Decolonizzare oggi

ne parlano Pietro Dalmazzo, Barbara Ofosu-Somuah e Caterina Maggi (articoli ripresi da jacobinitalia, comune-info, pagineesteri.it). Con un filmato e un altro link.

La nostra storia è ancora da decolonizzare – Pietro Dalmazzo

Ottant’anni fa la battaglia di Keren segnò il collasso dell’impero coloniale italiano. Una memoria che ancora oggi viene trasmessa in modo autoassolutorio

Tra il 9 e l’11 luglio 2021, per commemorare Angelo Del Boca, Rai Storia manda in onda il documentario I disperati di Cheren al quale lo storico aveva collaborato con il documentarista Massimo Sani. Il documentario, uscito per la Rai nel 1983 e disponibile qui integralmente, si muove tra Eritrea, Etiopia – all’epoca la prima era ancora occupata dalla seconda – e Italia, intervistando reduci della resistenza anti-italiana in Etiopia, italiani, inglesi e ascari propone una sintesi delle vicende che hanno caratterizzato la fine dell’Africa Orientale Italiana; fine causata dalla sconfitta nella battaglia di Keren (o Cheren) della quale il 2021 è l’ottantesimo anniversario. Anniversario che, nonostante sia stato completamente ignorato dal dibattito pubblico italiano, impone la necessità di riflettere sulla memoria lasciata dal disfacimento delle colonie in Africa Orientale.

Il collasso dell’occupazione italiana fascista nel corno d’Africa fu un processo che durò, teoricamente, quasi un intero anno solare: dal gennaio del 1941 al novembre dello stesso anno quando Guglielmo Nasi, rimasto isolato a Gondar, si arrese agli inglesi dopo pochi giorni di battaglia. La battaglia di Gondar, così come quella dell’Amba Alagi, furono solo le azioni conclusive di una guerra che l’Italia perse, di fatto, con la battaglia di Keren, dopo la quale gli inglesi occuparono velocemente tutta l’Eritrea e in poco più di un mese arrivarono ad Addis Ababa. La battaglia di Keren durò da inizio febbraio a fine marzo del 1941 e, stando alle testimonianze dell’epoca, fu violentissima. Le truppe fasciste erano comandate da Orlando Lorenzini e Nicolangelo Carnimeo e arroccate sulle alture intorno alla città di Keren si difendevano dagli attacchi di quelle britanniche guidate dal generale William Platt. In due mesi di battaglia le perdite furono altissime per entrambi gli schieramenti, ancora oggi vi sono alcune incertezze sui numeri ma, seguendo la ricostruzione di Del Boca, i britannici contarono circa 5.000 morti tra le loro file, mentre gli italiani 12.000.

La battaglia di Keren è generalmente riconosciuta dagli storici come l’evento che sancì la fine dell’impero italiano. Nella narrazione immediatamente successiva all’evento, in particolare da parte inglese soprattutto grazie al contributo di Compton Mackenzie, la battaglia venne considerata come una delle poche occasioni nelle quali l’esercito italiano combatté dignitosamente. Pur rimanendo un evento storico di culto, soprattutto su blog o siti internet legati ad ambienti militari,  questa vicenda ha uno spazio nel discorso pubblico quasi irrilevante. Il documentario già citato rappresenta probabilmente la più grande opera di divulgazione a proposito di questo evento. Nel 2019 venne ripreso in una puntata di una serie della Rai sulla Seconda guerra mondiale, condotta da Paolo Mieli e narrata da Carlo Lucarelli, che aggiunge alle immagini e voci del documentario del 1983 interviste ad alcuni storici italiani specializzati in storia del colonialismo. La puntata compie una ricostruzione storica delle vicende strettamente militari precisa, mostrando però alcuni passaggi problematici, come il definire il viceré d’Etiopia un eroe, o la presentazione acritica di alcune interviste ai reduci italiani di Keren.

