Canzone della vita che vince sulla morte

di Mark Adin

PRIMA STROFA:

La donna era piccola e statuaria. Aveva addosso un vecchio grembiule scuro, col quale voleva forse mortificare la sua bellezza senza riuscirci.  Figlia delle asprezze di certi luoghi del Beneventano, i suoi occhi nerissimi  emettevano sguardi  imprendibili e assai duri da sostenere.  Sulla carnagione scura il sorriso, se solo l’avessi potuto vedere, sarebbe stato un lampo accecante e pericoloso. Viveva sola, in una casa in mezzo al bosco, nelle vicinanze del fiume Ticino.

Il marito aveva una storia con la procace giovanissima nipote che viveva al paese. Lasciava sola la moglie per frequenti e sempre più lunghi viaggi al Sud, che giustificava con le solite bugie. Per evitare uno scandalo lei lo lasciava fare, sperando che la relazione cessasse, ma lui continuava. La casa era piuttosto isolata. Per questo motivo il marito, nel partire per il paese, le affidava in custodia la propria pistola, carica e non denunciata. Dopo alcuni tentativi di dissuadere gli amanti a proseguire nei loro incontri, la piccola donna dai capelli nerissimi e crespi decise di dare un segnale.  Quando il marito tornò da una delle sue appassionate trasferte si apprestò a spaventarlo. Mi descrisse la scena con accuratezza, mimando per me.

“Quando se n’è venuto, tenevo la parannanza che sotto c’avevo messo la pistola.  Io non la avevo mai,” – sottolineò con un impeto maledicente – “mai! tenuta in mano. Gli dissi ancora una volta di smettere, che perdonavo tutto, e quello che era stato era stato, ma la smettesse con quella puttana troia e mi tornasse marito. Lui niente.

Io ero qui dove sono ora, e lui” – rivolta a me – “dove si trova lei, dottore.”

Gelai. Mi catapultò nell’attimo, diventai “lui” nella sceneggiata.

“Gli dissi di basta! di finiscila con quella zoccola! e per darmi forza tirai fuori il ferro e lo puntai nel vuoto. Girai la testa indietro e con la mano mi coprii la faccia, chiusi gli occhi e tirai. Un colpo solo. Lo presi in fronte.”

Stette in silenzio e mi guardò negli occhi, incardinandoli ai suoi.

SECONDA STROFA:

Avevo incontrato Maggiolino, portava in giro il cane, una sderenatissima bestia che nelle sue fantasie voleva esser pastore, e per di più tedesco. Io ero molto giovane e molto più stupido di ora, anche se mi sembra impossibile. Figuriamoci se mi sarei tenuto in corpo la notizia del giorno.

Benito il Matto, straccivendolo che non portava gratis quel soprannome, era un uomo dotato di grande energia che dissipava in modo disordinato e imprevedibile, così come fa la natura. Girava sul vecchio triciclo macinando i chilometri che collegavano tutti i paesini, cascine e frazioni della bassa. Al suo fianco, il caso gli aveva messo la Benita in bicicletta – perché il caso a volte mica ce l’ha, la fantasia –  armata di voce acutissima  e anima delle svelte trattative per accaparrarsi stracci e metalli.

Ma Benito il Matto era uomo dalla sessualità prorompente e si era fatto l’amante: una donna sulla settantina, però di grande temperamento.

L’avevano trovata in reggiseno, di quelli vecchi fatti a mano, di buona tela, con le spalline che parevano corde di tapparelle, e null’altro, uccisa, i vestiti buttati di lato. Sulla riva del fiume, protetta dai rovi, si illuminava dei flash dei giornalisti. Lui, Benito, si era fatto prendere senza reagire, urlando frasi sconnesse si era portato più volte le mani al viso nell’atto di schiaffeggiarsi. Le mani, piene di sangue, gli avevano lasciato sul volto una pittura sacra, striature da tatuaggio maori, un rosso da palcoscenico che ne faceva maschera di triviale drammaticità. Piangeva, rideva.

Lo stavo raccontando a Maggiolino, concitatamente, quando lui mi girò le spalle andandosene con il cane, senza salutare. La morta ammazzata era sua madre, e io non lo sapevo.

RITORNELLO

Un giorno sul tram, davanti a dov’ero seduto, una ragazza  – dalla apparente età di tredici, quattordici anni – teneva in braccio un cucciolo bambino, a cui mancavano soltanto le ali. O forse le aveva. Smaniava senza strillare. Roteava gli occhioni.

La madre si aprì la camicia, la scostò con un rapido gesto, calato dall’alto in basso, scoprendosi il petto. Vidi la sua mammella, gonfia, pulsante, attirarne la bocca. Il bimbo ci si incollò e se ne staccò solo quando fu sazio. Poi si accomodò tra le giovani braccia e chiuse gli occhi con una smorfia che mi parve un sorriso. Per qualche attimo la ragazzina rom lasciò il seno scoperto, una goccia di liquido bianco ferma sotto il capezzolo.

Se mi fosse rimasto un briciolo di coraggio, di quello vero, le avrei chiesto di poterla leccare: sarei forse diventato immortale.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *