«1960: l’Italia sull’orlo della guerra civile»

Franco Astengo sul libro di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone

Il volume di Franzinelli e Giacone «1960 L’Italia sull’orlo della guerra civile» (Mondadori) racconta la storia dell’ascesa al potere di Fernando Tambroni e i passaggi difficili attraversati dal sistema politico italiano nella fase della ricostruzione postbellica sino ai “fatti” del luglio 1960.

In quel momento il tributo di sangue pagato dal popolo italiano in difesa della democrazia antifascista segnò un vero e proprio spartiacque fra l’immediato dopoguerra e l’avvio del “miracolo economico” con la gestazione del centrosinistra.

Il libro di Mimmo Franzinelli e Alessandro Giacone ricostruisce un passaggio fondamentale nella storia della Repubblica, che non può essere dimenticato: fin dall’approvazione della Costituzione Repubblicana con l’immediata negazione dei princìpi in essa contenuti da parte dei governi centristi a egemonia democristiana, la lotta sociale e politica nel nostro Paese è stata contrassegnata da una forte repressione poliziesca.

Tambroni succedette a Mario Scelba come ministro dell’Interno a metà degli anni’50 ma è importante sapere che fin dall’immediato dopoguerra la polizia interveniva brutalmente per proibire o reprimere manifestazioni o proteste. Distribuire volantini o affiggere manifesti antigovernativi poteva costare l’arresto. L’oratore che in un comizio non si fosse attenuto all’argomento prefissato, per il quale era stata concessa l’autorizzazione veniva ammonito e poi interrotto da un commissario di PS, mentre gli agenti disperdevano la folla con la forza.

Scelba resse il ministero dell’Interno per 2345 giorni e rimane associato nella memoria del Paese a contrapposizioni luttuose, in una guerra di classe ad alta intensità condotta con la Celere e altri corpi repressivi dello Stato.

Nel novembre 1947 (a maggio si era conclusa la stagione dei governi di solidarietà antifascista con l’uscita di PCI e PSI) con l’uccisione di cinque braccianti durante lo sciopero generale di Puglia e Basilicata, iniziò uno stillicidio di vittime, per lo più contadini e operai, in operazioni di ordine pubblico nelle quali la polizia venne schierata a sostegno di latifondisti e imprenditori.

Una striscia di sangue tracciata al Sud come al Nord che accompagnerà la vita pubblica italiana fino – appunto – ai fatti del luglio ‘60 sopra ricordati.

I comunisti venivano epurati dai posti direttivi della Pubblica Amministrazione e gli esponenti dei partiti di sinistra dipendenti dai ministeri dell’Interno e della Difesa licenziati in tronco.

Erano i tempi di Gladio (ma pochi sapevano) e del “progetto di difesa democratica” elaborato dalla direzione della DC in collegamento con la Protezione Civile: un disegno di legge che poi sarà abbandonato nel giugno 1958 e fatto decadere alla fine della legislatura.

Il clima era dunque da “caccia alle streghe” e i funzionari di polizia accusati di illegalità furono difesi in Parlamento: la repressione violenta con morti e feriti era definita «dolorosi incidenti».

Vale la pena, per meglio descrivere la situazione dell’epoca, ricordare due interventi parlamentari riportandone alcuni stralci citati da Franzinelli e Giacone.

Il primo intervento è di Francesco De Martino, deputato socialista, futuro segretario del partito e vice-presidente del Consiglio nei primi anni’70. Nella seduta della Camera dei Deputati del 20 gennaio 1956 l’illustre parlamentare socialista (professore di diritto romano) esclamò: «l’indirizzo generale è quello di coprire tutti i fatti che vengono commessi, e non vi è esempio di un provvedimento solo adottato dall’autorità dello Stato a carico dei responsabili; sicché in definitiva, i colpevoli sono coloro che vengono fatti segno alle fucilate della polizia».

In occasione dell’eccidio di San Donaci (Brindisi) dove una protesta di viticoltori si era conclusa con tre morti (due dei quali iscritti alla DC) il deputato comunista Giorgio Napolitano, nella seduta della Camera del 24 settembre 1956, intervenne con grande durezza. Ecco l’avvio del suo intervento: «Noi siamo arrivati all’assurdo di udire il ministro dell’Interno dichiararci, confermarci che sul luogo dell’eccidio, quando si è sparato c’erano l’ispettore generale di pubblica sicurezza, il questore, il comandante dei carabinieri, il tenente della polizia stradale, e poi raccontarci che, quando egli ha voluto accertarsi se si poteva o meno evitare la sparatoria, lo ha domandato proprio all’ispettore generale di pubblica sicurezza, al questore, al comandante dei carabinieri, al tenente della polizia stradale, tutti legati da una evidente omertà di fronte all’eccidio dei lavoratori di San Donaci. Ebbene onorevoli colleghi è una vergogna che vengano citati alla Camera dei Deputati come testi degni di fede uomini che dovrebbero essere interrogati come imputati di omicidio di tre pacifici lavoratori e cittadini».

Oggi è necessario che siano ricordati questi drammatici passaggi succedutisi nel processo di ricostruzione democratica della Repubblica. Un ricordo che deve servire non solo per ricordare colpe e/o responsabilità ma per dare finalmente atto alle classi lavoratrici del nostro Paese dei sacrifici imposti da una forza repressiva che – colte le occasioni fornite dalle proteste per le condizioni di miseria che agivano da propellente per la rivendicazione di migliori condizioni di vita – si muoveva per eliminare ogni capacità di protesta da parte dei sindacati e della sinistra.

Si può ben affermare che la democrazia italiana, negli anni del centrismo, fosse una “democrazia dimezzata”.

Si tratta di un pezzo della nostra storia di cui non può essere tralasciata la memoria proprio nel momento in cui, oggi, si rivendica il ruolo avuto dall’applicazione della Costituzione Repubblicana come fattore di crescita sociale e democratica in un’Italia che solo apparentemente sembra lontana nel tempo.

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