15 ottobre: basta ipocrisie

di Giorgio Monestarolo

I fatti di sabato scorso a Roma meritano un commento senza ipocrisie. Ragioniamo in termini effettuali. Analizziamo gli attori coinvolti. Comincio non a caso dai media: gli scontri di piazza sono una polpetta troppo ghiotta per non essere addentata con succulenta voracità; per due o tre giorni si possono spacciare emozioni forti, “indignaziones” a piene mani, lezioni morali sulla non violenza a raffica e via dicendo. Intanto si vendono copie e inserzioni pubblicitarie, e poi si ricomincia con un’altra emergenza assolutamente, dico assolutamente, sensazionale, irrinunciabile, da vita o morte. La realtà dei problemi rimane invece tutta sul tappeto. La disoccupazione, i bassi salari, la fatica di chi sente tutto il peso sulle proprie spalle li mettiamo in congelatore per scaldarli alla prossima manifestazione (ma solo se riesce a bucare il video come evento). Ognuno fa il suo mestiere, è vero, però è giusto ricordarsi che il giornalismo che cerca la verità è finito da un bel pezzo e nelle redazioni dei media importante è alimentare lo show business, forse più che nelle redazioni artistiche delle televisioni generaliste.

Passiamo ai “cattivi”. Nulla di nuovo nell’azione della “teppaglia”, dei “neri”, degli “incappucciati”. Da quando vado a manifestazioni una parte di ciò che è stata l’autonomia operaia ha sempre reiterato il solito copione: avanguardia violenta che punta a mobilitare il resto del corteo attraverso forzature di piazza. Sono cambiati i soggetti, la cosiddetta “analisi” fa sempre acqua, ma la sostanza è la stessa. Una parte dei ragazzi in azione sabato era legata a settori organizzati di alcuni centri sociali, di alcune aree del movimento antagonista e anarchico. Poche decine di persone, al massimo qualche centinaio. Il loro obiettivo è semplice. Prima di tutto è auto-referenziale: più alta è la tensione, più protagonismo militare metto in piazza più cresco come adesioni e azzero le altre forze che si muovono accanto a me, con altre idee e altre strategie. Secondo, sposto il conflitto politico sul terreno dell’ordine pubblico. Qui non c’è bisogno di fare tante riflessioni: da una parte il potere e chi lo difende dall’altra chi lo contesta. La logica della rivolta non è quella di vincere ma quella di spaventare, di minacciare, di fare capire che la situazione potrebbe esplodere. I “cattivi” ritengono così di svolgere onestamente il ruolo di un’avanguardia di classe capace di spaventare lo stato e i padroni e di indicare una via senza chiacchere ai soggetti sociali che pagano la crisi. Il punto sta nella credibilità della minaccia. Se ad operare violentemente sono i professionisti, cioè il “cetino” dell’antagonismo, non si spaventa nessuno. Se invece a muoversi sono frammenti del tessuto sociale, soggetti del lavoro, studenti, disoccupati, allora la musica cambia (e nel giro di poche ore il “cetino” antagonista è spazzato via, rimanendogli come alternativa o lo sciogliersi nel movimento, adeguandosi alle nuove regole, oppure separarsi e abbracciare il gioco al rialzo della violenza spinta sempre più in alto). Allo stato dei fatti accaduti, il “cetino” ha vinto la sua battaglia autoreferenziale, ma non è chiaro quanta adesione abbia raccolto fra i manifestanti. Dall’interno potranno essere soddisfatti, ma in verità quanti spontaneamente hanno seguito il loro esempio ? Quanti senza essersi già prima decisi allo scontro si sono uniti alle sassaiole e ai saccheggi ? Qui il numero, la quantità, è qualità, è sostanza. Molto dello scenario politico “di piazza” e non solo dei prossimi mesi dipende dall’effettivo grado di adesione spontanea alla proposta del “cetino”.