La presenza di questo evento nel discorso pubblico va poco oltre questi due documentari, con alcune pubblicazioni di nicchia e l’intitolazione di alcune strade a protagonisti della battaglia. Il poco spazio dedicato alla vicenda si accompagna alla completa assenza di una problematizzazione de-coloniale di questo evento. Anche un documentario curato da bravi storici, come quello della Rai, non si interroga in maniera strutturale sulle ragioni d’essere, per esempio, degli ascari o sulle coercizioni implicate nel mantenimento di truppe coloniali.

L’assenza di una simile narrazione è un problema collettivo e può essere generalizzato a quasi tutte le esperienze di occupazione compiute per mano italiana. In questo caso specifico, risulta problematico perché l’analisi dell’evento e, soprattutto, della sua successiva memorializzazione in loco fornisce una serie di indizi interessanti sul funzionamento della narrazione coloniale che, a ottant’anni dalla fine dell’occupazione fascista, è necessario provare a ricostruire.

In primo luogo è necessario evidenziare come la battaglia di Keren venne combattuta da truppe che erano, per la maggior parte, formate da ascari e indiani che l’occupazione coloniale ha messo gli uni contro gli altri. Questo dato si riflette anche sulla stima dei caduti che vede circa 500 inglesi caduti a fronte di un numero tra i 4 ed i 5 mila indiani, mentre dall’altra parte circa 3.000 italiani e 9.000 ascari. Come accennato queste cifre hanno un qualche margine di errore e, come spiega Del Boca nel suo terzo volume a proposito degli italiani in Africa orientale, il conteggio delle vittime complessive risulta macchinoso perché spesso nei bollettini ufficiali le perdite delle truppe coloniali non venivano conteggiate.

In secondo luogo, davanti a questi numeri e alla pochezza del dibattito italiano a proposito, è interessante guardare allo spazio ricoperto da questo evento a Keren tramite l’analisi del cimitero militare italiano, principale luogo della memoria italiana dell’evento in loco. Keren oggi è una delle più importanti città Eritree, con i suoi centomila abitanti la seconda del paese, e il cimitero si trova nella sua area orientale. Iniziato nel ‘42, il memoriale venne completato nel 1950 a opera di cittadini italiani residenti tra Asmara e Keren con il nome di Cimitero Militare Italiano degli Eroi. Restaurato negli anni Novanta, oggi il cimitero ospita circa 1.200 lapidi, divise equamente tra italiani ed eritrei. Il memoriale si presenta con la scritta «EROI», in italiano, sulla cancellata d’ingresso. Al suo interno le lapidi sono divise in due file, da un lato le italiane, sulle quali viene riportato il nome del caduto o, in assenza di esso, la posizione occupata nell’esercito italiano con rari casi di ignoti. Dal lato opposto le lapidi dedicate alle truppe coloniali, queste non riportano alcun nome né posizione ma semplicemente la scritta, sempre in italiano «Ascaro ignoto». Dietro le lapidi eritree sventola un tricolore italiano, mentre al centro dello spiazzo vi è la tomba del generale Lorenzin con, alle spalle, un altare commemorativo. Adiacente all’altare vi è una targa che riporta una citazione, anch’essa in italiano, di Amedeo Guillet, ufficiale italiano in Africa durante il fascismo che dice:

Gli Eritrei furono splendidi. Tutto quello che potremo fare per l’Eritrea non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi.

La citazione di Guillet, che era in Eritrea in quanto italiano, fascista, occupante, ammette candidamente la natura coercitiva del governo coloniale in sé come regime che può chiedere sforzi impareggiabili a chi opprime senza avere la necessità di fornire nulla in cambio. Queste parole, seppure intrise di una vaga ammirazione per gli eritrei, esplicitano direttamente una prospettiva diseguale tra eritrei e italiani che viene reiterata e attualizzata dagli altri elementi che concorrono a formare l’aspetto del memoriale, proponendo una memoria dell’evento esclusivamente coloniale.

