Pena di morte : Iran e Usa alleati nell’orrore

Riceviamo il nuovo “foglio di collegamento” del Comitato Paul Rougeau proprio mentre arriva la tragica conferma che l’esecuzione di Paul Jennings(*) fissata per il 13 novembre è stata eseguita. Ma la lotta contro i boia di Stato continua: oggi trovate due articoli del Rougeau e altre informazioni.

(*) cfr Il 13 novembre uccideranno Jennings? e California: fermiamo il boia di Stato

Montgomery (Alabama)

Ultimo respiro: l’esecuzione di Anthony Boyd e il nodo dell’ipossia da azoto

Lo Stato dell’Alabama ha messo a morte il 54enne Anthony Boyd mediante ipossia da azoto, dopo il rifiuto della Corte Suprema di sospendere l’esecuzione. Il caso riaccende il dibattito sulla pena di morte, tra dubbi di giustizia e l’uso di metodi sperimentali.

Montgomery —Nella mattina del 23 ottobre 2025, la prigione di Holman, in Alabama, è tornata al centro del mondo.Alle 6:01, Anthony Boyd — 54 anni, afroamericano — è stato messo a morte con un metodo che molti definiscono “sperimentale”: l’ipossia da azoto, una procedura che priva gradualmente il corpo di ossigeno sostituendolo con azoto puro.

La Corte Suprema degli Stati Uniti aveva respinto l’ultimo appello dei suoi avvocati poche ore prima, consentendo allo Stato di proseguire con l’esecuzione. L’intervento finale del condannato, riportato dai testimoni, è stato calmo ma drammatico: “Non voglio soffrire. Qualunque cosa facciano, la facciano presto”. I minuti successivi sono stati descritti da un testimone come “un lento declino”: dopo l’attivazione della maschera respiratoria, Boyd ha perso conoscenza solo dopo alcuni minuti, e ha continuato a respirare irregolarmente per un tempo stimato di oltre cinque minuti. Un medico ha poi dichiarato la morte alle 6:14.

Con la sua esecuzione, l’Alabama è diventato il primo Stato americano a usare in modo sistematico l’ipossia da azoto, già sperimentata a inizio anno con il caso di Kenneth Smith, e nuovamente al centro delle polemiche per presunte sofferenze inflitte al condannato.

Il caso Boyd: una condanna nata da dubbi e omissioni

Anthony Boyd era stato condannato nel 1995 per l’omicidio di Gregory Huguley, avvenuto due anni prima nella contea di Talladega. Secondo l’accusa, Boyd e altri tre uomini avrebbero sequestrato e ucciso Huguley dandogli fuoco dopo una lite per una partita di droga non pagata.Ma la ricostruzione dell’accusa si è retta quasi interamente su una testimonianza ottenuta da un coimputato, che ricevette in cambio una condanna ridotta. Nessuna prova fisica collegava Boyd alla scena del crimine: nessuna impronta digitale, nessuna traccia di DNA, nessuna arma.

Il processo durò appena due giorni. L’avvocato difensore era giovane e inesperto, appena nominato d’ufficio, e dichiarò di “non avere risorse per condurre un’indagine autonoma”.Il verdetto della giuria arrivò con una maggioranza di 10 a 2: una raccomandazione non unanime, oggi vietata in molti Stati, ma allora sufficiente per ottenere la pena capitale.

Negli anni successivi, le revisioni processuali e i ricorsi post-condanna hanno più volte sollevato gravi irregolarità procedurali, ma nessun tribunale ha mai concesso un’udienza piena sulle nuove prove e sulla credibilità dei testimoni.

Il metodo dell’ipossia da azoto: tra scienza e crudeltà

Il metodo usato per giustiziare Boyd è tra i più controversi nella storia recente della pena di morte.L’ipossia da azoto consiste nel sostituire l’aria respirata con gas azoto, provocando la perdita di coscienza e la morte per mancanza di ossigeno. In teoria, dovrebbe essere “indolore e rapido”, ma nella pratica le prime esecuzioni hanno mostrato segni di sofferenza prolungata.

Secondo i medici legali e i gruppi per i diritti civili, il rischio di soffocamento cosciente è elevato: un condannato può restare lucido per diversi minuti mentre il cervello si spegne per mancanza di ossigeno.Durante il primo test del metodo, nel gennaio 2024, il detenuto Kenneth Smith impiegò quasi dieci minuti per morire, scuotendo violentemente la maschera nel tentativo di respirare.

Anche nel caso di Boyd, le testimonianze hanno parlato di spasmi, gemiti e un corpo “che si irrigidiva lentamente”.La giudice Sonia Sotomayor, dissentendo dalla decisione della Corte Suprema di permettere l’esecuzione, ha scritto: “Stiamo assistendo a una nuova forma di esperimento punitivo, che aggiunge terrore psicologico a un’esecuzione già crudele.”

Per contro, lo Stato dell’Alabama ha difeso il metodo come “legale e conforme alla Costituzione”, sostenendo che le procedure fossero state testate e approvate. Tuttavia, i dettagli tecnici e medici restano coperti da segreto di Stato, e gli osservatori indipendenti non sono ammessi nella camera delle esecuzioni.