Passiamo invece al “cetone”, cioè ai promotori della manifestazione che non è affatto un fenomeno di indignazione spontanea come in Spagna, cioè un fenomeno che ripoliticizza masse da lungo tempo estranee alla politica, ma è una manifestazione chiamata e organizzata da un ceto di professionisti dell’azione dal basso, di intellettuali, di sindacalisti, di sindacalisti di base, di ambientalisti, di movimentisti per l’acqua pubblica ecc. Protagonisti a tutti gli effetti di una lotta di resistenza, a volte vittoriosa a volte perdente, contro le politiche anti-sociali propugnate, sebbene con significative differenze, da Prodi e Berlusconi dal ’94 ad oggi. Un ceto che vota, che si divide fra i partiti della sinistra, che a volte non vota, che si astiene, che si unisce su alcune battaglie ma che è incapace di elaborare una sintesi autonoma capace di renderlo un soggetto politico nuovo a tutti gli effetti. Il cetone ha preso una solenne legnata: ha mobilitato centinaia di migliaia di persone ma ha dimostrato di non saperle né guidare né proteggere. Ha dichiarato, per l’ennesima volta, che senza i partiti veri, senza i mediatori (che poi alla fine non riescono più a mediare, e qui sta la loro debolezza strutturale), il suo lavoro è solo quello del portatore d’acqua. Grande delusione, perché fra gli obiettivi impliciti di questa manifestazione vi era quella di iniziare un percorso diverso, di trovare negli indignados un soggetto abbastanza grande da poterli tenere tutti uniti, da avviare cioè quel processo di formazione politica nuovo che tutti nella sinistra alternativa si aspettano, ma che inesorabilmente non arriva. Da Genova in avanti va avanti la stessa scena: c’è un vuoto da colmare, la rappresentanza del lavoro, ma i rivoletti non riescono a farsi fiume. Ci vuole forse ancora tanta acqua, tanta pioggia nuova: i temporali all’orizzonte erano promettenti ma i rivoli sono stati presi in contropiede. Se alla prossima manifestazione, a esempio, ci sarà un servizio d’ordine comune, si sarà fatto un passi avanti, il cetone di base avrà cominciato a coagularsi in un partito (orrore, orrore).

Anche il governo ha giocato la sua partita, impartendo chiari ordini alla polizia. Era patetico vedere in piazza S. Giovanni due blindati fronteggiare qualche centinaio di ragazzi. Era evidente l’intenzione di lasciare fare, di non ostacolare le violenze per sfruttare un poco i dividendi della paura. Tutti sanno naturalmente che per questo governo rimontare nei consensi è un’impresa impossibile: ma in politica si vive alla giornata. Al governo un poco di minaccia di caos torna utile, è un piccolo balsamo per dichiarazioni appassionate legge e ordine. Insomma il “black block” (che ridere) per il governo, come per i media, sono come il maiale di cui non si butta mai niente.

I partiti della sinistra, che non si sono fatti vedere in piazza attraverso i loro leader, hanno ovviamente molto da perdere. Devono essere fra chi protesta, perché i voti sono tanti. Devono però dividere i buoni dai cattivi, devono tenere lontano le violenze (spontanee e no): il dolore, la sofferenza e la frustrazione sociale devono rimanere parole, slogan utili al gioco della rappresentazione. Non possono mai veramente entrare in scena direttamente, altrimenti il loro ruolo di attori politici scompare, perde senso: i monopolisti del piagnonismo di sinistra non sopportano proprio che la gente si incazzi per conto proprio. I leaders vogliono manifestazioni piene di “gioia”, di “colori”, di “allegria”. Oppure vogliono compatire, indignarsi solo loro: chi più chi meno, quante capelli si è strappato Bersani per i disoccupati ? E Vendola, quanto dolore, quante lacrime, versate addirittura sulla sofferenza di intere generazioni ? Rappresentare significa mediare, ma i partiti di sinistra non possono mediare alcunché: vogliono governare senza mettere in discussione il potere della finanza e degli imprenditori. Sono talmente timidi che vengono scavalcati a sinistra dalla stessa leader di Confindustria. Per loro la situazione è dunque molto pericolosa. Se cresce un movimento di protesta autonomo rischiano molto. Se vogliono mediare devono radicalizzarsi e non possono. Se ignorano la protesta si suicidano. Per loro la situazione ottimale è che i portatori d’acqua facciano il loro mestiere di portatori d’acqua e controllino meglio la piazza. Ma i leaders, nel ruolo di persuasori, sono molto deboli e le cinghie di trasmissioni sono molto allentate.

