A chi s’ammazza (quasi) per sopravvivere (forse)

Pensando a chi anche ad agosto continuerà a passare da un lavoro schifoso a uno quasi infame, mi è tornato in mente questo “vecchio” (del 2009) e bel libro, a tratti molto divertente, di Iain Levison: ve ne consiglio la lettura mentre cercate di affinare l’istinto di sopravvivenza-resistenza, aspettando il colpo di culo individuale e/o la controffensiva collettiva. (*)

«Un moderno Tom Joad» come il protagonista di «Furore» (libro e film) che anche Bruce Springsteen ha cantato. Così si vede Iain Levison, con molte somiglianze e qualche dissonanza. Il suo «Ammazzarsi per sopravvivere» (edizioni Socrates: 156 pagine per 10 euri) mantiene fede al sottotitolo ovvero «le infinite fatiche di un precario americano». La scrittura piacevolissima ma anche la varietà delle esperienze lo collocano un gradino sopra la media di libri del genere (italiani e non). La consapevolezza politica invece è nebbia, un casino totale. “Americano”, nel bene e nel male. Cioè cittadino di un Paese dove si dà una borsa di studio a chi vince concorsi di bellezza; dove per dire che il sindacato è corrotto si spiega che ormai «sono un branco di italiani»; dove «l’industria-da-un-trilione-di-dollari-che-non-produce-niente» è chiamata «sistema educativo» con un’assuefazione masochista a sostituire la necessaria rabbia. Certo non occorre essere un sovversivo per capire che «il pendolo [dei diritti] sta tornando indietro»; l’unico modo di consolarsi è credere –come Levison – che «essere al verde qui, nel Paese più ricco del mondo, è meglio che essere borghese in Perù o in Angola».

Eppure questo ironico e colto (ben più della media dei suoi concittadini) Iain è anche simile a chiunque, in gran parte del mondo sedicente sviluppato, si trovi intrappolato in un precariato perenne. Laurea in lettere (si rivela ostacolo più che vantaggio), fisico robusto, buona parlantina, furbizia nei colloqui («la chiave è sapere un nonnulla da buttare lì»): eccolo passare da un ristorante ai traslochi, dagli «abusi dell’addestramento» ai contratti scritti in «legalese», a esilaranti test antidroga (nessuno li verifica) «ultimo baluardo della folle relazione di amore/odio tra l’America e le droghe». E soprattutto alla certezza che da qualunque lavoro sarà comunque mandato via prima del 90° giorno in modo da non avere copertura sanitaria. A proposito di sanità pubblica nell’epilogo aggiunto – dopo 6 anni – all’edizione italiana, Levison scrive: «Obama è una brava persona […] ma non c’è possibilità che cambi veramente qualcosa». Amen.

L’autobiografia scorre veloce fra sarcasmo, schifezze, rari momenti di solidarietà e piccole illegalità. Se nel suo peregrinare Iain incontra «qualche genere di attività criminale», laicamente (o qualunquisticamente…. fate voi) dovrà decidere se entrarci, «in parte in base a quel poco di coscienza che mi resta e in parte in base alla fattibilità del piano». Ogni tanto è preso da qualche sussulto alla Robin Hood (vero o presunto). Per esempio invitando a piratare la tv-cavo, teorizza la ribellione così: «Contrariamente a quanto le pubblicità vogliono far credere, rubare il segnale è un atto di disobbedienza civile di cui Martin Luther King e Mahatma Gandhi sarebbero andati orgogliosi». Chissà. Mentre Levison ha del tutto ragione nell’ironizzare sulla presunta legalità del «chiudere fabbriche redditizie, mandare a casa centinaia di operai e riaprire le stesse fabbriche in Messico con manodopera a basso costo». Due pagine per sostenere la tv cavo gratis per tutti, una riga per ironizzare su «chi avrebbe la pazienza di sopportare quella roba (ninfe con le tette al silicone – Ndr) per più di 5 minuti». Beata incoerenza, la stessa che lo spinge a chiedersi perché se il mondo vuol volare gli sbirri non lascino correre i camionisti.

Ciak, si salta da un posto all’altro. Riempire buste, infognarsi con i filtri che depurano l’acqua, elettronica, barista, imbianchino…. «70 ore lavorative settimanali senza alcun straordinario e tutte rigorosamente in piedi». Cambia scena: «16 ore con un ginocchio gonfio e i piedi bagnati». Siamo vicini al momento fatale, Iain può solennemente affermare: «ce l’ho fatta […] ho trovato il lavoro peggiore del mondo, quello che combina quanto di più sgradevole ci sia nella vita con uno stipendio da fame». Per sapere qual è dovete sobbarcarvi la piacevole fatica di leggere il suo libro. Se il precariato morde anche i vostri polpacci, il miglior consiglio che riceverete è di non finire come Little Jimmy («una volta che impari a ingoiare merda, ti accorgi che il sapore non è poi così cattivo»).

A distanza di 6 anni da questa “precario-grafia” Iain lavora in uno stadio dell’hockey. Scrive che la «paga è decente» ma se prova a dire in giro di essere uno scrittore è considerato «un bugiardo patologico». Ah, la frase del titolo esce di bocca a un certo Ken: «Devi lavorare sodo. Devi ammazzarti per sopravvivere». E il laureato in lettere annuisce «in segno di conferma» ma commenta fra sé: «non sembra notare l’ossimoro».

(*) Questa mia recensione è uscita sul quotidiano «Liberazione» nell’agosto 2009 o giù di lì. (db)

 

Redazione
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Un commento

  • Marco Pacifici

    …tra le altre cose consapevoli del fatto che per aprire una discussione sul nostro futuro e sul “FINE PENA MAI” sara’ determinante la trasformazione delle nostre sogettivita’ in MOLTUTUDINE.

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