12 febbraio 1809

Lincoln prima e dopo Hollywood

di Fabio Troncarelli (*)

Il 12 febbraio è l’anniversario della nascita di Lincoln: una data che non è certo mai stata scor-data, ma che può essere ricordata male. E’ il minimo che si possa dire considerando la baraonda mediatica che ha accompagnato e ancora accompagna il film «Lincoln» di Steven Spielberg. Ci si sono messi tutti: il regista, il protagonista Day-Lewis, i giornalisti e i giurati del premio Oscar hanno strombazzato ai quattro venti che il film è un capolavoro assoluto e che prima di questo film la figura di Lincoln non la conosceva nessuno, come del resto la Guerra di Secessione, poiché – ha detto ineffabile Spielberg – in questo campo stiamo ancora tutti fermi a «Via col Vento». Ecco, se la mettiamo su questo piano, solo uno sprovveduto può restare bloccato alla retorica di «Via col vento» dimenticando decine di film significativi e problematici, usciti dopo il polpettone voluto da Selznick, da «The red badge of courage» di Huston a «Soldati a cavallo» di Ford. Chi conosce la storia del cinema solo attraverso il buco della serratura farebbe meglio a starsi zitto.

Ma non ci distraiamo. Torniamo al punto principale. Ci hanno ossessionato con Lincoln? Allora sarà il caso di riflettere su di lui ancora una volta.

Dal momento che l’autore di «ET» gode di grande credito tra i più piccini prevedo che molti avranno già arricciato il naso di fronte alla mia irriverenza. Cercherò di smorzare la tensione e di rendermi simpatico raccontando una barzelletta. Dunque c’è un ragazzone grande e grosso che fa sempre figuracce e nessuno lo può vedere. Disperato, il poveretto chiede aiuto a un amico, un vecchio diplomatico famoso per il suo bon ton e l’uomo gli dice: «Ma insomma… Devi fare qualcosa per renderti simpatico. Che ne so… Se vai in un posto nuovo racconta una storiella buffa e vedrai che tutti ti apprezzeranno. Ecco, guarda, te ne dico una io veramente irresistibile. Metti che ti hanno invitato a una festa. Tu entri con una faccia da funerale. Qualcuno ti chiederà che hai. Tu scuoti la testa e fai la faccia afflitta. Piano, piano vengono tutti e ti chiedono che è successo… E allora tu sospiri e dici “Se sapeste chi è in fin di vita…”. Tutti allora domanderanno: “Chi?” . E tu trionfante dirai: “Il sedere”. Capito? Fin di … “vita”…Sedere! Vedrai. E’ irresistibile». La sera dopo, neanche a farlo apposta, arriva veramente un invito a una festa di compleanno. Tutti gli invitati sono a tavola quando all’improvviso la porta viene presa a calci e pugni. Il padrone di casa apre e il ragazzone gli si butta al collo piangendo. Lo travolge e gli cade sopra. Poi si rialza e comincia a urlare e strepitare. Tutti si precipitano alla porta. Il ragazzo si asciuga le lacrime e grida: «Ma lo sapete chi è morto? Il culo».