In conclusione, gli scontri di sabato hanno realmente cambiato il quadro dei rapporti di forza e introdotto una variabile nuova. La minaccia del conflitto sociale. La situazione politica evolverà, d’ora in avanti, anche in base a come i vari attori utilizzeranno a loro vantaggio la minaccia del conflitto sociale  (questo significa che, a esempio, l’estrema destra darà presto un colpo, giusto per ricordare che esiste anche lei). C’è ancora tempo prima che il conflitto sociale esploda realmente, dipendendo in larga misura dai provvedimenti che il governo, questo e il prossimo, dovranno adottare nei confronti dell’evoluzione della crisi del debito. Sarebbe interessante che le forze che si dichiarano a favore del cambiamento sociale, e non alla conservazione delle ineguaglianze abissali che caratterizzano la società italiana attuale, riflettessero prima di agire, e utilizzassero la minaccia della protesta nel modo migliore possibile: come forza d’urto per rinnovare il ceto dirigente, come forza per consigliare prudenza a chi vuol far pagare il conto del banchetto a coloro che hanno saltato il pranzo, come stimolo per tutto il “cetone” a sciogliere le proprie ambiguità, ad assumersi responsabilità dirette. I tempi sono veramente cambiati per tutti, ma che le cose vadano in una direzione piuttosto che in un’altra dipende anche, in una certa misura, dal grado di maturità e di lucidità delle forze, degli individui che in tutti questi anni hanno praticato le varie forme di resistenza al degrado messo in scena dalla classe dirigente italiana (tutta compresa). Vogliamo parlarne ?

BREVE NOTA

Con l’intervento di Giorgio la discussione sul 15 ottobre e dintorni è aperta, persino sollecitata – se volete. Anche con un occhio all’ultimo post di Mark Adin, il quale volutamente si poneva fuori dal caso concreto come (forse…) è giusto che si ragioni  e ai relativi commenti. Su codesto blog, come d’abitudine, nessuna/o sarà censurata/o  (beh i comunicati del ministro Marroni o quelli di Forza Nuova non vengono qui pubblicati per motivi politici oltre che estetici). A me capita, con questo intervento di Giorgio, d’essere molto d’accordo su alcune questioni e abbastanza in disaccordo con altre. E’ per questo che ci si confronta no? Proverò a dire anch’io il mio punto di vista, appena il ciclo febbre-antibiotici-impiccivari mi lascia respirare. Ci voglio pensare con gran calma e continuare a confrontarmi perchè mi sembra che siamo a un passaggio storico cruciale. Uhhhhhh, che parolone (“passaggio storico cruciale”): ma se, per una volta, fosse vero? Infine ricordo che il Berlusconi nominato, di sfuggita, da Giorgio è noto sui codesto blog come P2-1816 dal numero della sua tessera nella loggia Propaganda-2 piena di militari golpisti, fascisti, cicchitti e… giornalisti. (db)

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

10 commenti

  • Di là dai dettagli l’intervento mi trova sostanzialmente d’accordo. Credo però sia assolutamente necessario spendere due frasi sul problema dell’assenza di un partito che assuma nello stesso tempo la direzione complessiva dei movimenti e funga da sponda istituzionale. Questa assenza è funzione della ancora relativa scarsa presenza politica della classe operaia (che è sotto attacco e ha difficoltà a formulare risposte offensive), unica forza in grado di offrire una alternativa globale al sistema (prospettiva essenziale per approdare alla costituzione di un Parito); ma che è anche funzione della pessima prova che i partiti hanno fornito a partire dagli anni settanta, PCI in testa; e più ancora funzione della dialettica centralizzazione-democrazia, nella quale le forze organizzate a tutt’oggi tendono a assumere la centralizzazione come obiettivo principale (e i movimenti, come è naturale, quello della democrazia partecipata).
    Solo una ampia rivoluzione culturale che sradichi (o quantomeno attenui) nelle teste di coloro che nel prossimo futuro andranno a occuparsi di politica il terrore comune a ogni privilegiato nei confronti dei movimenti di massa (il 99% di quelli di oggi sono irrecuperabili) potrà porre le premesse per la fondazione di un partito in cui effettivamente la necessità di centralizzare le forze si concili con quella di espandere le forze. Funzione quest’ultima possibile solo quando le masse avranno un ruolo decisivo e diretto nella gestione dei loro interessi. Perché questa funzione se la sono presa, realizzando la rivoluzione culturale di cui sopra; ma anche perché, a quel punto, non troveranno troppi ostacoli nell’impresa di mantenerla.

