«Abbattere la statua di un colonialista ha un…

… profondo significato spirituale»: Anna Polo intervista Valentin Mufila (*). A seguire Tonio Dell’Olio riflette sull’indipendenza del Congo

La statua di Cristoforo Colombo abbattuta nel Minnesota (foto agenzia Dire)

 

La morte di George Floyd non ha scatenato solo vaste proteste per la brutalità della polizia contro gli afroamericani, ma ha anche riacceso il dibattito sulla violenza dello schiavismo e del colonialismo e portato ad azioni eclatanti contro i suoi simboli. Negli Stati Uniti statue di generali confederali sono state abbattute, rimosse o ricoperte di scritte. Nel Regno Unito è accaduto con quelle di commercianti di schiavi e politici, compreso Churchill, accusato di essere un razzista. Nei Paesi Bassi i manifestanti hanno chiesto la rimozione della statua di un funzionario della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e in Belgio la protesta si è concentrata sui monumenti dedicati al re Leopoldo II. I manifestanti denunciano il fatto che il sovrano venga ancora onorato come un benefattore, con strade che portano il suo nome e statue in molti spazi pubblici in Belgio e anche in Congo, nonostante le atrocità commesse contro il popolo congolese.

Ne parliamo con Valentin Mufila, musicista originario del Congo da anni residente in Italia e profondo conoscitore della storia africana. Una storia cancellata dal colonialismo per giustificare le atrocità e il sistematico saccheggio delle ricchezze di popoli presentati come selvaggi da civilizzare, tema su cui ha scritto numerosi articoli per Pressenza.

Che valore simbolico, spirituale e sociale hanno per te queste azioni contro le statue di personaggi come Re Leopoldo II del Belgio?

Nella cultura africana i simboli sono importanti e hanno un forte valore spirituale. Nelle società iniziatiche tutto ha un senso. Niente si fa per caso. Succede con le maschere, le bandiere, le statue eccetera. A livello spirituale per gli africani le maschere sono un simbolo di culto, non un oggetto da museo, anche se alcune hanno una valenza artistica.

I monumenti hanno un valore e una carica simili; per questo per me è così forte e toccante vedere giovani africani e belgi uniti nel rifiutare il passato simboleggiato dai monumenti dedicati a re Leopoldo II. Questo è uno degli effetti benefici dell’immigrazione, che ha creato legami e costruito amicizie tra di loro.  Veder cadere i monumenti del re del Belgio mi dà l’idea che stia succedendo qualcosa di molto forte a livello concreto, spirituale, sociale e storico. Si tratta della caduta del simbolo spirituale della potenza coloniale.

E questo mi riporta al profeta congolese Simon Kimbangu, secondo cui per la liberazione del popolo africano era necessaria prima una liberazione spirituale.

Come dicevo, anche le bandiere hanno un valore simbolico: quella dello Stato Libero del Congo creato in seguito alla Conferenza di Berlino nel 1884/85 – di fatto un dominio privato di re Leopoldo – aveva una stella gialla in campo blu. La stella simboleggiava il genio occidentale venuto a portare la salvezza e la civiltà all’oscurità africana rappresentata dal blu. Nel 1960, conquistata l’indipendenza, i padri fondatori con Lumumba hanno lasciato la bandiera com’era, ma vi hanno aggiunto una diagonale rossa come simbolo delle sofferenze e del sacrificio dei martiri congolesi.

In Congo ci sono state ripercussioni di queste proteste?

Ho chiamato amici e familiari in Congo, ma purtroppo il 90% della popolazione è povera, non ha la corrente e la connessione Internet e quindi non ha potuto seguire quello che è accaduto. Va detto però che l’abbattimento delle statue di Leopoldo II non è un fatto nuovo per noi: è già successo negli anni Settanta con Mobutu, quando il paese si chiamava Zaire, come un’occasione per eliminare i simboli dell’oppressione subita dal nostro popolo, ad esempio l’enorme monumento del re alla stazione centrale di Kinshasa.

Inoltre la campagna “Ritorno all’autenticità” lanciata da Mobutu puntava a tornare ai valori precedenti all’arrivo dei colonizzatori e a cancellare l’immaginario belga che era in noi – i belgi erano ancora i modelli da seguire. Per la prima volta avevamo la possibilità di non portare più nomi cristiani e occidentali, ma congolesi.

In Belgio il colonialismo è ancora un tema tabù nelle scuole e in Congo tu hai dovuto studiare la storia dei re belgi. Che ruolo può avere l’educazione nell’aiutare europei e africani a fare i conti con il passato?

Tornando alle manifestazioni, è molto importante vedere che giovani educati a considerare Leopoldo II un padre fondatore, un costruttore, un riformatore, un benefattore, ora rifiutino di portare il fardello di un passato fatto di schiavismo e colonialismo e riconoscano che in realtà era un tiranno. Questi giovani vogliono costruire nuovi ponti con il Congo; non vogliono dimenticare il passato, ma aprire questa pagina oscura e imparare da essa per cambiare le cose ed evitare di ripetere gli errori commessi.