Beh, non lo so se vi ho fatto ridere, però per lo meno ho espresso sinteticamente quello che penso di Spielberg, Tarantino e della compagnia di giro piena di damerini travestiti da zombies, che ci affliggono dall’epoca di «Conan il barbaro», «Rambo», «Rocky», «Terminator» ostentando orecchini da falsi pirati, barbe finto-trasandate, accuratamente piluccate per simulare tre giorni senza rasoio, e l’aria truce da Gianburrasca in libera uscita, che maschera a malapena la buona educazione ricevuta. Tristi, tetri, ossequiosi, pavidi come tutti i bambini beneducati, gli pseudo-ribelli da salotto si sentono esattamente come il ragazzone della barzelletta: hanno paura di fare figuracce, paura di essere respinti, paura di non essere abbastanza “fighetti”. E allora che fanno? Prendono a modello una vecchia volpe del passato, gli fanno spifferare qualche dritta e poi, eccoli qua, pronti alla recita scolastica dove diranno la barzelletta giusta nel modo sbagliato. Non hanno capito un accidente di come si affascina il pubblico. Però hanno capito che se dicono barzellette sbagliate al momento giusto producono sicuramente un effetto. Tutti li guarderanno come bestie rare e diranno: «Ammazzali quanto so’ trucidi». Tanto basta. In fondo, se sei Er Monnezza, sei pur sempre qualcuno. E poi per gente come loro essere Er Monnezza è il massimo. Loro sono bravi bambini finto-rustici e vogliono solo sembrare – non essere, per carità – rivoluzionari. In effetti, nonostante l’aria strafottente, sono i figli prediletti del conformismo duro e puro; anche quando sputano nel piatto dove mangiano, fingendo di ribellarsi, come fa ogni bravo bambino viziato che si rispetti, leccano i piedi a chi li fa ballare come burattini e gli danno esattamente ciò che vuole: la sagra dello stereotipo. Per carità: si tratta di neo-stereotipi, apparentemente diversi da quelli del passato. Ma non lasciatevi incantare dall’apparenza: sempre di stereotipi si tratta, cesellati da una regia stereotipata, senza idee, senza movimenti di macchina, senza un montaggio creativo, lo stile adatto per storie stereotipate, tagliate con l’accetta, prevedibili e meccaniche, con ingredienti rigidamente prefissati: violenza al posto di buoni sentimenti, paratassi al posto di sintassi, unhappy end al posto di happy end e tutti i personaggi stereotipati di una volta, solo che adesso c’è il cattivo al posto del buono, il gay al posto del macho, il nero al posto del bianco.

Ecco Spike Lee col suo birignao da compagnucci della parrocchietta, narcisisti e cicisbei pure in mezzo alle bombe di una battaglia: «Ehi nero, togli da qui il tuo culo nero se no ti faccio nero». Wow! Ecco Ellroy il cattivone, che scrive migliaia e migliaia di pagine senza capo né coda, per dire quello che si può dire in una sola riga: «La vita è un mozzico». Ecco Tarantino, enfant terrible pour dames, dispettoso istituzionale. Ogni film lo stesso compitino imparato a memoria in seminario, la stessa minestrina riscaldata per marines in pensione, agenti Cia in libera uscita e membri del Tea Party in crisi da astinenza: 70% sangue; 10% urli; 20% teste spaccate e budella strippate; ruggiti quanto basta. «L’omo è popo ‘na bbestia» bofonchia Bloody Uncle Tarantino senza confessare che Bloody Sam Peckinpah l’aveva detto prima (e meglio). Gli fa eco Spielberg con le carneficine-Cirio del Soldato Ryan (ma non abbiate paura: appena il tempo di uscire dal cinema e già è precotto un bel robot con la faccia di Tin Tin per chi rimpiange Rin Tin Tin). E poi ecco Kim Jee-Won, che gira i film con la medium per evocare dal regno dei morti Schwarzenegger, appena scongelato dall’ibernazione, perché – sentenzia Marco Giusti su «il manifesto» del 31/1/2013 – «vederlo con la mitraglia in mano fa ancora una certa tenerezza». Non fa nessuna tenerezza, invece, Brillante – si chiama proprio così, non è un soprannome – Mendoza, che si mette a tavolino meticoloso e pedante come quei bambini insopportabili che giocavano tutto il giorno a Meccano (ve li ricordate i piccoli mostri? Loro dove li lasciavi li trovavi e la mamma in brodo di giuggiole e invece noi, tutti zozzi, con le ginocchia sbucciate, non riuscivamo a stare fermi un secondo…) e assembla un film-Frankestein che si chiama – che te lo dico a ffà? – «Massacro», in cui, puntuale come una cambiale, c’è un morto ammazzato in ogni scena che si somma pedantemente ai morti ammazzati delle altre scene, accumulando cadaveri come figurine nell’album del bravo bambino giudizioso, sempre rigorosamente seduto (‘ndo lo lasci lo trovi). Ed ecco registi molto dotati come Katherine Bigelow che ci cascano come allocchi: e allora la femmina Bigelow imiterà Milius l’omaccione di cartapesta di «Un giorno da leoni» e sarà un vero maschiaccio che fa film solo su pitecantropi travestiti da surfisti o pitecantropi travestiti da agenti dell’Fvi, perché: «Mica sono una perdente io». Che palle l’artificio al posto dell’arte! E invece di un romanzo un fotoromanzo, fasullo, stucchevole, pieno di stereotipi maldigeriti del tipo: «Tu non hai mai ammazzato nessuno perché non hai le palle per farlo» («The road»). No, le palle non ce le ho più io, perché è una rottura di palle infinita il film-fumetto, il fumettone zeppo di luoghi comuni, ripetitivo e monotono, dove non ci sono sentimenti, non c’è niente di profondo, di personale e c’è solo la strizzatina d’occhio fra compari. Ne volete una prova? Pigliamo proprio il caso di «

