Abbott, scrivere come un diavolo

Recensione a «Nel ventre della bestia» (*)   

«Non aiuta a fare sogni tranquilli» spiega Norman Mailer, introducendo «Nel ventre della bestia» ovvero le lettere che Jack Henry Abbott gli scrisse dal carcere. Eppure bisognava pubblicarle perché «poca gente sa cos’è la violenza in prigione». Il libro esce ed è un successo mondiale. Mondadori lo traduce nel 1981 e dal 26 marzo Derive Approdi lo rimanda in libreria (192 pagine per 15 euri) nella traduzione di Lanfranco Caminiti.

Quando Mailer, all’epoca uno dei più famosi scrittori statunitensi, riceve la prima lettera di Abbott sta scrivendo sul caso di Gary Gilmore, un detenuto che chiede (e ottiene) di essere “giustiziato” per i suoi delitti. Più che pentito Gilmore è terrorizzato all’idea di passare una vita in carcere. Difficile da capire per chi, come Mailer, in cella non è mai stato rinchiuso. Ma ora Abbott gli spiega che «la prigione è una macchina infernale di distruzione». Lui sa di cosa sta parlando: è un rapinatore, ha passato in galera la maggior parte della sua vita, qui ha ucciso, è fuggito (l’unico da un carcere di massima sicurezza in Utah) ed è stato ripreso.

Lo scambio di lettere fra Abbott e Mailer viene pubblicato con successo. Il clamore consente ad Abbott di ottenere la libertà condizionata. Si stabilisce a Greenwich ma dopo 6 settimane in una rissa pugnala a morte un cameriere. Condannato ad altri 15 anni, nel febbraio del 2002, quando ha 58 anni, si suicida.

Anche se in galera Abbott legge molto (cita con tranquillità filosofi e poeti) non sono le sue analisi sul crimine ad appassionare quanto la sua qualità letteraria. Ma ha ragione Mailer a domandarsi se, per gente violenta come lui, l’unica risposta della società può essere la prigione: quel suo pazzesco coraggio poteva essere indirizzato meglio? Se invece si crede nella predestinazione “sociale” tutta la vita di Abbott e persino quel che scrive portano verso un epilogo ultra-violento. Siccome viviamonell’epoca della riproducibilità tecnica degli Abbott cioè delle guerre mondiali e degli assassini di massa dovremmo porci più complesse domande. Per una coincidenza Derive Approdi manda in libreria anche «Teoria del drone: princìpi filosofici del diritto di uccidere» di Grégoire Chamayou Molti diranno che è un altro discorso. Ma forse no.   

(*) Questa mia recensione è uscita l’11 marzo (al solito: parola più, parola meno) sul quotidiano «L’unione sarda» (db)

 

 

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