Metal Hurlant: 1

a proposito di Metal Hurlant: IL MIO PRIMO SCIOPERO E ANCHE IL SECONDO (di Pabuda)

ho provato: a pensare il mio primo sciopero. da salariato, intendo. che da studente non vale: ero sempre scioperato, da studente, intendo. praticamente uno sciopero via l’altro. ma a pensarci erano cose serie a metà quegli scioperi lì: era come un allenamento: giustamente ero a scuola e studiavo come si fan gli scioperi. poi è cambiato, lo sciopero, da salariato: la paura di perdere il lavoro o un pacco di soldi: ti caghi sotto. capita a tutti, penso. e così mi vengono in mente due scioperi diversi che non riesco a scollegare: mi vengono in mente insieme tutti e due come appiccicati. però due scioperi molto diversi erano. comunque ci penso a tut’e due. perché lo sciopero per me, dico: come me lo son vissuto io, è un divertimento e uno spavento. così mi vengono in mente insieme. i miei primi due scioperi miei, che ho fatto.

il primo era perché il padrone del ristorante mi teneva in nero e mi pagava troppo poco secondo me, ma non avevo fatto i conti bene perché non mi andava di chiedere al sindacato, chissà perchè. e non c’era internet. veramente non c’avevo neanche la radio e non mi ricordo se magari manco il telefono c’avevo. ma come cazzo facevo? a Milano senza telefono ai primi anni ottanta. Il telefono-telefono, dico: quello normale fisso, intendo, mica il telefonino che non sapevo manco cos’era, per dire.. ora che ci penso c’era il bar della mafia o della ‘ndrangheta all’angolo sotto casa, che a chiedere un gettone sembrava di pestare un piede al boss.

va beh, per mettermi ai libri, come si diceva, coi contributi e tutto quanto al padrone del ristorante non sapevo come dirglielo e non sapevo come piantare casino. non sono aggressivo, di mio. preferisco quando tutto va liscio e non c’è da litigare. di solito sto zitto. diciamo che sto quasi sempre zitto. nella vita, intendo: sto zitto. ma quando mi girano o vedo che mi stan fregando o vedo che fanno i bastardi con qualcun altro… aspetto e poi zaccheté la metto giù esagerata: nel senso, la faccio più grossa di com’era e li stordisco di parole. possibilmente paroloni. che a scuola ne ho imparati parecchi di paroloni, facendo quegli scioperi là e così via con la politica degli studenti dopo il settantasette, proprio gli ultimi. di scioperi, intendo.

insomma, al ristorante facevo il cantiniere e il banconiere o banconista, non mi ricordo come si diceva. era un ristorante piccolo e fighetto, ma tutto una finta. cantiniere e banconista facevo. a me sembrava di far lo schiavo, più che altro: al pomeriggio le pulizie per terra, lo straccio di qua e di là e poi la sera non finiva mai cioè si faceva mattina: le due le tre, così come niente fosse.  banconista, cioè:  prepari gli antipasti, i piatti leggeri freddi come il prosciutto e melone o i fichi col salame. e il carpaccio, anzi i vari carpacci diversi: di manzo normale, di pesce affumicato non mi ricordo quali pesci avevamo e poi quello di oca. oppure le insalatone che non mi ricordavo mai tutti gli ingredienti. e poi quelle più care, invece quasi solo funghi crudi. ho imparato a fare le fettine sottili coi porcini e con gli ovuli. è che lo sapevo già, fin da ragazzino che lo facevo a casa con mia madre se non sbaglio a pulire i funghi raccolti da noi. erano gli anni, lì al ristorante, del boom della rucola, a Milano. Rucola dappertutto a Milano. io odio la rucola. c’è un perchè.

poi preparare i piatti freddi leggeri e gli antipasti sembra facile ma è un casino. il melone si deve tagliare che vengono come delle barchette dei fenici. i fichi vanno aperti ma non sbucciati, devi far venire fuori come dei petali di fiore fatti con la buccia ma senza spiaccicarli tutti che fan schifo.

e i formaggi, se chiedono il formaggio. anche quelli mica gli potevi sbattere lì due sleppe e buon appetito. c’era sempre da inventarsi un po’ di scena sul piatto. delle gran cazzate. però si doveva fare così.anche il pane bisognava metterlo in scena! ecco. il pane: sempre a riempire i cestini di pane, tagliare pane, fare ikebana di pane. uno spreco assurdo che è questo qui che ti sto raccontando, cazzarola.