«Lincoln». Perché Spielberg e i suoi apostoli hanno detto che questo è il Lincoln “autentico”? Ma perché il film, in accordo all’estetica del neo-stereotipo che vuole implacabilmente il cattivo al posto del buono, il gay al posto del macho, il nero al posto del bianco, rovescia in modo meccanico il personaggio del presidente e invece di darci un ritratto agiografico lo descrive come un politicante, un furbacchione, un mascalzoncello, cosa che nessuno aveva mai osato dire apertamente. Già. Ma si tratta del solito giochetto del neo-stereotipo: un finto scandalo che strappa un gridolino d’orrore nel pubblico e un compiaciuto darsi di gomito fra gli amici degli amici. Lo sanno tutti che il presidente è disonesto a fin di bene e che prima o poi gli sarà perdonato tutto. Anche se sembra cattivo, presto si scoprirà che è buono e il bene trionferà come sempre.

Lincoln non è un personaggio dark, nonostante sia immerso nella semioscurità per tutto il tempo: è un maledetto per benpensanti, un sovversivo per minorati, un ribelle per bene come quel monello del regista che strizza sempre l’occhiolino al pubblico gongolante della sua ruffianeria. Il risultato è prevedibile: dopo tanti loschi traffici, il buon Lincoln potrà ammorbarci ancora una volta con pistolotti, buoni sentimenti e discorsi edificanti come ogni bravo Lincoln che si rispetti; forse è un po’ imbroglioncello, ma, come il regista del film, è l’orgoglio della sua mamma.

Bene, è bastato tanto poco per scatenare l’eccitazione di chi si atteggia a cinico ma in fondo ha il cuore di burro. I giornalisti italiani sono andati in estasi dicendo: «meraviglioso Lincoln, magistralmente scritto da Tony Kuschner» (M. Giusti, Dagospia, 18/1/2013); «cinema popolare e intelligente su temi complicati» (G. D’Agnolo Vallan, «il manifesto», 24/1/2013); «Lincoln è un bellissimo film» (N. Aspesi, «Repubblica», 24/1/2013). Ma i più scaltriti colleghi statunitensi o inglesi hanno reagito diversamente. Vi propongo un piccolo campionario dei loro giudizi, con l’avvertenza che non si tratta di persone qualunque, ma di penne ben più autorevoli di quelle italiane: critici cinematografici estremamente famosi come Johnatan Rosenbaum; brillanti professori di cinema che insegnano all’università come Wheeler Wiston Dixon; editorialisti di successo di testate importanti come Richard Brody del «New Yorker» o Chris Tookey del «Daily Mail».