Il primo aspetto evidente che veicola questo tipo di memoria è il codice comunicativo espresso all’interno del cimitero. La scritta sull’ingresso, le lapidi, la citazione di Guillet sono elementi che non sono intelligibili a persone che non leggono l’italiano, rendendo la comprensione stessa del monumento esclusivamente appannaggio di chi è capace di capire la lingua dell’ex occupante. L’utilizzo esclusivo di una lingua, insieme alla presenza della bandiera italiana e alla centralità delle figure italiane nell’organizzazione dello spazio del memoriale fanno emergere un secondo elemento caratterizzante del luogo: l’italianità. Nonostante il cimitero si trovi in Eritrea, nonostante le vittime della battaglia furono in gran parte eritree e la dominazione italiana sia finita da ottant’anni i simboli caratterizzanti cercano di continuare a definire il luogo come italiano.

L’elemento più interessante si trova però nelle lapidi, queste ultime pongono indirettamente una riflessione su come la capacità di creare un discorso coloniale sia legata anche alla capacità di definire le persone e le cose che concorrono a esso. Il cimitero è definito un cimitero di eroi all’interno del quale, però, gli unici eroi che acquisiscono nome e definizione sono quelli italiani e bianchi. Gli altri risultano solamente un contorno confuso, dei quali si può evitare di sapere nome, ruolo nell’esercito o altro. Questi ultimi sono sepolti in questo cimitero, collocati in un’area che esprime italianità tossica da ogni lato ma non sono riconoscibili in questo luogo. Sono eritrei e la terra nella quale sono sepolti, in teoria, è la loro terra natia, ma il codice comunicativo con il quale vengono descritti non li rende intelligibili a nessuno se non come ascari e, nella logica dell’oppressore, non serve che sia diversamente. Sono stati soldati coloniali, destinati a essere carne da cannone in qualsiasi impresa il Fascismo decidesse di intraprendere, possono condividere lo spazio dei «nostri» una volta morti ma, in questo spazio, non hanno un’identità diversa da quella che avevano per gli italiani dell’epoca: quella degli ascari.

Questo luogo è un manifesto vivente della narrazione coloniale italiana, ne evidenzia non solo gli elementi coercitivi ma anche la costruzione, su questi stessi elementi, di un discorso con la capacità di creare un’identità complessiva agli elementi utili a mantenere questa coercizione, come lo furono gli ascari. Inoltre, questo luogo non è completamente assente nella storia recente delle relazioni diplomatiche tra Italia ed Eritrea. Se da un lato è stato oggetto di visite da parte di gruppi legati ad ambienti militari o di personaggi celebri che ne hanno approfittato per compiere uno scontato elogio dei rapporti coloniali tra Italia ed Eritrea, d’altra parte è necessario notare come l’esistenza di questo luogo sia stata legittimata anche da visite istituzionali come quella compiuta dalla vice-ministra agli affari esteri Emanuela del Re nel 2018.

In conclusione, la mancanza e, di conseguenza, la necessità di un processo strutturale di decolonizzazione culturale e sociale in Italia è dimostrata anche dall’esistenza di luoghi come questo. L’esistenza di un memoriale che perpetua la prospettiva coloniale italiana su un luogo che ha subito l’occupazione e le politiche coloniali italiane per più di mezzo secolo è in perfetta coerenza con il discorso istituzionale e culturale egemone sul colonialismo italiano. Discorso che, pur facendo vedere le prime crepe – in questo senso la traduzione in italiano uscita quest’anno de Il Re Ombra di Maaza Mengiste è un ottimo segnale – tende a minimizzare e auto assolversi da qualsiasi evento a proposito dell’occupazione coloniale, reagendo anzi con prontezza e violenza quando parte della società civile, in senso gramsciano, tenta di ricalibrare questo discorso in una prospettiva più consapevole.