come cantiniere, invece:  prendi le bottiglie, guardi le bottiglie, controlli le bottiglie, pulisci le bottiglie e finalmente alla fine porti la bottiglia di vino ai clienti, loro assaggiano, cioè uno assaggia per finta che intanto non ci capisce un cazzo ma se la tira, stappi versi corri indietro al banco. e il padrone mi guardava come una merda perché sono un principiante. dietro al banco assaggio anch’io qualcosa, di qua e di là: mezz’ora e son ciucco perso. e poi milioni di caffè da fare, che fare i caffè da ubriaco te lo raccomando!

ecco tutto questo andazzo mi esasperava: giramento di coglioni a mille, pure per il fatto che eravamo in nero. tutti: il cuoco, l’aiuto-cuoco, il lavapiatti, tutti egiziani, e io pure in nero. niente libri, niente di niente.

col mio bel giramento io aspettavo: ho aspettato finché ho visto un manifesto su un muro che diceva: il giorno x sciopero generale del settore commercio e ristorazione. belin! ho pensato io, questi lo sciopero non lo fanno quasi mai, stavolta non me lo perdo, che diceva pure contro il lavoro in nero. decido: faccio lo sciopero. lo dico in cucina agli egiziani ma hanno una paura blu e poi non ci capiamo tanto bene: loro niente sciopero. allora dico al cuoco, aiuto-cuoco, lavapiatti: vabbé lo faccio io per tutti, poi vediamo. alla fine lo dico al padrone all’ultimo momento: domani, che era il giorno x, io aderisco allo sciopero del commercio e ristorazione perché tu ci tieni in nero e paghi poco. lui, il padrone mi guarda come se io ero un pazzo furioso da legare e mi dice a me così: che cazzo dici? sciooperoo?? guarda, se mi dicevi che non vieni a lavorare perché vuoi andare al cinema o a scopare una figa io non c’ho problemi ma sta storia dello sciopero è una stronzata: se lo fai poi non venire più a lavorare qui. intanto mentre lo dice gridando, agitava una roba, che, belin, era il coltello per affettare il prosciutto all’osso. cazzarola! io sudavo e non dicevo niente. alla fine della gridata del padrone io gli dico: ok, poi vediamo. dalla cucina gli egiziani mi han fatto l’occhiolino, tutti e tre assieme. quindi ho fatto lo sciopero il giorno x, in piazza dove c’era un comizio ho cercato un sindacalista. ne ho beccato uno cgil, a caso. gli ho raccontato tutta la storia. il pomeriggio dopo lo sciopero questo sindacalista è venuto con me al ristorante e abbiam parlato col padrone che era incazzato come una bestia ma non ha preso il coltello. ci siam seduti e il sindacalista ha fatto tutti dei conti col padrone e gli ha detto: vuoi la causa in tribunale o paghi tutto quanto? il padrone ha detto: vabbé pago, domani. e il domani ha cagato la grana davvero, con tutti gli arretrati e compagnia bella. son stato fortunato e per un anno io non ho più lavorato per niente. troppo contento!

il secondo sciopero mi viene in mente insieme a questo, però non lavoravo in ristorante in nero: ero nella multinazionale, call center su tre piani di palazzo, gestione da medioevo con la gente ma tecnologia ultramoderna che controlla tutto, i telefoni che controllano il tempo che rispondi, parli, che apri la pratica, i tesserini elettronici e le telecamere quando vai a pisciare… tutto molto moderno tecnologico però i capi dicono che qui è come una famiglia. io penso: bella famiglia di merda! e lavoravo lavoravo lavoravo, era il primo lavoro in regola, col contratto, ferie, malattia e tutto quanto. però io li odiavo lo stesso i padroni, che qui non si vedevano: gli azionisti italiani francesi, tedeschi. io li odiavo gli azionisti, sia perché il lavoro era uno schifo e sia perché odiavo quei controlli elettronici di tutto. almeno, al ristorante mi facevo i miei bei cicchetti! vabbé, a parte gli scherzi: lavoravo lavoravo lavoravo. parlavo solo coi colleghi al mio pari livello: gente varia, simpatica. mi piaceva una tipa forse anche io piacevo a lei ma alla fine non s’è combinato un accidente. comunque, non c’ho la riprova perchè a lei non gli ho mai detto le cose chiaramente. però si schiacchierava, tranquilli e io guardavo i suoi capelli un sacco di capelli.  non ho mai parlato con i capi, manco coi capetti, a parte il buongiorno buonasera, chiaro. non ci parlavo per principio perché loro facevano tutti i controlli. perché erano elettronici ma poi ci voleva un capetto che controllava i controlli e misurava i minuti i secondi. così con loro non ci parlavo. però aspettavo. zitto. finalmente anche lì è arrivato il “giorno x”:  uno sciopero generale non mi ricordo per cosa. stavolta faccio diverso: parlo coi colleghi: nessuno vuol scioperare: un po’ si cagavano sotto, un po’ non sapevno manco cos’è uno sciopero generale, che c’avrebbero diritto a farlo tranquilli, se vogliono.

