CIVILTÀ

CIVILTÀ
di Mauro Antonio Miglieruolo
da: Storie Malsane
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Il nostro assedio si prolungava oltre le ordinarie esigenze belliche. Vana fino a quel momento ogni trattativa. Non per l’ostinazione del brutale nemico, che veniva a bussare quasi ogni settimana alla porta proponendoci ogni sorta di soluzioni che avrebbero potuto (sostenevano loro) soddisfare le esigenze universali di pace; ma a causa dei pregiudizievoli furori del Vecchio Genitore,

ottuagenario e forse rimbambito, il quale immancabilmente si impuntava anche sulle più insignificanti clausole dell’accordo proposto, non accettando di firmare quel che si cercava di imporgli e iterando contro l’avversario insulti e maledizioni. Il suo era l’atteggiamento del rifiuto (bisogna però riconoscere che il nemico, tramite questo o quel portavoce, subito debitamente e blandamente smentito, faceva intendere che, di là dai diplomatismi dei negoziatori, soltanto la resa a discrezione poteva indurlo a cessare le ostilità). Accostando le labbra al battente la vecchia mummia replicava alle proposte di pace sbraitando le sue verità, ogni genere di obiezione gli venisse in mente da opporre, bizzarrie senza costrutto, argomenti che parevano inventati lì per lì, tanto per fornire una qualsiasi giustificazione alle sue diffidenze e caparbietà. All’interno della famiglia però, nel corso dei dopo cena riservati ai parenti stretti (cene scarne e fredde), con cui concludevamo giorni inoperosi, si confessava senza remore, ammettendo l’impossibilità della vittoria e l’opportunità invece di scendere a più miti consigli. Finché l’ululato solitario di un qualsiasi passante, risvegliandolo dal torpore dell’avvilimento lo riconduceva alla realtà delle sue ragioni di sangue e torti di vampiri. Non avrebbe mai dato la carne della sua carne agli abietti mostri che ululavano e tempestavano per le strade, disseminando di orrori e minacce le finestre degli incauti che avessero osato affacciarsi; né avrebbe permesso che alcuno si fregiasse della nomea di vincitore, l’oltraggio e il disonore delle sue figlie, le vergogna, l’inaudito carico di miserie che ne sarebbe conseguito…
– Lasciate nella cassetta delle lettere le vostre petizioni, – concludeva invariabilmente i suoi discorsi, irridendo gli esterrefatti ambasciatori. – Le esaminerò e ne potremo riparlare…
Invariabilmente gli facevano eco sequenze disordinate di parole, frasi arroganti, contumelie indegne della dignità diplomatica, e minacce e avvertimenti e lamentose preghiere, appelli alla nostra ragionevolezza, ché insomma non c’era ragione alcuna nell’ostinazione con cui ci opponevamo alle richieste di un intero quartiere. Rispondevamo a quegli oltraggi con incursioni improvvise nei Grandi Magazzini, smaniosi di razzie e di cibi in scatola, scorte enormi con cui riempivamo – un tempo – i carrelli e gli armadi frigoriferi della dispensa. Il nemico, dopo un primo sbandamento pauroso, rinserrando le file, vie e piazze che si riempivano dei fischi richiamanti all’accorruomo, le fanterie mobilitate, frotte di cittadini che portavano reti e fucili ad aria compressa, ci costringeva sempre più spesso a ritirarci prima di aver completata l’impresa; cosicché all’ultimo il nostro ritorno in casa si concludeva invariabilmente con un’ammissione di sconfitta e ai pargoli innocenti che reclamavano cibo non restava che mostrare le nostre mani nude. Il nemico, forte di molteplici accorgimenti, ci teneva dolosamente lontani da Mercati Rionali, Distributori Automatici, Stadi di calcio.
Arrivò presto il giorno che le magre cene fredde divennero addirittura gelide, intrepide silenziose desolate ore di digiuno. Dopo le cene anche i pranzi e le colazioni, abitate dal nulla, e fu giocoforza eliminare i rami sacchi. Ascendenti e discendenti, per motivi ovvi, furono esclusi dalla selezione: si dovette ricorrere ai collaterali. Proponemmo al nemico uno scambio, cibo contro i parassiti da cui eravamo infestati; purtroppo il nemico, al principio recalcitrante, divenne addirittura sordo quando presentì la nostra disperata condizione.
Fummo magnanimi. Senza pretendere alcunché in cambio rilasciammo una vecchia zia, da sempre a letto, il di lei consorte, mangiatore e sbafo, e la coorte di pargoli che fungeva da figliolanza. Non guadagnammo alcun elogio da parte del nemico. In compenso scoprimmo la verità dell’antico detto, parenti serpenti! L’ingratitudine della famigliola ci ferì profondamente, come ci ferirono le parole aspre con cui rivelarono l’avversione segreta che albergava nel loro animo. Non indugiammo nell’ascolto. Spalancammo le porte e scaraventammo fuori la masnada indecente e tremebonda di serpi nel seno.
Quel che fu di loro non l’abbiamo mai saputo. Il Vecchio Genitore sostiene che li abbiano mangiati, ma la Vecchia, pessimista a oltranza, ipotizza senza mezzi termini che siano stati ricoverati in Ospedali Modello per essere rimpinzati di medicine e malattie.
Non è di loro, e del loro destino, comunque che mi preoccupo, ma del mio. Della mia personale sopravvivenza in quanto Ultimogenito. La implicita tregua col vicinato comparsa in seguito a quell’atto di clemenza è durata poco. Le provviste già di nuovo scarseggiano e idee nuove sul “che fare” prossimo venturo sembra non ve ne siano…

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