In tutto l’Occidente questi sono temi ancora tabù. La morte di Floyd ha riportato alla luce pagine nascoste del razzismo e del colonialismo non solo in Africa, ma anche in Sudamerica, in Australia eccetera.

In Belgio il deputato di origine togolese Kalvin Soiresse Njall sta facendo un lavoro enorme perché nelle scuole, nelle università e nell’educazione in generale si sappia quello che è successo e si conoscano le conseguenze presenti ancora oggi. La verità va studiata: il Belgio si è arricchito con il sangue dei congolesi e la nostra storia è stata cancellata, come se tutto fosse cominciato con l’arrivo dei colonizzatori. Come se non ci fossero stati regni, monete, un sistema politico e giuridico come in tutte le civiltà. Tutto questo nelle scuole non si studia. E va studiata anche la storia oscura di tanti paesi africani, con i loro dittatori, morti e tragedie. Questo lavoro va fatto non solo nelle scuole, ma anche nell’arte, nella musica, nella cultura. L’educazione e la memoria storica sono molto importanti.

Queste azioni potrebbero a tuo giudizio scuotere le coscienze degli occidentali e degli africani su ciò che sono stati davvero la schiavitù e il colonialismo e avviare un vasto dibattito al riguardo?

Spero di sì. Come africani ci eravamo un po’ persi; gli eventi tragici accaduti negli Stati Uniti ci stanno dando uno schiaffo. C’è un punto molto importante di cui vorrei parlare: tanti africani non hanno potuto prendere il lutto per i loro cari uccisi dai colonizzatori e i loro discendenti non hanno sepolture da onorare. Parlo ad esempio dei re che non volevano sottomettersi a Leopoldo, le cui teste mozzate sono state ritrovate in un importante museo in Belgio. Dunque anche qui il recupero della memoria è fondamentale.

Come si può arrivare a toccare il tema centrale dell’enorme riparazione che l’Occidente deve ancora all’Africa e a tutti gli altri paesi depredati e colonizzati?

Non ho una soluzione magica, ma credo che sia necessario tornare ancora una volta al tema del “diritto di sapere”, concedendo per esempio agli storici l’accesso agli archivi dei paesi colonizzatori. E aggiungo il diritto a recuperare il nostro ricchissimo patrimonio artistico e culturale, come ha fatto il Benin con la Francia.

Parlando di risarcimenti economici, si dovrebbe istituire una commissione che possa individuare i danni fatti, per poi arrivare ad accordi bilaterali chiari per prendere una nuova strada, partendo da basi nuove. L’Africa ha bisogno di risarcimenti, non di nuovi debiti. Certo, non vorrei vedere un paese in bancarotta perché si è rovinato per questo, ma penso che la gente si possa organizzare, possa parlare e individuare varie possibilità.

Non mi piace sentire qualcuno chiedere scusa per tante atrocità. E’ un po’ poco; la richiesta di perdono è già meglio, ma non deve limitarsi alle parole. Non conosco le cifre esatte, ma alcuni dicono che la ricchezza accumulata dal Belgio con il sangue dei congolesi equivalga a quasi 100 miliardi di euro. Ma soprattutto credo che siano necessari atti di riconciliazione molto forti riconoscendo il passato.

L’essere umano è fatto di luci e ombre. Commette tanti errori, ma può anche imparare da essi, cambiare e portare luce, amore e fratellanza per costruire un futuro più bello e giusto.

(*) testo ripreso da www.pressenza.com/it/

L’indipendenza del Congo

di Tonio Dell’Olio

ripreso dalla rivista “Mosaico di pace”

Sono passati sessant’anni dalla dichiarazione di indipendenza del Congo. Oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo e in quella nazione il governo ha messo in piedi una serie di manifestazioni ed eventi per celebrare l’anniversario. Ma è legittimo chiedersi se è davvero democratica quella Repubblica. Come è più che sensato pellegrinare nella fame dei villaggi del Congo con la lanterna dell’intelligenza o della storia, dell’economia o della politica per cercare il significato di indipendenza. Ci sarebbe da chiedersi: “Chi l’ha vista?”. In un Paese tanto ricco di materie prime e di risorse, di umanità e di civiltà, di etnie e di natura lussureggiante è “indipendenza” partecipare al voto per eleggere un presidente ma assistere impotenti e affamati allo sfruttamento di tutte le risorse da parte di multinazionali straniere? Qualcuno se lo chiede e Nigrizia, la rivista dei missionari comboniani, ha lanciato una “maratona” per diffondere l’immagine ufficiale delle celebrazioni dell’Anniversario aggiungendo: “Basta sfruttamento e corruzione; Basta silenzio su 8 milioni di morti; No alla balcanizzazione della R.D. Congo: è tempo di speranza”. E, si sa, la conoscenza quanto meno dà una mano alla solidarietà e alla speranza.

 

In “bottega” abbiamo ragionato più volte (per esempio qui: Statue e lapidi: celebrare i boia) sull’abbattimento delle statue. Per un inquadramento sulla recente storia del Congo si può partire da Le vene aperte del Congo oppure da Patrice Lumumba e l’Occidente/Uccidente.

 

 

 

Redazione
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