  • Manca un riflessione sul comportamento del “cetone” nei confronti del “cetino”, per utilizzare due espressioni a dir poco infelici presenti nel post, in merito all’utilizzo di immagini e video publicati in ogni dove per aiutare le forze dell’ordine a identificare quelli cattivi cattivi cattivi che tiravano le pietre. Della serie sbatti il mostro in prima pagina e fatti infinocchiare dai mas media come una qualunque casalinga di Voghera. Mi riservo un commento più completo a breve perché adesso non ho molto tempo.
    Ciao

  • Brutto articolo, con qualche considerazione condivisibile sulla sinistra istituzionale… però che fatica! sono tre giorni che commento dappertutto! 🙁

    Quanti pregiudizi sui movimenti antagonisti… della peggior specie, pregiudizi e falsità che vengono da lontano… addirittura una minuziosa descrizione del pensiero e della strategia di questi movimenti, o ci sono contatti molto diretti o è telepatia… tutto legittimo, per carità. E cosa si oppone a questi “autoreferenziali”?

    (…)”utilizzassero la minaccia della protesta nel modo migliore possibile: come forza d’urto per rinnovare il ceto dirigente, come
    forza per consigliare prudenza a chi vuol far pagare il conto del banchetto a coloro che hanno saltato il pranzo, come stimolo per tutto il “cetone” a sciogliere le proprie ambiguità, ad assumersi responsabilità dirette. I tempi sono veramente cambiati per tutti, ma che le cose vadano in una direzione piuttosto che in un’altra dipende anche, in una certa misura, dal grado di maturità e di lucidità delle forze, degli individui che in tutti questi anni hanno praticato le varie forme di resistenza al degrado messo in scena dalla classe dirigente italiana (tutta compresa).”(…)

    …rinnovare il ceto dirigente…

    io invece dico che: Se il bersaglio delle lotte sociali non è “il sistema” ma le persone che lo incarnano di volta in volta, ogni espressione di dissenso assumerà la forma (e la sostanza) di una ipocrita condanna borghese, tanto politicamente corretta quanto inefficace e pericolosa. Il pericolo deriva dal tipo di critica politica impostata sul personalismo. Affermare che un’equa amministrazione della cosa pubblica dipenda dall’onestà di chi detiene le leve del potere, implica la legittimazione del sistema come struttura politico-economica adatta al buon governo. Accettare la visione de “l’uomo giusto al posto giusto” impone una fuorviante “questione morale” – che tanti governi democristiani hanno venduto con successo ai comunisti parlamentari compiacenti o sulla via del tramonto – che occulta il nocciolo del problema: il sistema capitalista.

    Qui nessuno propaganda azioni militari, il problema non è violenza-non violenza, questa è la manipolazione dei media, ma noi non ci cadiamo, vero? In piazza non c’erano 30 arroganti, e nemmeno qualche centinaio a resistere, questo l’ha detto Minzolini & co, ma noi non ci cadiamo, vero? Alcuni attacchi durante il corteo sono stati davvero errati, sconsiderati e pericolosi per gli altri. In piazza la storia è stata molto diversa… e non si parla di rivoluzione e nemmeno di insurrezione, non c’è alcun programma, che io sappia, e ne so quanto voi… Però resitere è un valore, o no?! Una cosa è essere intimoriti da cose del genere, veramente terrorizzanti, viste da vicino, un’altra cosa è la delazione. Anche se dopo tanti anni di soffiate del PCI, e non solo soffiate, alle delazioni dovremmo essere abituati. Nulla di nuovo, insomma. Proviamo a concentrarci sull’efficacia reale, come forma di pressione, di manifestazioni colorate e danzate al ritmo di musica reggae, incanalate in percorsi per deficienti – Italia unico paese a blindare i palazzi del potere – fossero anche state di un milione di persone. Proviamo a riflettere su come far coesistere diverse modalità di lotta (anche togliendo credito agli sfascia-bancomat e incendiari di utilitarie). Proviamo a capire se c’era un disegno dietro il sabotaggio (della polizia) del concentramento finale in piazza. Proviamo a capire il vergognoso, falsissimo collegamento tra Val di Susa e gli scontri a Roma, un disegno pericolosissimo, una manipolazione da dittatura vera e propria, che andrebbe a favorire, attraverso una gigantesca repressione nazionale che è già cominciata, i veri interessi economici in gioco (miliardi e miliardi di euro). Proviamo a capire cosa sono diventati alcuni irreprensibili compagni che si sono rivolti alla polizia… . Ho mischiato un po’ le carte, in un elenco che non va per ordine di importanza. Poi, il discorso su violenza sì/violenza no, lasciamolo agli altri, noi siamo gente seria…

