9 maggio 1972: lottando alla Farah

ripreso da Bizarre (*)

Frantumare gli stereotipi, boicottare il padrone!

Non avevano più il capo chino, i volti tesi ma sorridenti, migliaia di donne chicane e messico-americane assieme ai colleghi maschi sfidano il padrone e supervisori e il 9 maggio del 1972 lasciano vuoti gli stabilimenti di El Paso della Farah, l’industria di abbigliamento leader in USA.

Per anni avevano subìto, per anni avevano avuto paura delle ritorsioni del padrone, per anni avevano sopportato molestie, avances non richieste da parte dei capi, erano andate in fabbrica anche ammalate, anche sino al momento di partorire per paura di perdere il lavoro. Ora era come una liberazione.

Alice Saenz, guadagnava un dollaro e settanta l’ora, racconta: “Potevamo essere licenziati, per qualsiasi motivo”, “Non avevamo il diritto di dire nulla nello stabilimento. Quando un sindacalista mi ha dato un foglio da leggere, il mio supervisore ha detto: ‘Faresti meglio a buttarlo via o sarai licenziati’.”

La Farah Manufacturing Company è un’industria tessile con una dozzina di stabilimenti tra il Texas e il New Mexico, le maestranze sono composte per l’85% da donne, per l’85% da persone di origine messicana o chicana. Le persone che aderiscono allo sciopero sono l’85%: donne e chicane per lo più.

Sono sorprese loro stesse della riuscita dello sciopero, sono stupiti i colleghi maschi e persino i sindacalisti. Escono in corteo dalla fabbrica ed è tutto un abbracciarsi e un “ci sei anche tu…”. Alma, è un’operaia che come tante altre ha partecipato all’organizzazione realmente clandestina, della lotta. Willie Farah, il padrone dell’azienda, nei mesi precedenti aveva licenziato più di cinquecento persone, quelli che avevano osato scioperare e quelli che avevano partecipato a una manifestazione sindacale a El Paso: i “suoi” operai non scioperano, non manifestano, non hanno di che protestare. Organizzazioni sindacali vietate, riunioni impossibili e mille occhi a spiare nei reparti e in città. Si sono incontrate nei bagni, bisbigliato nei corridoi, negli spogliatoi, all’uscita. Sempre a piccoli gruppi, sempre tenendo il segreto. Quando Alma lascia la fabbrica e raggiunge le altre, alcune sono stupite e felici insieme e lei “Cosa pensavate? Solo perché sono una persona tranquilla? Quando ho iniziato a camminare fuori, tutti gli scioperanti erano là fuori, urlavano, mi vedevano e, perbacco, mi sentivo così orgogliosa, perché sono andati tutti ad abbracciarmi, è stato bellissimo! Sapevo davvero che avremmo fatto qualcosa. Che avremmo davvero lottato per i nostri diritti”.

Una fotografia le ritrae allegre, sorridenti mentre gridano slogan affianco all’attivista femminista Bella Abzug, militante contro la guerra e per i diritti civili LGBTQ, non ancora eletta come deputata di New York alla Camera dei rappresentanti. Anche questa è quasi una sorpresa. Sanno che la mobilitazione degli ultimi mesi ha conquistato loro molte simpatie, ma non sanno ancora quanta forza sapranno mettere in campo e quanto sostegno riusciranno a suscitare in tutti gli Stati Uniti.

Le operaie in realtà avevano mille motivi per protestare. Le condizioni di lavoro erano terribili, i salari bassissimi, i ritmi disumani, i ricatti all’ordine del giorno. I capi e i supervisori nei reparti dicevano che c’era il tale operaio o la tale operaia che aveva raggiunto livelli record di lavoro, tagliare, cucire, assemblare, piegare, imbustare, inscatolare e che a quei livelli ci si doveva adeguare, pena il licenziamento. Cercavano di mettere le operaie l’una contro l’altra e le donne contro gli uomini. Quest’ultima cosa era la più facile. I maschi erano pagati di più e a loro si rivolgevano i sindacati. Le donne apparivano ai sindacati più deboli e ricattabili. Spesso erano loro a dover sostenere la famiglia, un marito disoccupato. Tante erano ragazze giovani che crescevano da sole uno o più figli, o che dovevano badare ai genitori. Così le donne in fabbrica dovevano far tenere le mani a posto ai capi, declinare con garbo gli inviti pressanti per uscire con loro e contemporaneamente dovevano vedersela con l’ottusità dei colleghi e dei sindacalisti, poi, finito il massacrante turno di lavoro, cucinare, fare pulizia, accudire i figli. Se poi ci si aggiunge la discriminazione nella società dominata dai bianchi, il quadro era completo.