«Il Lincoln di Spielberg è un Indiana Jones ricopiato dai libri di storia… un film per bambini con una visione della storia iper-semplificata”(R. Brody, «The New Yorker», 12/11/2012); «Spielberg… è fermamente determinato a onorare i nostri inconfessati pregiudizi. Occuparsi di Abe Lincoln significa andare molto vicino a un film d’animazione di Disneyland… A prescindere dalla sciropposa caratterizzazione dei personaggi, penso che quello che fa scomparire ogni dimensione mitica del passato nel film è una forma di rigidezza politically correct che rasenta la pietrificazione… Lincoln… fotografato in una pretenziosa semioscurità ottenuta da un’illuminazione artificiale voluta… ha la qualità quasi-religiosa che nel passato attribuivamo a un santo martire» (J. Rosenbaum, «The Jewish Daily», 16/11/2012); «Lincoln non dà la sensazione di essere storicamente fondato, anche quando i fatti che riporta sono “corretti”… E’ una fantasia agiografica, falsa come può esserlo un fumetto della Marvel. E’ una striscia disegnata, un miscuglio sdolcinato di cultura pop e nostalgia effimera, realizzato da un regista che ha passato la vita confezionando finzioni cinematografiche… Lincoln è la versione della storia di un libro divulgativo per bambini… Spielberg… è spesso un artista commerciale in affitto e niente di più» (W. W. Dixon, «Film International», 20/11/2012); «Day-Lewis è così ossequioso e pedantemente solenne che ci fa pensare che Spielberg l’abbia diretto in guanti bianchi e redingote… La triste verità è che Spielberg e il suo sceneggiatore Tony Kushner ci hanno sfornato una versione cotonata e santificata di Lincoln… Questa è un’agiografia sofisticata e somiglia a un esposizione di statue di cera disneyficate, con il pupazzo animato di Day-Lewis che intona discorsi» (C.Tookey, «Daily Mail», 26/10/2012).

Questi giudizi vi sembrano troppo severi? A dire la verità coincidono con quelli dei malcapitati spettatori italiani, truffati da pseudo-critiche giulive e giubilanti, che cominciano, sia pure con esitazione, a rumoreggiare. Cito a puro titolo d’esempio un blog significativo, quello di Martha su Linkiesta del 30 gennaio 2013. La povera Martha ha osato affermare: «Io adesso scrivo una cosa che poi chi la leggerà penserà che sono una zotica ignorante, una insensibile femminuccia, una superficiale squinzia priva di afflato civile… Ho paura a dire che il film che ha fatto l’en plein di stelline in ogni dove e che vanta ben 12 nomination agli Oscar, a-me-mi ha fatto addirittura dormire (ecco, l’ho scritto). Nel senso che, a metà della prima parte, io proprio mi sono addormentata (e va bene che sono stanca, ma, se un film mi piace, mica mi metto a russare)». Un giudizio avventato? Non direi, visto che i lettori del blog hanno rincarato la dose: «Film noiosissimo, l’unica cosa interessante è vedere che 150 anni fa negli States c’erano tanti Scilipoti. State a casa» (Marco Giovannello); «Sono assolutamente d’accordo con te! Perché bisogna sentirsi a disagio se si vuole dire che è un film verboso, noioso, superficiale?» (Anonimo); «Non ho visto il film e non lo vedrò, ma se andassi a vederlo scriverei esattamente le stesse cose! Mi basta il trailer» (Alessandro); «Tranquilla, ho dormicchiato anch’io, con tutto il rispetto e adesso, tornata a casa, non vedo l’ora di raggiungere il divano e riprendere il pisolino» (Rosaria Zanetel); “Aderisco e confermo, una mummia avrebbe creato più scompiglio! Un polpettone storico con grandi mezzi e poca inventiva» (Trip).