    Fabio Fortuna: “ho 53 anni. oggi inorridisco. inorridisco perche’ il movimento no global e’ reso capro espiatorio di una ‘sinistra (?) che da 40 anni e’ inattiva, inorridisco perche’ ci si scandalizza per il gesto di rabbia e si dimentica che il nemico sono le corporations e le banche mondiali con la complicita’ dell’illusoria democrazia parlamentare, inorridisco perche’ puo’ succedere un altro carlo giuliani con… la complicita’ di uno stato di polizia. tutti a urlare ‘fascisti e hooligans’ per le azioni di rabbia e tutti a credere che i cambiamenti vengono con i girotondi. inorridisco perche’ tutti sono bravi ad applaudire quando le immagini in tv mostrano cairo ed atene in rivolta ma poi si scandalizzano per due focherelli a roma. cosa fa la ‘sinistra vendoliana e leccaculo del vaticano, e i sindacati fasulli oggi? tutti a casa. invece di render cronica la rivolta, colpire i centri di potere reali, indire uno sciopero generale e una occupazione di radio locali etc, tutti trincerati dietro alla menzogna della ‘non violenza’.”

    Il 17/10/2011 18:38, CobasSindacatodiClasse ha scritto:
    comunicato e conferenza stampa
    Lo slai cobas per il sindacato di classe di Taranto a Roma c’è stato con
    una delegazione dei disoccupati organizzati e precari che da tempo lotta
    per il lavoro e non siamo andati a Roma per passeggiate e comizi finali
    … ma per portare lotta e ribellione e quindi abbiamo visto altro di quanto
    scrivono i mass media. Noi siamo con i ribelli di roma perchè ‘è giusto
    ribellarsi! ed è passato il tempo della tardiva ‘indignazione’.. è una
    vita che siamo indignati Cos’è una vetrina rotta di una banca di fronte
    alla rapina mondiale della vita dei salari, del lavoro, della salute,
    delle case, dell’acqua che le banche e la finanza hanno provocato come
    anello interno al sistema del capitale ? Criminali sono coloro che ci
    hanno ridotto miglioni di persone in queste condizioni ! Criminali sono
    coloro che usano la violenza di stato e il potere dei ricchi e dei forti
    contro le masse ! Criminali sono politici e governanti che sono corrotti
    e arricchiti e che continuano a pretendere di governarci con la forza !
    Per questo siamo solidali con i ribelli di roma! Noi vogliamo i
    banchieri in galera e i giovani arrestati a Roma liberi ! martedì 18
    alle 18 conferenza stampa della delegazione dei manifestanti dello slai
    cobas a roma in via rintone 22 per raccontare un’altra verità e per dire
    chiaro a tutti ‘ non è che l’inizio !
    slai cobas èer il sindacato di classe taranto cobasta@libero.it

    ‎”E’ meglio essere violenti, se c’è violenza nei nostri cuori, che vestire i panni della non violenza per nascondere l’impotenza. C’è speranza perché il violento diventi non-violento. Non c’è speranza per colui che è impotente”.
    (Mahatma Gandhi)

    quando son tutti d’accordo – da Scajola a Draghi a Vendola – io inevitabilmente sto
    dall’altra parte, la vera violenza si chiama capitalismo
    (Daniele Barbieri)

  • un’altra piccola cosa… i giornali non si sono buttati sulla polpetta-violenza solo per interesse economico… i media sono l’arma più potente del potere, altro che inserzioni pubblicitarie, in ballo c’è molto di più di un guadagno immediato, in ballo c’è la conquista delle menti…