Davanti  a questo discorso è necessario ricordare l’esistenza di questo memoriale, così come l’anniversario del collasso dell’impero italiano, per ribadire come l’esperienza coloniale italiana non possa considerarsi un fenomeno concluso senza passare per un processo di decolonizzazione strutturale che coinvolga, tra le altre cose, lo studio del nostro passato. Il nostro passato coloniale non può più essere raccontato senza essere problematizzato in quanto tale, diventa inaccettabile dal punto di vista etico e morale raccontare la storia, per esempio, della battaglia di Keren senza evidenziare le distorsioni strutturali che portarono 4.000 indiani e 9.000 eritrei a morire combattendo gli uni contro gli altri per gli interessi delle nazioni colonizzatrici.

*Pietro Dalmazzo ha studiato storia presso l’Università di Bologna. Vive in Inghilterra dove è dottorando in Italian Studies presso l’Università di Durham con un progetto di ricerca a proposito dell’ imperialismo culturale italiano nei Balcani durante il Fascismo.

https://jacobinitalia.it/la-nostra-storia-e-ancora-da-decolonizzare/

 

L’incompiuto riconoscimento del passato coloniale – Barbara Ofosu-Somuah

In questo momento sembra assai difficile eppure ci sono buone ragioni per ricordare questi anni non solo per la pandemia, ma anche per il rafforzamento del movimento mondiale delle donne e per l’emersione di quello per il clima e del movimento globale per le vita nere. Quest’ultimo ci ricorda che per difendersi dal razzismo dobbiamo imparare a riconoscere prima di tutto i diversi lasciti dell’universo creato da schiavitù e colonialismo in ogni angolo del mondo. Saidiya Hartman in Perdi la madre (tamu ed., di cui pubblichiamo l’introduzione) mostra come la schiavitù non sia per nulla un episodio chiuso della storia. Anche in Italia si afferma la necessità di guardare all’incompiuto riconoscimento del passato coloniale in Libia, Etiopia ed Eritrea. Dobbiamo riconoscere, ad esempio, la violenza del razzismo sistemico che uccide lasciando morire i migranti nel Mediterraneo e nella vita di ogni giorno come dimostrano le vicende, tra gli altri, di Willy Monteiro Duarte, Jerry Essan Masslo, Soumaila Sacko, Abdul William Guibre, Assane Diallo, Diop Mor, Samb Modou e Idy Diene

Fin dalle prime pagine di Perdi la madre, Saidiya Hartman chiarisce che «se la schiavitù rimane una questione aperta nella vita politica dell’America nera, non è a causa di un’ossessione antiquaria per i giorni andati o per il peso di una memoria troppo duratura, ma perché le vite nere vengono ancora svalutate e messe a repentaglio da un calcolo razziale e da un’aritmetica politica consolidatisi secoli fa». La schiavitù e i suoi lasciti, ovvero il mondo creato da schiavitù e colonialismo, fanno ancora oggi parte del vissuto delle persone nella diaspora nera. Le conseguenze di ciò sono evidenti nelle storie di violenza quotidiana che le persone nere subiscono ovunque nel mondo, e contro tale violenza è altrettanto evidente che i movimenti antirazzisti internazionali abbiano un ruolo necessario. In Italia, così come negli Stati Uniti e altrove, il movimento globale per le vite nere è riemerso per discutere pubblicamente la realtà della nerezza/dell’essere nerə, al di là dei confini nazionali, e per amplificare le lotte di resistenza contro il razzismo. Attivistə afroitalianə, che da tempo lavorano per affermarsi all’interno del dibattito italiano sull’identità, hanno guadagnato il centro della scena per promuovere un discorso di giustizia razziale.

Lunedì 25 maggio 2020 due avvenimenti si sono fatti strada, attraverso i social media, nella coscienza globale. Al Central Park di New York, le vite di Amy Cooper e Christian Cooper, una donna bianca e un uomo nero senza legami di parentela, si intrecciavano in un incontro. Facendo eco al duraturo mito della minaccia insita nella mascolinità nera, Amy Cooper chiamò la polizia per denunciare Christian Cooper, accusandolo falsamente di aver attentato alla sua vita per averle chiesto di mettere il guinzaglio al suo cane, come d’altronde richiedeva il regolamento del parco. Questa vicenda ricorda l’episodio che aveva portato alla morte di Emmett Till, un quattordicenne afroamericano linciato in Mississippi nel 1955 dopo essere stato accusato di aver importunato una donna bianca. Le accuse contro Emmett Till furono poi ritirate, decenni più tardi, dall’accusatrice.

