cina o dalle zone rosse nei 15 giorni precedenti e di non avere sintomi febbrili. Alla seconda porta ho visto personale della Polizia penitenziaria che preparava e puliva una serie di scudi appoggiati al muro ed in prossimità delle sale colloqui distribuivano mascherine ai pochi avvocati presenti. Ho notato, firmando il registro, che alcuni colleghi avevano annullato le prenotazioni dei colloqui con gli assistiti.
Durante il primo colloquio con un detenuto mi è stato riferito di un clima estremamente teso, della consapevolezza di misure del tutto inadeguate: il personale di Polizia penitenziaria, pur entrando ed uscendo dal carcere, continua ad essere privo di qualsivoglia presidio atto a prevenire il contagio, i detenuti continuano ad essere stipati in celle e locali in cui è impossibile rispettare le distanze interpersonali o i minimi presidi sanitari prescritti.
Giunta alla sezione femminile ho visto detenute nel corridoio a distanze estremamente ravvicinate e prive, come il personale penitenziario, di mascherine.
Ho poi visto Nicoletta. Sta bene anche se, come le sue compagne, è preoccupata. Prova a distrarsi leggendo la posta che riceve ma quanto sente alla televisione non la conforta. Hanno tutti avuto notizia delle rivolte delle ultime ore e dei morti e già nella notte scorsa molti detenuti hanno iniziato la battitura e si sono levate ripetutamente urla corali.
Io stessa, mentre parlavo con Nicoletta, ho sentito a ripetizione battere sulle sbarre delle sovrastanti sezioni e cori di cui non sono riuscita a cogliere il significato letterale, ma che erano evidentemente proteste e richieste di attenzione ed aiuto.
Nicoletta mi ha confermato che sono stati sospesi i colloqui con i familiari e molti detenuti temono così di non poter più neppure ricevere i pacchi che, spesso, sono il loro unico mezzo di sostentamento, vista la qualità e la quantità del vitto fornito dal carcere. Da alcuni giorni, poi, pare siano aumentati significativamente i prezzi di quanto i detenuti possono acquistare in carcere.
Tutto ciò, unitamente alla paura per le condizioni sanitarie dei parenti che sono fuori getta i detenuti in uno stato di prostrazione, impotenza e preoccupazione importanti. I colloqui sono stati sostituiti dall’autorizzazione a telefonate straordinarie nella misura di 10 minuti per ogni colloquio saltato e, pare, che per effettuare le chiamate si formino delle code in condizioni di inevitabile promiscuità.
Nicoletta mi ha inoltre confermato che gli ultimi arrestati vengono collocati, in una sorta di quarantena, ai nuovi giunti con delle mascherine ma, ancora, in condizioni igienico-sanitarie del tutto inadeguate a prevenire l’epidemia in corso. Pare che sia stato anche limitato l’uso delle docce e nelle celle non c’è l’acqua calda.
Da questa mattina è stata sospesa anche l’ora d’aria, mentre la socialità all’interno della sezione prosegue inalterata.
Ho chiesto – per scrupolo e, lo confesso, anche per egoistica preoccupazione – a Nicoletta se non riteneva opportuno che predisponessi un’istanza per chiedere, in ragione dell’età e del residuo pena, una detenzione domiciliare. Ha rifiutato condividendo quanto, da fuori, si sta cominciando ad invocare: almeno un’indulto che consenta di alleggerire il sovrappopolamento delle carceri e ripristinare sicurezza sanitaria e condizioni di vita minimamente dignitose.

Interviste e corrispondenze

Da Rebibbia, Salerno e Bologna: corrispondenze da Radio Onda Rossa, lunedì 9 marzo.

Bello Come Una Prigione Che Brucia, lunedì 9 marzo: corrispondenze da radio Black Out.

Da Radio Onda d’Urto, lunedì 9 marzo: interviste a Susanna Marietti di Antigone, Ornella Favaro di Ristretti Orizzonti, Italo di Sabato dell’ Osservatorio Repressione, Valentina Colletta del Legal Team No Tav, Luisa Ravagnani, Garante dei Diritti dei Detenuti di Brescia e Provincia.

Dalla Dozza (Bologna): aggiornamenti sulla conquista del tetto da Zeroincondotta, martedì 10 marzo.

alexik

2 commenti

  • Tratto dall’account FB di Salvatore Prinzi – 9 marzo

    Non volevo fare questo post, perché le cose che ho visto oggi pomeriggio non sapevo davvero come metterle per iscritto. Ma, tornato a casa, ho sentito di tre morti a Modena, ho visto sui social tanta cattiveria, e ho deciso di scrivere lo stesso. Perché chi dice certe schifezze deve almeno fare i conti con la realtà.

    Ero fuori al carcere di Poggioreale oggi. Come in tante carceri d’Italia (Genova, Modena, Pavia, Salerno, Frosinone, Vercelli, Alessandria, Palermo, Bari, Foggia) i detenuti si sono ribellati. Hanno cominciato a battere sulle sbarre, sono saliti sui tetti. Hanno bruciato carta e stoffe, hanno urlato come potevano.

    La goccia che ha fatto traboccare il vaso? L’emergenza coronavirus su una popolazione già stressata, ristretta, che vive in condizioni disumane.

    Se la paura del contagio, la necessità di stare chiusi in casa, il terrore di non vedere i propri cari, fa uscire di testa noi “normali”, vi immaginate cosa può su decine di migliaia di detenuti?

    Le strutture sono sporche e sovraffollate, si arriva anche a dieci in una stanza, le malattie infettive già di solito sono diffuse, bronchiti date da umidità e scarse cure. Se ti ammali puoi aspettare giorni senza che nessuno venga.