Riassumendo: Lincoln è una bufala. Una barzelletta capita male e recitata peggio. Su questo c’è concordia di qua e di là dell’Atlantico da parte di quelli che non hanno gli occhi foderati di prosciutto. Perché mai allora nel nostro Paese spuntano come funghi tanti folgorati sulla via di Damasco sempre pronti a intenerirsi che osannano il film ed esclamano – udite, udite! – che bisognerebbe farlo vedere «ai politici di casa nostra»? Sono le stesse persone che hanno storto il naso di fronte a «Vincere» di Bellocchio. E hanno il coraggio di proporre questa bufala, questa slavata caricatura disneyana, in visione privata ai nostri politici, che troppo avrebbero da imparare proprio da «Vincere» visto che ancora oggi dicono che Mussolini era un bravo ragazzo? Parbleu! Ma questo è un caso degno di Freud! Ecco, ci vuole proprio la psicoanalisi per capire certe cose. Una brillante psicoanalista francese, Janine Chasseguet Smirgel («Creatività e perversione», R. Cortina editore, 1987) ha spiegato in modo convincente l’aspetto più vistoso del meccanismo della perversione facendo riferimento a un celebre racconto di Andersen: «L’usignolo dell’imperatore». Ricordate la storia, no? C’è un bellissimo usignolo che canta in modo meraviglioso e delizia l’imperatore della Cina. Però l’usignolo è mortale e potrebbe sparire da un giorno all’altro. Allora i solerti cortigiani ne pensano una delle loro: ammazzano l’usignolo vero e fabbricano un usignolo meccanico, ricoperto di pietre preziose, che imita perfettamente il canto dell’usignolo vero. Il robot non morirà mai. E tutti si innamoreranno di lui, dimenticando la voce calda e appassionata dell’usignolo vero. La perversione è questo: innamorarsi di un feticcio al posto di un essere vivo, senza riuscire più a distinguere la vita autentica dalla sua imitazione.

Credo che tutto questo c’entri col successo malsano e perverso di «Lincoln» in Italia. In un Paese corrotto e cinico come il nostro, il surrogato della vita, cioè la bufala, ovvero la barzelletta capita male, prende purtroppo il posto della realtà. Se qualcuno fa un capolavoro come «Vincere», animato dal fuoco dell’arte come il canto dell’usignolo vero, allora si storce la bocca. Ma se viene fuori un film tronfio e pettoruto, finto dalla prima all’ultima immagine, a cominciare dalla semioscurità coatta in cui tutto è immerso per far meglio risaltare in modo effettoso le silhouette nere in controluce, allora non si può dire che è una schifezza: il perverso riconosce al volo un altro perverso e prima ancora che abbia aperto bocca lo ama dell’amore robotizzato con cui si ama l’usignolo meccanico.

Potremo finirla qui. Ma c’è ancora qualcosa da dire. Qualcosa che abbiamo lasciato per ultimo perché tocca un punto estremamente delicato. A parte i fallimenti sul piano estetico, «Lincoln» è una delusione anche sul piano puramente storico. Molti studiosi americani hanno espresso pesanti critiche sul carattere mistificatorio del film, sottolineando le sue vistose insufficienze d’informazione e il suo carattere reazionario dietro l’apparenza liberale.

Prima di andare avanti vorrei chiarire il mio punto di vista: per me il problema dell’attendibilità storica di un’opera d’arte non è fondamentale. Quanti capolavori sono stati fatti ignorando allegramente la storia? Se vedo il «Giulio Cesare» di Shakespeare m’importa veramente che l’autore si prenda delle “licenze” con ciò che è accaduto? Certamente no. Ma allora che m’importa delle eventuali smarronate di Spielberg? Non basta dire che ha fatto “film per bambini”, che ha una visione della storia “iper-semplificata” e che è piuttosto ingenuo? In condizioni normali basterebbe. In questo caso no, perché sono stati lo stesso Spielberg e i suoi apostoli a sentenziare che il Lincoln del film è quello vero, autentico e che finalmente vediamo la storia vera e non l’oleografia di «Via col vento». Se le cose stanno così e il regista ci invita a leggere la sua opera con la lente dello storico, allora il pesante giudizio di molti studiosi acquista un significato. Le loro valutazioni sono state così riassunte da Chris Tookey: «Il vero Lincoln credeva nella superiorità dei bianchi sui neri, condannava la mescolanza delle razze e pensava seriamente a spedire gli ex-schiavi neri delle piantagioni all’estero dopo l’abolizione della schiavitù. Attraverso il film di Spielberg nessuno può rendersi conto che il XIII emendamento anti-schiavitù non è un’idea originale di Lincoln, ma il frutto di una campagna politica, promossa inizialmente da un gruppo di donne proto-femministe che aderivano alla Women’s National Loyal League. Il film esagera in modo grottesco il ruolo del Presidente nel porre fine alla schiavitù e ignora praticamente ogni contributo del popolo nero e anche quello degli abolizionisti più importanti, come il giornalista William Garrison, la ricca ereditiera Angelina Grimke, la scrittrice Harriet Beecher Stowe e lo schiavo liberato Frederick Douglass (non uno di questi è menzionato in «Lincoln»). Ancora più colpevolmente il film trascura il fatto che, mentre si svolgevano gli eventi che narra, gli schiavi del Sud si stavano già ribellando, occupando la terra in cui avevano lavorato. In nessuna parte del film c’è alcuna menzione dei vantaggi strategici per l’economia del nord di rovinare l’economia del sud basata sulla schiavitù; e neppure del vantaggio militare di liberare milioni di schiavi dietro le linee nemiche, molti dei quali sarebbero poi fuggiti per combattere per l’esercito yankee».