Nello stesso giorno, a Minneapolis, un uomo nero di nome George Floyd giaceva steso per terra senza vita dopo che un poliziotto bianco se ne era stato con le mani in tasca a premergli un ginocchio sul collo per otto minuti e quarantasei secondi. Altri tre poliziotti erano rimasti a guardare, impassibili, mentre Floyd supplicava per la sua vita dicendo «non riesco a respirare» e singhiozzava invocando la madre. La polizia era stata chiamata sul posto per indagare su una denuncia ai danni di Floyd in cui si sosteneva che questi avesse usato una banconota falsa da venti dollari in un negozio di alimentari. Venti dollari. Era stato soffocato e ucciso, mentre altri stavano a guardare, per venti dollari.

Avevo guardato entrambi i video rannicchiata a letto. Già mi sentivo impietrita di fronte a una pandemia che stava colpendo in misura sproporzionata comunità nere, latine e indigene negli Stati Uniti, e in cordoglio per gli omicidi di Ahmaud Arbery e Breonna Taylor, divenuti da poco di dominio pubblico. L’anno era iniziato da appena cinque mesi e già la morte delle persone nere, a tratti visibile e allo stesso tempo non visibile, ne era il greve, sfibrante filo conduttore. Il ripetersi incessante di immagini di dolore, trauma, sofferenza e morte nelle comunità nere, riprodotte ovunque a ciclo continuo, mi rammentava nuovamente della precarietà delle vite nere. Guardando il poliziotto bianco, mani in tasca, in ginocchio su Floyd che invocava sua madre, mi pareva quasi di sentirlo dire: «Chi sei tu, per avere una madre? Chi sei tu, per chiamarla?»

Mentre assistevo alla violenza razzista di questi eventi, al modo in cui le vite nere venivano esibite come qualcosa di sacrificabile, vidi il mondo intero reagire in protesta. Gli Stati Uniti si percepiscono spesso come l’epicentro della violenza contro i neri, così come delle innumerevoli forme di resistenza delle persone nere, ma non sempre lo sono. Tutt’altro. Questi atti di violenza sono comuni in tutta la diaspora nera. Questa violenza quotidiana dà sostanza all’eredità della tratta degli schiavi e ne amplifica l’eco presente nella xenofobia di oggi. Questa eco è ciò che Saidiya Hartman chiama «la vita postuma della schiavitù».

In Italia, attivistə italianə nerə, seguendo l’impulso della tradizione radicale nera che si è andata costruendo al di là dei confini imposti dalla politica, hanno contestato la nozione, sostenuta dall’Italia bianca, che il razzismo sia solo un problema americano. Al contrario, hanno ribadito che simili atti di violenza avvengono anche in Italia. Sebbene i diversi contesti nazionali influiscano sui particolari delle vite nere, in Italia una nuova generazione di afroitalianə si batte affinché la società riconosca le forme tangibili in cui si presenta la violenza anti-nera nel paese. Questa violenza è rappresentata dal razzismo sistemico con cui gli e le afrodiscendenti devono confrontarsi in Italia. Questa violenza si rinnova nel cauto distacco delle istituzioni italiane dai delitti e dai soprusi ai danni delle persone nere in Italia, come nel caso degli omicidi di Willy Monteiro Duarte, Jerry Essan Masslo, Soumaila Sacko, Abdul William Guibre, Assane Diallo, Diop Mor, Samb Modou, e Idy Diene. Questa violenza è inscritta nelle fondamenta razziali delle leggi di cittadinanza. Lo ius sanguinis permette a chiunque sia in grado di dimostrare di possedere sangue italiano l’accesso alla cittadinanza, a prescindere dalla propria esperienza di vita in Italia, mentre nega tale diritto a chi è natə e cresciutə in Italia da genitori immigrati.