    E il governo non solo non fa niente, non ti smista in altri spazi, non manda la gente ai domiciliari (l’ha fatto persino il cattivissimo Iran con decine di migliaia di detenuti!), ma ti dice: colloqui sospesi fino al 31 maggio. Mai uno stop così lungo nella storia italiana. E non ci sono mezzi per fare connessioni via skype. Permessi sospesi. Udienze sospese. La tua vita che si blocca, solo che tu sei dentro. E rischi di fare la fine del topo, magari morire di polmonite senza aver detto ciao a tua figlia.

    Lo riuscite a capire o no? La sentite montare l’ansia di uno che sta sveglio tutta la notte mentre sotto il compagno di cella tossisce senza sosta?

    Dice: ma lo fanno per il loro bene. Ma vi rendete conto che in carcere ci entrano i secondini che vivono il resto del tempo fuori? Con quella promiscuità, ne basta uno positivo per infettare migliaia di persone. La verità è che non lo fanno per il loro bene, lo fanno come gli viene… brutali, indifferenti.

    Così i detenuti si ribellano, arrivano lì fuori i parenti, e anche noi compagni per cercare di portare un po’ di solidarietà.

    Ci troviamo in mezzo a una folla di centinaia di persone che ondeggia fra le diverse entrate del carcere, confusa, arrabbiata, disperata, facendo capannelli e disperdendosi per la pioggia, chiedendo informazioni che non arrivano, senza interlocutori, senza direzione. Il sottofondo è l’elicottero che ci ronza sulla testa per ore, a volte abbassandosi fino a sollevare il vento.

    La prima cosa che balza agli occhi è il gran numero di donne: e come potrebbe essere diversamente? Dentro ci sono i loro uomini. Per un attimo penso che è ironico, è proprio l’8 marzo, ma in effetti per loro la lotta è tutti i giorni.

    Le donne urlano, provano a salutare i detenuti, a farsi sentire vicine. Battono sulla cancellata a ritmo con loro. Gridano indulto, libertà. Alcune, soprattutto le più giovani, hanno gli occhi lucidi, avidi di qualche sicurezza: si vede che ancora non gli torna questa vita. Le altre sono già vecchie a 50 anni, capelli in disordine, tuta, decise e convulse, si fanno sotto ai carabinieri. Ma – è difficile spiegare come – non per aggredirli, ma a spiegargli, a convincerli, che è uno schifo, che loro non sono bestie, che non si può campare così, che brigadiè nun è possibile. E non si sa da che lato c’è più impotenza.

    Alcune invece sono vestite da domenica, truccate. Si vede che sono accorse dal pranzo con le famiglie. Bambini di 6 anni appresso, che guardano verso il padiglione dove cascano pezzi di carta che bruciano. Lampade cinesi al contrario, che scendono tristi. Negli occhi dei bambini la stessa traiettoria, tanta innocenza e già tanta ombra, come se questa fosse l’unica vita possibile.

    Una donna a un certo punto si sente male, accorrono fino a soffocarla. Interviene un pompiere per rianimarla, si fa spazio quasi rassegnato. Un’altra inizia a urlare contro la fila infinita di camionette. Che bisognerebbe appicciarle, dice. Perché siete dei corrotti. “Corrotti, corrotti, mò fanno schifo i detenuti, eh, ma non vi fanno schifo quando vi mettete la 500 euro nella sacca per far passare il telefonino, no?”.

    Un uomo sui 60 appena uscito di galera fa vedere i lividi dei maltrattamenti subiti. Chiamate i giornalisti, urla. Questo fanno quelli lì dentro.

    A un certo punto esce il Garante dei Detenuti, che era entrato dentro per vedere la situazione. Rassicura un po’ tutti. Dice che i detenuti sono rientrati nelle celle, spontaneamente. Che per tutto il resto si vedrà, si parlerà… Si alza un boato ma non è chiaro se i detenuti abbiano strappato qualcosa. Non sembra ci sia stata trattativa.

    Quello che è certo è che non si può andare avanti così.

    Sapevamo di vivere in un paese fragile, da tutti i punti di vista, economicamente, amministrativamente, emotivamente. Sapevamo che prima o poi sarebbe saltato il sistema. Certo, non ci immaginavamo che sarebbe stato un virus a dirci quanto poco siamo comunità, quanto male funzioni il nostro Stato, quanto è stata distrutta la sanità pubblica…

    E forse, è per non guardare queste verità, che ci imporrebbero di cambiare, che ora continuiamo con la crisi di nervi: reagiamo sui social senza sforzarci di capire, senza sforzarci di essere umani.

    Così, tornato a casa, apprendo di ben tre morti a Modena. E leggo i soliti commenti di merda, come domenica scorsa dopo l’omicidio del 15enne Ugo: che i detenuti devono morire tutti, che è meglio se il coronovirus entra e fa una strage.

    Se, come diceva Dostoevskij, che di anni in galera se n’era fatti quattro, «il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni», penso che oggi nessuno possa girarsi dall’altra parte.

    Quello delle carceri non è un altro mondo, non ci sono alieni lì dentro: è solo la radiografia del nostro paese. Dove ormai si vede bene l’infezione.

  • Daniele Barbieri

    UN COMITATO PER LA VERITA’ E LA GIUSTIZIA
    Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà.
    Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti.
    Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che «le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini», senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte.
    Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo – o smentendo – quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine.
    Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni.
    A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti.
    Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra.
    In questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto.
    Per aderire: info@dirittiglobali.it
    *** Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa.

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