Le critiche degli storici sono fondate: ridurre la complessità della storia all’influenza di un solo uomo, al quale vengono peraltro attribuite opinioni difformi da quelle che aveva, è effettivamente un’operazione mistificante, qualcosa che la vecchia Hollywood faceva regolarmente, ma che “la mejo gioventù” di oggi, che sa tutto e sputa sentenze su tutto, non dovrebbe mai fare.

All’interno di questa mistificazione c’è un punto che non possiamo trascurare. In un film tanto politically correct ci si aspetterebbe di vedere di più i neri di cui si parla tanto e di cercare di analizzarne i comportamenti. Soprattutto ci si aspetterebbe un approfondimento dei problemi della cosiddetta fase di Ricostruzione, dopo la Guerrra Civile, che erano già evidenti prima della guerra. Nel film c’è un accenno in questo senso, nel dialogo tra Lincoln e un membro della House of Representatives indeciso se votare il XIII emendamento, ma si tratta di ben poco considerando quanto accadrà di lì a breve e quanto si poteva prevedere che accadesse. Questa fase della storia americana, ancora oggi poco esplorata dalla storiografia e oggetto di controversie, è stata in parte rievocata in un bel romanzo – ma storicamente documentato – scritto nel 1944 da Howard Fast che si chiama «La via della libertà» (Einaudi, 1948 e successive ristampe): narra l’angosciosa ed epica lotta per l’emancipazione di una comunità di neri prima e dopo la guerra. Ispirandosi a una storia vera, l’autore di «Spartacus» racconta la vita di uno schiavo analfabeta, Gideon Jackson, che fugge dalla piantagione Carwell nel Sud Carolina per combattere con i nordisti. Finita la guerra l’uomo torna a casa e diviene un leader della comunità degli ex-schiavi, imparando a leggere e scrivere. Viene eletto delegato alla convenzione di Charleston nel 1868 dove si discute del destino del nuovo Stato e in seguito membro del Congresso per il suo distretto a Washington. Nonostante la sua brillante carriera e i suoi sforzi per migliorare la vita dei confratelli, sul piano legale ed economico, Gideon – violentemente ostacolato dai grandi proprietari – deve affrontare difficili lotte per la sua sopravvivenza e quella del suo popolo. L’aspetto più affascinante di tali drammatiche vicende è la solidarietà che si crea fra i neri ed i bianchi poveri, egualmente emarginati dai grandi latifondisti ed egualmente pronti a battersi per una giustizia sociale che somiglia a una chimera. Bianchi e neri, guidati da Gideon, comprano insieme la piantagione Carwell e la coltivano con metodi rivoluzionari, grazie alla protezione delle truppe federali. Tuttavia l’esperimento non dura a lungo. Nel 1876 (l’anno in cui Custer fu sconfitto a Little Big Horn) l’esercito viene ritirato con conseguenze prevedibili. Attaccati violentemente dal Klu Klux Klan, capitanato da un odioso ex-schiavista, neri e bianchi alla fine soccombono, non senza avere dato una tale prova di dignità e di coraggio e di solidarietà da giustificare il commento del «New York Herald»: «Qui, a Charleston è stato condotto il più impossibile, il più utopistico, il più incredibile esperimento di tutta la storia».