    Lo strumento più potente nelle mani dell’oppressore è la mente dell’oppresso.
    (Steve Biko, martire sudafricano)

  • Mi chiedo: ma se il problema del percorso “per deficienti” era così grosso, e se siamo stati delle merde noialtri che abbiamo accettato di seguirlo, allora perché chi non c’è stato non si è fatto la sua contro-manifestazione, passando magari a distruggere tutti palazzi del potere e a uccidere tutti gli avvoltoi responsabili di questa situazione del cazzo, invece di farsi il suo spezzone seguendo appunto questo percorso per deficienti? Solo perché sarebbe stata non-autorizzata? Non credo che i veri rivoluzionari dovrebbero avere remore di questo tipo. Ma forse sbaglio, o forse mi sfugge che sia stato strategicamente molto più produttivo, per la lotta e per sferrare un attacco decisivo al capitalismo, giocare alla guerra con lo sbirro in una piazza che non aveva alcun significato simbolico se non quello di essere la destinazione finale di un bel po’ di persone a cui di giocare alla guerra non può fregare di meno.

  • veronica zegarelli

    Secondo me, in poche parole, il problema è cercare una forza all’interno della politica parlamentare (o che al momento ne è fuori), all’interno delle istituzioni. Se siamo tutti d’accordo sul fatto che la politica monetaria e finanziaria, il liberismo, i mercati prima di tutto, sono il nocciolo del problema allora come si farà mai a risolverlo continuando a sostenerlo? I partiti, neppure quelli che usano la parola “comunista” nel loro nome, non si discosteranno mai da questo sistema, ne fanno parte e ci pucciano il biscotto con gran serenità. Le promesse di cambiamenti sociali non sono più credibili se partono dal sistema. Il cambiamento, il global change, ce lo dobbiamo fare noi. E per “noi” intendo in opposizione al “loro” rappresentato dal potere (politico e finanziario). Cominciamo a ragionare su che modello di società (nuovo, mica i soliti riutilizzati da anni) vogliamo creare, e magari a rivedere il concetto di democrazia, che penda più verso Demo e meno verso Crazia.

  • E’ il sistema che ha prodotto democrazie parlamentari. Se vuoi lottare contro il sistema che fai, cerchi una forza alternativa che possa entrare in parlamento? E’ un discorso di ampissimo respiro…. al momento siamo fermi al gradino più basso…
    ;-)…