Le voci del dubbio

La Equal Justice Initiative (EJI), organizzazione con sede a Montgomery che si occupa di giustizia razziale e pena di morte, ha definito l’esecuzione di Boyd “una tragedia evitabile e un fallimento morale dello Stato”.Secondo l’EJI, il processo del 1995 rappresenta “uno dei casi più emblematici di cattiva difesa legale e di testimonianze premiate in cambio di favori giudiziari”.

Bryan Stevenson, fondatore dell’organizzazione, ha dichiarato in una conferenza stampa:

Non c’è nulla di giusto in un sistema che uccide persone povere, difese male e condannate su prove fragili. L’Alabama sta diventando un laboratorio di crudeltà legale.”

Molti osservatori internazionali condividono la stessa preoccupazione: l’uso di metodi sperimentali e la mancanza di trasparenza rischiano di violare il diritto alla dignità umana garantito dai trattati internazionali firmati dagli Stati Uniti.Secondo un sondaggio condotto dal Pew Research Center dopo il caso Smith, oltre il 60 % degli americani ritiene che la pena di morte sia applicata in modo diseguale, e il 45 % teme che persone innocenti possano essere messe a morte.

La questione razziale e la povertà della difesa

Il caso Boyd non è isolato. In Alabama, circa il 70 % dei condannati a morte è afroamericano, e molti di loro sono stati rappresentati da avvocati d’ufficio mal pagati o senza esperienza.Negli anni ’90, l’Alabama permetteva ai giudici di ignorare le raccomandazioni della giuria e imporre la pena di morte anche quando i giurati suggerivano l’ergastolo.

Molti dei processi di quel periodo sono oggi contestati per la presenza di giurie parziali, confessioni estorte e testimoni incentivati.Eppure, decenni dopo, le corti statali continuano a resistere a qualsiasi revisione sistemica.“Quando un sistema giudiziario diventa incapace di correggersi, la giustizia si trasforma in automatismo,” scrive il professor Adam Lankford dell’Università dell’Alabama. “E in Alabama questo automatismo coincide spesso con l’esecuzione.”

Oltre Boyd: il significato di una morte

La morte di Anthony Boyd ha riaperto il dibattito sul senso stesso della pena capitale negli Stati Uniti.A oggi, 23 Stati l’hanno abolita completamente, altri tre hanno dichiarato moratorie. Tuttavia, nel Sud — e in particolare in Alabama, Texas e Florida — le esecuzioni sono in aumento. La governatrice dell’Alabama, Kay Ivey, ha difeso pubblicamente l’uso dell’ipossia da azoto, definendolo “un metodo umano e necessario per mantenere la legge e l’ordine”.Ma per molti giuristi, l’esecuzione di Boyd rappresenta un punto di non ritorno: se un metodo così controverso viene normalizzato, la soglia morale della pena di morte potrebbe abbassarsi definitivamente.

Per i sostenitori dell’abolizione, il caso di Boyd dimostra che la giustizia americana è disposta a sperimentare sulla vita umana pur di mantenere la pena capitale, anche quando le prove della colpevolezza sono fragili e il metodo stesso incerto.

Epilogo

Quando l’annuncio ufficiale della morte è arrivato, fuori dal penitenziario un piccolo gruppo di manifestanti ha recitato preghiere e cantato inni gospel.Tra loro, un cartello scritto a mano:

La giustizia senza compassione è solo violenza regolamentata.”

Per molti, quello di Anthony Boyd non è stato solo un atto giudiziario, ma una prova morale per l’intera nazione.Una prova che, ancora una volta, gli Stati Uniti sembrano aver superato solo in apparenza.

Fonte: Equal Justice Initiative (EJI) – “Anthony Boyd Executed in Alabama Despite Serious Concerns About Nitrogen Hypoxia Method,” ottobre 2025

Oltre 1000 esecuzioni nel 2025: l’Iran affronta la più grave ondata repressiva degli ultimi decenni

Amnesty International, Nazioni Unite e Iran Human Rights denunciano un sistema giudiziario opaco, processi sommari e un uso politico della pena di morte.

Tehran — L’Iran ha superato nel 2025 la soglia delle 1.000 esecuzioni nei primi nove mesi dell’anno, segnando la più alta ondata repressiva degli ultimi trent’anni. La cifra, resa nota da una convergenza di rapporti di Amnesty International, Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani e Iran Human Rights (IHR), non è solo un dato statistico, ma il segnale di una strategia deliberata: l’uso della pena capitale come strumento di intimidazione sociale e controllo politico.

Secondo queste organizzazioni, l’aumento delle esecuzioni non è un fenomeno episodico, né legato a un vero incremento della criminalità, ma parte di una risposta sistemica dello Stato iraniano alle proteste scoppiate nel 2022 dopo la morte di Mahsa Amini. Quelle manifestazioni, duramente represse, hanno segnato un punto di svolta nella politica interna: la risposta giudiziaria, sin da allora, si è fatta più rapida, meno trasparente e accompagnata da un linguaggio ufficiale che dipinge gli imputati come “nemici dello Stato”.