Lo sciopero prosegue. Le donne si organizzano autonomamente, ogni fabbrica ha il proprio comitato e ognuno ha delle portavoci. È tutta una novità ed è anche esaltante essere protagoniste senza delegare ad altri la propria lotta. Ai picchetti non ci sono più solo gli uomini e i sindacalisti venuti da fuori. La polizia e i guardiani interni sguinzagliano contro i cani, in un anno più di ottocento donne vengono arrestate per i picchettaggi, spesso di notte, con retate all’alba nelle case, prima che si vada a impedire ai pochi crumiri di rovinare la lotta. Ancora una volta anche negli arresti la proporzione è matematicamente giusta: le donne arrestate costituiscono l’85%.

La loro determinazione convince all’appoggio, anche economico, altre strutture sindacali, statali, interstatali e altre categorie. La lotta trova nuovi sbocchi creativi. Si sposta nelle comunità, coinvolge le chiese e altre strutture di quartiere. Non tutto va per il verso giusto. L’opposizione della classe media bianca in Texas e New Mexico è evidente e non si limita agli insulti.

E visto che gli scioperi non possono durare in eterno, visto che il padrone non accetta neanche di discutere (“neanche morto accetterò il sindacato in fabbrica” aveva detto) occorreva toccarlo nel profondo, in quello che aveva più caro: i soldi. L’arma è il boicottaggio. L’idea è di un appello perché non si comprino più i pantaloni della Farah. Appello alle comunità ispaniche prima, poi con l’intervento degli studenti, si estende alle scuole e alle università, poi cresce nell’intero stato, poi in tutti gli Stati Uniti.

Vengono stampati tantissimi manifesti, con varianti, testi diversi, colori diversi e un’unica figura: una delle operaie a pugno chiuso e la scritta “Don’t buy Farah pants!” Il testo più diffuso recita:

Viva La Huelga Non comprare i pantaloni Farah! Sostieni lo sciopero. Aiuta a dare un assaggio di giustizia a migliaia di lavoratori messicano-americani della gigantesca azienda di pantaloni Farah in Texas e New Mexico. Queste persone hanno vissuto troppo a lungo con il sapore amaro dell’ingiustizia e dell’oppressione. Il sogno americano dovrebbe essere una cosa che anche loro possono condividere. Il loro datore di lavoro, la Farah Company, fa assomigliare il sogno più a un incubo. Il governo degli Stati Uniti ha dichiarato Farah colpevole di aver licenziato i lavoratori perché vogliono entrare a far parte di un sindacato. Ma l’azienda continua a infrangere la legge. E il mastodontico produttore ha istigato l’arresto di oltre 700 scioperanti. Molti sono stati portati via dalle loro case nel cuore della notte. Tutti dovevano pagare una cauzione esorbitante. La maggior parte di loro è accusata di essere stata troppo vicina al picchetto nei primi giorni dello sciopero. Lo sciopero è stato pacifico. In effetti, l’unica minaccia di violenza è arrivata dai cani poliziotti senza museruola che le guardie armate della Compagnia Farah ora usano per pattugliare l’impianto (e per intimidire gli scioperanti). Mostra ai lavoratori di Farah che il cuore dell’America è ancora al posto giusto. Mostra al mondo che i consumatori americani non compreranno l’ingiustizia. Non comprare pantaloni Farah”.

“Non comprare l’ingiustizia” diventa uno slogan nazionale da San Francisco a New York, il boicottaggio investe grandi magazzini e catene di distribuzione. Si fa appello ai compratori. Si convincono le persone a scegliere un’altra marca. Ovunque ci si sente vicino a quelle operaie.