  • Giorgio Monestarolo

    Impariamo dai No Tav
    Cari amici/che compagni e compagne, intanto mi fa piacere aver letto tutti i vostri commenti e penso che la discussione in rete sia molto utile. Non direi, però, “che noia”. Infatti se leggo le mail come un documento, e io faccio lo storico di mestiere, penso immediatamente che l’esplosione attuale di interventi, commenti, post, mail etc. è tipica dei momenti prerivoluzionari, cioè dei momenti in cui l’opinione pubblica, che generalmente è passiva, si attiva e diventa opinione politica, assemblea costituente, soggetto creativo di decisioni, di procedure, di atti. Mi si potrebbe dire anche dopo Genova andò così. Vero, ma Genova fu un trauma depressivo, che annullò energie che si concentrarono da quel momento sul lutto e sul processo. Questa invece, a mio parere, è piuttosto una crisi di crescita. Ed io interpreto le parole di Maroni al contrario: hanno cercato il morto ma non gli è andata bene. Per noi è una gran fortuna, perché ci permette di giocare molte carte, in una partita veramente aperta. Il vero punto da chiarire infatti è che il barile è vuoto. Non c’è più nulla da raschiare. Siamo al copolinea. Una società organizzata per il lavorismo ossessivo e il consumismo coatto si trova impossibilitata a funzionare in modo fisiologico. La classe dirigente non sa offrire niente se non austerità per il 99% e champagne per l’1%: è l’esatto opposto dell’invito allo sperpero generalizzato che tutti i giorni, da destra e sinistra, ci viene rivolto. Qui sta la potenzialità assolutamente innovativa della rivolta che si leva anche dalla culla americana del consumismo. Se la classe dirigente naviga a vista, e imbocca scelte suicide come quella greca, a noi si pone un compito molto complesso e difficile: prendere coscienza della nostra forza, crescere di consenso, guidare il processo di cambiamento nella direzione del ribaltamento dei rapporti di forza fra le classi, nei luoghi di lavoro e nello stile di vita. E qui si plana su Roma, 15 ottobre.
    La situazione di vero movimento, che travalica i confini angusti del cetino e quelli un poco più larghi del cetone, per includere gruppi sociali e persone che generalmente rimangono inattive, impone delle grandi responsabilità. E quindi anche grande trasparenza. Se vogliamo essere tutti protagonisti di un processo rivoluzionario, nel senso duplice di rapido cambiamento di classe dirigente e di altrettanto significativo cambiamento nei rapporti di forza fra le classi, abbiamo molto da imparare dal laboratorio No Tav. Qui c’è un obiettivo chiaro e definito, qui c’è un luogo decisionale chiaro e definito, qui c’è una responsabilità comune e condivisa di come si agisce pubblicamente. Qui le persone sono soggetti e non sono strumenti di partite e giochini altrui, che finiscono inevitabilmente nel generare sconforto, confusione, incomprensione. La decisione di riprendersi il presidio della Maddalena con maschere antigas, cesoie e limone non fu presa di nascosto, fu dichiarata in piazza a Susa a luglio. A quel livello dello scontro, di cui tutti erano consapevoli, ci si attenne. Operare in questo modo significa creare consenso, significa far maturare idee e azioni positivi e costruttivi. Significa durare. Le interviste fatte nei giorni successivi ad alcuni protagonisti “politici” della manifestazione di Roma, confermano in larga misura la mia sensazione di grande ambiguità. Gianfranco Bettin, di Uniti contro la crisi, e organizzatore della manifestazione, ha sostanzialmente confermato che una parte dei promotori avesse già iniziato a concordare posti in parlamento con SEL, via Gennaro Migliore e Nicola Fratoianni (Manifesto, 20 ottobre). Intervista a redattore di Infoaut (17 ottobre il Fatto), rivendica, eliminando gli eccessi tipo auto bruciate e madonnina in pezzi, gli scontri di piazza, come vera interpretazione del disagio e della rabbia. Insomma, tutti fanno la loro partita, niente di male, per carità, ma sarebbe cosa saggia e buona esprimersi pubblicamente e lasciare ad ognuno la propria libertà di scelta. Chiudo su una considerazione. La situazione attuale è eccezionale perché un precipitatore, la crisi del debito, impatta su altri fenomeni di più lunga durata (precarizzazione, impoverimento e radicalizzazione del ceto medio salariato, spostamento dei rapporti di forza da Ovest a Est). La miscela è esplosiva. In corso, vi è la possibilità di una ripoliticizzazione di massa dell’opinione pubblica che ritira la delega ai soggetti politici tradizionali (chiunque siano). Questo fa molto paura. Se una parte del cetone vuole dare vita a un nuovo soggetto (e questo si intravvede chiaramente con la linea che prevede un’alleanza fra la Fiom, parte dei centri sociali, i movimenti referendari, Casarini e soprattutto de Magistris) deve venire allo scoperto al più presto, rompendo con logiche asfittiche d’apparato e scegliendo processi costituivi veramente democratici e dal basso. Così come alcuni pezzi della sinistra antagonista debbono essere forzati, come in Val Susa, ad una responsabilità vera e non a fare giochi nichilisti. Insomma, non si tratta di “ricomporre”, di alchimie elitistiche o che altro. Si tratta realmente di far crescere un movimento che ha grandi potenzialità se le pratiche che si adottano non sono strumentali, ma sono orientate a offrire una risposta all’altezza degli eventi che stiamo attraversando. Ci vediamo domenica a Chiomonte ! Giorgio Monestarolo

  • Tutto è già stato detto, mi pare, ma questo comunicato offre significativi spunti di riflessione e ho il piacere di ricordarlo a chi già lo conosce e a farlo conoscere a chi lo ignorasse. Daniela Pia, Sestu.
    Comunicato del perdono
    Sino ad oggi, 18 gennaio 1994, siamo solo venuti a conoscenza della formalizzazione del “perdono” che offre il governo federale alle nostre forze.
    Per che cosa dobbiamo chiedere perdono? Di che cosa ci devono perdonare? Perché non moriamo di fame? Perché non facciamo silenzio sulla nostra miseria? Per non avere accettato umilmente il gigantesco peso storico del disprezzo e dell’abbandono? Di esserci alzati in armi quando abbiamo trovato tutte le altre strade bloccate? Di non esserci attenuti al Codice Penale del Chiapas, il più assurdo e repressivo che si ricordi? Di avere dimostrato al resto del paese ed al mondo intero che la dignità umana sopravvive ancora e proprio nei suoi abitanti più poveri ? Di esserci preparati bene e con coscienza prima di iniziare? Di avere portato fucili per la battaglia, al posto di archi e frecce? Di avere imparato a combattere, prima di iniziare a farlo? Di essere tutti messicani? Di essere maggioritariamente indigeni? Di chiamare il popolo messicano tutto a lottare, in tutte le forme possibili, per ciò che gli appartiene? Di lottare per libertà. democrazia e giustizia? Di non seguire gli schemi delle guerriglie precedenti? Di non arrenderci? Di non venderci? Di non tradirci?
    Chi è che deve chiedere perdono e chi è che deve concederlo? Quelli che, nel corso degli anni, si sono sempre seduti davanti ad una tavola piena e si sono saziati mentre con noi si sedeva la morte, tanto quotidiana, tanto nostra che finimmo per cessare di averne paura? Quelli che ci riempirono le tasche e l’anima di dichiarazioni e di promesse? I morti, i nostri morti, tanto mortalmente morti di morte “naturale”, cioè, di morbillo, tosse asinina, dengue, colera, tifo, mononucleosi, tetano, polmonite, malaria ed altre graziosità intestinali e polmonari? I nostri morti, tanto morti a maggioranza, tanto democraticamente morti di pena, perché nessuno fa niente, perché tutti i morti, i nostri morti, se ne vanno così e niente più, senza che nessuno tenga il conto, senza che nessuno dica alla fine, il “BASTA ORA!”, che restituirebbe a queste morti il loro senso, senza che nessuno chieda ai morti di sempre, ai nostri morti, che ritornino a dormire un’altra volta però oggi per vivere? Quelli che ci negarono il diritto della nostra gente a governare ed a governarci? Quelli che negarono il rispetto ai nostri costumi, al nostro colore, alla nostra lingua? Quelli che ci trattano da stranieri proprio sulla nostra terra e ci chiedono certificati e obbedienza a una legge di cui ignoriamo l’esistenza e la giustezza? Quelli che ci torturarono, arrestarono, assassinarono e ci fecero sparire per il “delitto” grave di volere un pezzo di terra, non un pezzo grande, non un pezzo piccolo, solo un pezzo dal quale si possa ricavare qualcosa per riempire lo stomaco?
    Chi è che deve chiedere perdono e chi può concederlo? Il presidente della repubblica? I segretari di stato? I senatori? I deputati? I governatori? I presidenti municipali? I poliziotti? L’esercito federale? I grandi signori della banca, dell’industria, del commercio, della terra? I partiti politici? Gli intellettuali ? Galio e Nexos? I mezzi di comunicazione? Gli studenti? I maestri? I coloni? Gli operai ? I contadini? Gli indigeni? I morti di morte inutile?
    Chi è che deve chiedere perdono e chi può concederlo?
    Bene, è tutto per ora.
    Saluto e un abbraccio, e con questo freddo tutte e due le cose sono gradite (credo), anche se arrivano da un “professionista della violenza”. Subcomandante Marcos

  • Per integrare il mio precedente post, e dopo le sconcertanti esternazioni del ministro Sacconi di ieri, mi pare che sia utile e significativo riportare quanto disse Il vescovo di San Cristobal de Las Casas a conclusione del Suo intervento alla Conferenza di Medellin nel 1968. Parlando a proposito della violenza disse: ” Innanzitutto ne esiste una istituzionalizzata, quella di un sistema che genera morte. Poi c’è quella che nasce dalla repressione, per interrompere il cammino di riscatto delle comunità indigene, di quelle emarginate, operaie e contadine. Solo quando non c’è più alcuna possibilità di sopravvivenza, arriva la terza violenza: quella dichi sta sotto nella scala sociale e prende le armi per non morire”.
    Forse il ministro non si è accorto di essere in Italia.O forse lo sa troppo bene!

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