ma lì nella multinazionale col super call center non c’era sindacato. non c’era niente di niente. il giorno prima dello sciopero prendo un permesso per dentista e vado alla cgil e mi iscrivo al sindacato come levarsi un dente. il “giorno x” che sarebbe il giorno dello sciopero vado al call center della multinazionale prestissimo. di notte ero stato sveglio a preparare un cartellone enorme: tre metri di discorsi scritti a pennarello, tre quattro colori diversi, come ai tempi degli scioperi da studente a scuola. c’ho messo dentro tutti i mugugni che facevano i colleghi: sui soldi gli orari i turni la mensa di merda il gettone di presenza le maggiorazioni per le notti e i festivi e bla bla ble. ho messo quei mugugni come rivendicazioni e ho firmato “gli iscritti cgil” che poi ero solo io ma non lo sapeva nessuno. se ne sono accorti quando ho fatto sciopero. perché l’ho fatto solo io. ma tutti leggevano quel cartellone gigante che avevo appiccicato. due giorni dopo suona il mio telefono sulla scrivania: chiamata interna. cazzo: era il direttore generale: venga subito da me che le devo parlare: gridava così forte che dalla mia cornetta han sentito tutti i colleghi. e mi guardavano. io son diventato rosso e poi blu e poi bianco. quasi svenivo dalla caga. il direttore generale metteva caga a tutti anche a capi e capetti. aveva denti da squalo, come Previti, denti grigi e lunghi da pescecane che era meglio se non rideva ché metteva una paura da morire con quei denti. io sono andato su al piano dei megadirigenti e ho bussato all’ufficio di quella specie di Previti: non rideva. quindi, niente denti. però appena sono entrato m’ha gridato come il padrone del ristorante però mi dava del lei: ma che cazzo si crede lei? l’ho letto il suo cartello, sa? io mi son seduto e stavo zitto e lo guardavo e stavo zitto e lui gridava sempre e gli vedevo quei dentacci lunghi. morivo di paura ma facevo finta di niente. facendo finta di niente e stando zitto mi scappava un po’ da ridere. per il nervoso, credo. e lui s’incazzava di più perché io dovevo avere un sorrisetto proprio da prendi per il culo. ma non lo facevo apposta: era il nervoso. poi non ce la facevo più. pensavo di svenire come un coglione. allora mi son morso il labbro di sotto per smetterla con quella ridarella che mi stava per scoppiare, per il nervoso, intendo. ho fatto una faccia seria e ho detto: direttore guardi che questo colloquio rischia di configurarsi come attività antisindacale direttore forse è meglio interrompere il colloquio qui.

il pescecane ha sbattuto la sua manona sulla scrivania e ha gridato: sì, lei torni a lavorare! poi mi manderà i sindacati che ci penso io ai sindacati! io mi sono alzato tutto sudato: d’accordo grazie molte e buona giornata direttore. e mi sono volatilizzato.

giù al call center tutti a chiedermi che è successo come è andata ma cosa voleva come stai…

c’era anche la tipa che mi piaceva e io me la tiravo un po’ da uno che non ha paura del direttore generale coi dentoni ma intanto quasi mi mancava l’aria da respirare.

poi nelle settimane dopo abbiamo fatto delle riunioni di nascosto, che tutti si cagavano sotto, è venuta un po’ di gente e tra una birra e l’altra abbiamo fatto il primo sindacato nel call center della supermultinazionale del belino. so che il sindacato lì c’è ancora e non so niente del pazzo coi dentoni. invece, il cuoco del ristorante l’egiziano l’ho rivisto anni dopo. diceva che tornava in Egitto per fare il suo ristorante italiano al suo paese. mah! sperem…

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Pabuda
Pabuda è Paolo Buffoni Damiani quando scrive versi compulsivi o storie brevi, quando ritaglia colori e compone collage o quando legge le sue cose accompagnato dalla musica de Les Enfants du Voudou. Si è solo inventato un acronimo tanto per distinguersi dal suo sosia. Quello che “fa cose turpi”… per campare. Tutta la roba scritta o disegnata dal Pabuda tramite collage è, ovviamente, nel magazzino www.pabuda.net

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