Sono le operaie di El Paso le prime a guidare la lotta. Molte escono dalla città per la prima volta per parlare con altre operaie, con organizzazioni femminili, con comunità religiose o nelle scuole. Sono loro che parlano in piazza. Sono loro che iniziano a dare un senso diverso a tutte le cose. La lotta è sempre contagiosa e porta anche ad altre riflessioni.

Nel libro del 1977, Women at Farah: An Unfinished Story Laurie Coyle, Gail Hershatter ed Emily Honig raccolgono i ricordi di quei giorni e del movimento che ne è nato, in fabbrica, nel sindacato, nelle famiglie. Le donne si sono viste sotto un’altra luce, tutto diventava possibile. Nella vita c’era molto di più che essere sfruttate in fabbrica e poi costrette al doppio lavoro in casa. come raccontano alcune “mai saremmo riuscite a guardare in noi stesse, a cambiare le cose, se non avessimo scioperato in fabbrica”. È l’incontro con altre organizzazioni di donne, l’appoggio delle riviste underground, delle femministe, dei neri e degli studenti che crea nuova determinazione e urgenza di rivoluzionare tutto. “Crescendo, sei abituata a sentirti sempre dire cosa fare. Per anni non ho fatto nulla senza chiedere il permesso a mio marito“, ha detto una operaia. “Sono stata in grado di iniziare a sentire che dovrei essere accettata per la persona che sono”.

Due anni di lotta, il boicottaggio che funziona, fa perdere al padrone trenta milioni di dollari, compromette la distribuzione e infine nel 1974 la resa del padrone e la prima vittoria delle operaie.

Il 7 febbraio 1974 viene firmato un nuovo contratto di lavoro, sono ammesse le riunioni sindacali e il diritto di sciopero.

Come ha detto un’operaia “Abbiamo frantumato gli stereotipi”.

(*) www.bizarrecagliari.com ovvero «Storie della Beat Generation, della Controcultura e altro»: da gennaio racconta OGNI GIORNO vicende, persone, movimenti che il pensiero cloroformizzato e sua cugina pigrizia preferiscono cancellare.

MA COSA SONO LE «SCOR-DATE»? NOTA PER CHI CAPITASSE QUI SOLTANTO ADESSO.

Per «scor-data» qui in “bottega” si intende il rimando a una persona o a un evento che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano; a volte i temi possono essere più leggeri ché ogni tanto sorridere non fa male, anzi. Ovviamente assai diversi gli stili e le scelte per raccontare; a volte post brevi e magari solo un titolo, una citazione, una foto, un disegno. Comunque un gran lavoro. E si può fare meglio, specie se il nostro “collettivo di lavoro” si allargherà. Vi sentite chiamate/i “in causa”? Proprio così, questo è un bando di arruolamento nel nostro disarmato esercituccio. Grazie in anticipo a chi collaborerà, commenterà, linkerà, correggerà i nostri errori sempre possibili, segnalerà qualcun/qualcosa … o anche solo ci leggerà.

La redazione – abbastanza ballerina – della bottega

 

danieleB
Un piede nel mondo cosiddetto reale (dove ha fatto il giornalista, vive a Imola con Tiziana, ha un figlio di nome Jan) e un altro piede in quella che di solito si chiama fantascienza (ne ha scritto con Riccardo Mancini e Raffaele Mantegazza). Con il terzo e il quarto piede salta dal reale al fantastico: laboratori, giochi, letture sceniche. Potete trovarlo su pkdick@fastmail.it oppure a casa, allo 0542 29945; non usa il cellulare perché il suo guru, il suo psicologo, il suo estetista (e l’ornitorinco che sonnecchia in lui) hanno deciso che poteva nuocergli. Ha un simpatico omonimo che vive a Bologna. Spesso i due vengono confusi, è divertente per entrambi. Per entrambi funziona l’anagramma “ride bene a librai” (ma anche “erba, nidi e alberi” non è malaccio).

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