La difficoltà di portare alla ribalta questo genere di problemi nasce da una difficoltà più generale di fare chiarezza su un periodo della storia degli Stati Uniti non certo limpido. Eppure i più onesti e coraggiosi intellettuali hanno più volte puntato il dito sul viluppo di interessi economici di coloro che hanno gestito la Ricostruzione, assai meno nobili dell’idealismo degli uomini come Lincoln. Del resto, a prescindere dalle pulsioni economiche, il comportamento stesso delle gerarchie al potere dopo la morte di Lincoln è estremamente ambiguo. Su questo argomento si è soffermato l’anno scorso Robert Redford in un film problematico, «The conspirator», dedicato al processo sommario e ai metodi estremamente autoritari dei giudici contro i presunti cospiratori che avevano preparato l’assassinio di Lincoln. Ma molto prima di lui, nel 1936 – con mezzi molti più limitati, con la scarsa documentazione di cui si disponeva allora e con il fiato sul collo del suo produttore-padrone, com’era tipico nella Hollywood classica – il grande John Ford girò un bel film, su sceneggiatura del liberal Nunnally Johnson, che affrontava con vigore gli stessi temi: «Il prigioniero dell’isola degli squali». In poche inquadrature, sintetiche e folgoranti, Ford mostrava senza mezzi termini che i giudici del processo di Lincoln cercavano solo un capro espiatorio per distrarre l’opinione pubblica dai problemi ben più gravi della Ricostruzione; e soprattutto che essi facevano parte di un sistema che scricchiolava da ogni parte, che permetteva a molti lestofanti di arricchirsi sulle spalle dei neri appena liberati, sfruttandoli odiosamente con uno spirito quasi peggiore di quello degli schiavisti del passato. In questo film bello e appassionato, lo struggente bianco e nero espressionista con le sue ombre profonde ha un senso estetico ed è ben diverso dalla fasulla semioscurità da spot pubblicitario di Spielberg. E ha un senso estetico ed umano altrettanto struggente la ricostruzione dell’assassinio di Lincoln che apre il film, nella quale, con una sublime dissolvenza, apparentemente casuale, una tendina di merletto scivola sul volto del presidente assassinato coprendolo come un velo funebre. Questo velo, che fa pensare al Velo delle Grazie di Foscolo, è il velo dell’arte che permette di stabilire la giusta distanza tra il furore della passione e la sublimazione della raffigurazione. Proprio quello che manca a Spielberg e ai suoi apostoli, che non hanno ancora capito che sbandierare è molto meno efficace di alludere e illudere.

(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.

Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 12 febbraio avevo ipotizzato: 1545: i conquistadores arrivano a Potosì; 1600: rogo per Bruno; 1804: muore Spallanzani; 1809: esce «L’origine della specie»; 1877: grandi scioperi nelle ferrovie Usa; 1882: nasce a Napoli Edmondo Peluso; 1886: nasce Eva Mameli; 1915: infame fucilazione del soldato Borsot; 1921: editoriale di Hitler; 1931: Schirru arriva a Roma per uccidere Mussolini; 1977: legge 903 sulla parità uomini-donne; 1979: conferenza sul clima; 2001: il Vaticano abolisce la pena di morte; 2002: ucciso sindacalista a Casal di Principe; 2011: a Palermo si dà fuoco un migrante. E a cercare un poco tante altre «scor-date» salterebbero fuori ogni giorno.

Molte le firme e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno all’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

 

 

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

  • Moltissimo interessantissimo, andro’ a cercarmi tutto quello che è possibile sull’esperienza “utopica” di Gideon ed i suoi Fratelli. Chi avesse titoli di libri ed altro mi fara’ felice segnalandoli.

  • Caro Fabio, parole chiare come le tue sono un incoraggiamento per chi è allergico all’ipocrisia, per chi ha il coraggio di esporsi, per chi non teme, anzi ricerca, il “confronto”.

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