Il ricorso massiccio alla pena di morte

Gran parte delle esecuzioni riguarda reati legati alla droga, spesso associati a imputati provenienti da contesti socioeconomici vulnerabili e minoranze etniche come i Baluchi e i Curdi. In molti casi, secondo gli osservatori, gli imputati non hanno ricevuto un processo equo: la difesa legale è stata limitata, le confessioni ottenute in condizioni coercitive e le udienze si sono svolte a porte chiuse. Amnesty International sottolinea che l’uso della pena di morte per reati di droga viola il diritto internazionale, che permette la pena capitale solo per i “crimini più gravi”, tipicamente l’omicidio intenzionale. Tuttavia, in Iran, centinaia di persone sono state condannate e giustiziate senza che sia stato dimostrato alcun coinvolgimento in atti di violenza. A questa categoria si aggiungono esecuzioni per accuse politiche — tra cui “corruzione sulla terra”, “spionaggio” e “collaborazione con gruppi ostili” — termini che, secondo le Nazioni Unite, rimangono volutamente vaghi per permettere al sistema giudiziario di colpire oppositori, attivisti, giornalisti e dissidenti.

Il peso sulle minoranze

Iran Human Rights evidenzia come le minoranze etniche siano colpite in modo sproporzionato: nel caso dei Baluchi, che rappresentano una piccola percentuale della popolazione iraniana, la quota delle persone giustiziate nel 2025 supera di gran lunga la loro presenza demografica. Questa sproporzione, sottolineano gli esperti ONU, indica che la pena di morte non è applicata in modo neutrale o puramente giudiziario, ma riflette diseguaglianze strutturali e dinamiche di potere interne. Alcune delle storie raccolte dalle ONG parlano di lavoratori poveri coinvolti nel traffico di droga come un mezzo di sopravvivenza, donne condannate per l’omicidio dei mariti in contesti di violenza domestica, o persone giustiziate dopo processi che sono durati pochi giorni e senza la possibilità di presentare prove a discarico.

Uno strumento politico

Per le Nazioni Unite, la ricorrenza delle esecuzioni non è casuale nel calendario politico: alcuni picchi coincidono con periodi di tensione nazionale o anniversari di proteste. In questi momenti, l’esecuzione pubblicamente annunciata di condannati per “crimini contro lo Stato” assume una funzione simbolica: un messaggio di controllo e deterrenza. L’analisi degli osservatori internazionali descrive un modello chiaro: arresti rapidi, accesso alla difesa limitato, confessioni sotto pressione, sentenze severe, esplosione delle esecuzioni nei mesi immediatamente successivi. Questo ciclo, ripetuto decine di volte nel 2025, ha trasformato il sistema giudiziario iraniano in quello che Iran Human Rights definisce «una macchina disciplinare».

Reazioni internazionali insufficienti

Nonostante la gravità dei numeri, la risposta della comunità internazionale finora è apparsa timida. Alcuni governi hanno espresso preoccupazione, l’Unione Europea ha emesso dichiarazioni ufficiali, ma le pressioni diplomatiche reali sono state limitate, anche a causa del contesto geopolitico, segnatamente del ruolo regionale dell’Iran.

Amnesty e le organizzazioni partner hanno proposto azioni concrete:

  • Sanzioni mirate contro giudici e procuratori responsabili delle condanne

  • Sospensione della cooperazione giudiziaria internazionale

  • Monitoraggio indipendente nelle carceri

  • Moratoria immediata sulle esecuzioni

Finora, nessuna di queste misure ha trovato applicazione stabile.

«Una crisi di dignità umana»

Per gli esperti ONU, il quadro delle esecuzioni iraniane nel 2025 rappresenta una «crisi di dignità umana» e rischia di normalizzare la pena di morte come strumento governativo anziché come ultimo ricorso della giustizia. Le famiglie delle persone giustiziate spesso non vengono informate della data dell’esecuzione. In molti casi, i corpi non vengono restituiti. L’umiliazione diventa parte della punizione. Come affermato in uno dei rapporti:

«La pena di morte in Iran non è solo una sanzione. È un messaggio. E il messaggio è la paura.»

IL NUOVO FOGLIO DI COLLEGAMENTO DEL COMITATO PAUL ROUGEAU

Numero 330 (Agosto-Settembre-Ottobre 2025)

 

SOMMARIO

Nashville, il giorno della pena: il Tennessee mette a morte Byron Black tra accuse di crudeltà e disabilità negata.

Florida, record di esecuzioni sotto Desantis.

Montgomery (Alabama): Ultimo Respiro: l’esecuzione di Anthony Boyd e il nodo dell’ipossia da azoto.

Oltre 1.000 esecuzioni nel 2025: l’Iran affronta la più grave ondata repressiva degli ultimi decenn.

Arabia Saudita, esecuzioni di minorenni e repressione crescente.

Bologna. Nasce un comitato per bandire la pistola Taser: la mobilitazione contro l’“arma-tortura”.

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