La violenza contro le persone nere in Italia si estende anche oltre i confini nazionali. Innumerevoli rifugiati e richiedenti asilo, molti dei quali provenienti dall’Africa, sono infatti morti annegati nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, mentre l’Italia rifiutava il permesso d’attracco alle imbarcazioni su cui viaggiavano. Questa violenza anti-nera è alla base dell’ascesa della destra a livello internazionale; in Italia, i tentativi di ogni governo di rimpatriare gli immigrati rendono visibile la diffusione di una cultura politica reazionaria, che si riflette anche nell’insistenza con cui gli italiani bianchi continuano a chiedere alle persone nere la loro provenienza, chiamandoli stranieri o intimandogli di «tornare nel loro paese» laddove questi esprimano una qualsiasi critica alla società e alle leggi italiane.

Non c’è momento migliore di questo per rendere disponibile in Italia il pensiero di Saidiya Hartman. Ripercorrendo il suo viaggio da New York al Ghana, Hartman cerca una storia fatta di niente: quella dell’espropriazione coloniale e della schiavitù razziale. Hartman scrive che la schiavitù non è un episodio confinato al passato; la sua vita postuma si estende al presente. Si presenta in molte forme, dalle leggi di cittadinanza alle genealogie frammentate, tracciando storie che offrono più domande che risposte. In questo modo, il suo lavoro offre un varco che in Italia può essere attraversato per riflettere sul passato coloniale di questo paese e sulle sue manifestazioni contemporanee. Ciò che Hartman offre è una risoluta immersione nella storia della schiavitù e nelle ossessioni che essa ha generato. Il suo lavoro crea uno spazio per riconoscere la capacità d’azione delle popolazioni schiavizzate, insistendo nel ribadire la loro presenza nelle nostre vite. Così facendo, afferma la possibilità di rivendicare, anche quando privi di nome, i propri antenati e la loro umanità.

Seppure l’obiettivo primario sia quello di riportare alla luce le storie individuali di africanə catturatə e schiavizzatə, Perdi la madre affronta temi che possono essere di grande rilevanza anche in riferimento all’essere nerə e alla violenza razzista in Italia. L’esplorazione di Hartman della persistente eredità della schiavitù evoca due temi principali: l’interminabile ricerca di una casa e di un senso d’appartenenza per le comunità della diaspora nera; la sensazione costante di vivere in un perpetuo stato di straniamento. Questo risulterà familiare alle lettrici afroitalianə e contribuirà a contestualizzare la loro esperienza per i lettori bianchi. In Perdi la madre, Hartman narra dell’essere straniera, estranea, forestiera, e della sua esperienza in quanto americana nera in viaggio attraverso il Ghana, vissuta nella convinzione che quel senso di alterità, parte integrante della sua esperienza negli Stati Uniti, si sarebbe dissipato al suo arrivo nel continente africano. Eppure, anche in Ghana Hartman si rende conto di essere, di fatto, una straniera, «un seme errante privato della possibilità di mettere radici». Quel senso di alienazione e di perdita, indifferente ai confini, può rivelarsi simile al sentimento di chi è escluso dall’appartenenza all’Italia.

Il movimento transnazionale per le vite nere, che in Italia si declina come lotta per la revisione delle leggi di cittadinanza e per l’affermazione di un senso di appartenenza afroitaliano, pone al centro del dibattito la necessità di considerare queste forme strutturali di razzismo come radicate nella storia coloniale. Anche in Italia, infatti, si afferma la necessità di guardare all’incompiuto riconoscimento del passato coloniale in Libia, Etiopia ed EritreaPerdi la madre offre risorse e riflessioni di grande valore per le italiane nere che si stanno mobilitando affinché l’Italia riconosca il suo passato e il modo in cui esso si manifesta nel presente. Nel conquistare il proprio spazio e nel lottare per la propria visibilità, le storie ed esperienze degli afroitaliani trovano uno specchio in ciò che Saidiya Hartman scrive in Perdi la madre. Il laborioso percorso per l’affermazione dell’esistenza dei neri, per la creazione di significato e per la resistenza, è fondamentalmente relazionale e si sviluppa in una conversazione transnazionale. In questo momento in cui le italiane nere lavorano per articolare le specificità del razzismo anti-nero e delle politiche di appartenenza in Italia, Perdi la madre aiuterà a riaffermare il bisogno e la necessità di una maggiore solidarietà all’interno della diaspora nera, riconoscendo le storie e le lotte di coloro che l’hanno vissuta o la stanno vivendo.

A distanza di alcuni anni dalla sua prima pubblicazione, il messaggio di Perdi la madre risuona ancora in tutta la sua rilevanza, insistendo sull’importanza di conoscere storie non documentate o lasciate ai margini di storie più conosciute. Saidiya Hartman crea uno spazio per affermare complessità e incompletezza, lezioni di grande valore che trovano eco nei sentimenti di tutta la diaspora nera.

https://comune-info.net/lincompiuto-riconoscimento-del-passato-coloniale

QUI IL DOCUMENTARIO DI MASSIMO SANI

 

 

L’attivismo social delle donne indigene, online contro il colonialismo – Caterina Maggi

Sono l’orgogliosa figlia di mia madre/ non abbasserò la mia voce” è il testo di una canzone riportato in un reel di sensibilizzazione dell’attivista e cantante Shina Nova, che ha raggiunto dieci milioni e mezzo di visualizzazioni (cioè quasi sei volte i suoi 1,7 milioni di seguaci). La particolarità? Shina Nova, figlia d’arte di un’altra cantante Kayuula Nova, è (come la madre) una ragazza inuk cioè un’appartenente al popolo Inuit, il gruppo etnico nativo dislocato in Canada e parzialmente nella zona Nord degli Stati Uniti. Gli Inuit, insieme ai “cugini” Yupik, costituiscono la grande famiglia dei gruppi etnici autoctoni delle fredde aree settentrionali del pianeta. E sono stati, come altri gruppi indigeni, vittima di un olocausto collaudato e feroce da parte dei colonizzatori coevi e successivi alle scoperte di Colombo. Il video di Shina Nova è un messaggio di denuncia contro un’aggressione verbale subìta, da parte di una persona che le ha detto che avrebbe “preso uno straccio per cancellare quei segni”. I segni in questione sono i tatuaggi tradizionali, che Shina ha deciso di farsi imprimere sul volto in un atto di amore per le proprie origini. Il reel ha velocemente raggiunto milioni di utenti e raccolto solidarietà in tutto il mondo.

Relegati in riserve come carceri a cielo aperto, in territori ridotti al lumicino non solo dalla segregazione, ma anche da attività ambigue legate all’estrazione petrolifera (come la famigerata Coastal Gaslink CGL), i nativi hanno saputo però sfruttare uno strumento “white biased” come un “cavallo di Troia” perfetto, raggiungendo milioni di persone e riuscendo a sensibilizzare non solo l’opinione pubblica canadese (e in parte statunitense) ma anche quella del vecchio continente, permettendo tra l’altro agli attivisti delle minoranze etniche europee di “venire alla luce”. Si tratta dei social network, costruiti da bianchi per altri bianchi e spesso responsabili di censura e “adombramento” (shadow ban in inglese) sia nei confronti degli indigeni americani sia nei confronti di altre comunità in protesta (lgbtq+, minoranze di Medio ed Estremo Oriente etc.). Il movimento LandBack e l’Orange Day diventano virali, anche attraverso sketch brevi che diffondono approfondimenti e musica alternativa in lingua mista o nativa

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Buttare giù le statue serve a elaborare la storia

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