Abruzzo: boom della Lega

Due riflessioni sul risultato delle elezioni regionali del 10 febbraio

di Franco Astengo

 

Abruzzo: numeri elettorali

Le elezioni regionali svoltesi domenica 10 febbraio in Abruzzo erano molto attese da tutti gli addetti ai lavori con l’obiettivo di misurare i nuovi rapporti di forza tra i partner di governo, così come i vari sondaggi stavano indicando da tempo.

L’attesa non è andata delusa ma, come sempre, è bene procedere a una valutazione più attenta svolta sulla base delle cifre assolute e non semplicemente attraverso le percentuali.

In ogni caso ci troviamo di fronte ad un altro dato di forte volatilità elettorale verificatasi sia all’interno del perimetro della coalizione di centro destra, sia in uscita da parte del Movimento 5 stelle e del PD.

Il risultato della coalizione di centro sinistra deve comunque essere valutato tenendo conto della presenza di un numero considerevole di liste locali.

Iniziamo però dalla partecipazione al voto.

Il numero dei voti validi è risultato, infatti, in netto calo rispetto alle occasioni precedenti.

Le elettrici e gli elettori iscritti nelle liste risultavano 1.211.204 a fronte di 1.211.678 nelle elezioni regionali del 2014 (un dato sostanzialmente stabile). Nelle elezioni politiche il dato degli aventi diritto deve essere depurato dal numero di elettrici ed elettori iscritti all’estero:per questo motivo nelle liste dei comuni abruzzesi, al 4 marzo 2018, risultavano iscritti 1.045.163 unità.

In ogni caso il calo nella partecipazione al voto appare piuttosto evidente.

Nelle urne delle elezioni regionali 2014 furono, infatti, depositati 691.492 voti validi per l’elezione del Presidente e 672.467 destinati alle liste; con le politiche 2018 questo numero risultò in crescita fino a 760.188. Il 10 febbraio 2019 abbiamo avuto 624.482 voti validi per i candidati – presidente e 595.644 per le liste.

Tra le elezioni regionali 2014 e quelle 2019 il calo è stato di 67.010 unità per i presidenti e di 78.623 per le liste. Tra i voti validi espressi nelle elezioni politiche del 2018 e quelli espressi per le liste delle regionali 2019 il calo è di 164.544. Percentualmente nel 2014 i voti validi per i presidenti furono il 57.06% mentre per le liste il 55,49%. La percentuale dei voti validi alle politiche 2018 fu del 72,73%. Regionali 2019: per i presidenti 51,55%, per le liste 49,17%, al di sotto del 50%.

Il primo punto da valutare quindi è quello dell’aumento della disaffezione al voto: si tratterà di stabilire, da questo punto di vista, quanto risultino poco attrattive le elezioni regionali oppure quanto pesi in certi strati di elettorato l’assenza di un’adeguata offerta politica.

Passiamo allora all’esame dei voti espressi, cominciando da quelli per i candidati presidenti.

Il candidato eletto per il centro destra, Marsilio, appoggiato da 5 liste ha ottenuto 299.499 voti. Nelle elezioni 2014 il candidato Chiodi, appoggiato da 4 liste (la Lega, allora Nord, non era presente) registrò 202.346 suffragi. L’incremento è stato dunque di ben 97.603 voti. Percentualmente, esaminando però il dato sul totale degli iscritti e non dei voti validi il candidato del centro destra ha ottenuto: nel 2014 il 16,69%, nel 2019 il 24,76%. In sostanza il presidente della Regione Abruzzo è stato eletto da meno di un quarto degli aventi diritto.

Dato di rilevante flessione per la candidatura a presidente avanzata dal centro-sinistra. Nel 2014 D’Alfonso (appoggiato da 8 liste) fu eletto con 319.887 voti. Nel 2019 il candidato Legnini è stato sconfitto con 195.394 voti, una flessione di 124.493 suffragi. In percentuale, sempre sul totale degli iscritti e non dei voti validi, il candidato del centro sinistra ebbe, nel 2015, il 26,40% mentre nel 2019 la percentuale si è abbassata al 16,13%. Una flessione superiore al 10%.

Il movimento 5 stelle ha candidato sia nel 2014, sia nel 2019 Sara Marcozzi: nel 2015 i voti ottenuti furono 148.035 , quattro anni dopo la quota si è abbassata a 126.165 suffragi, con un meno 14.987. In percentuale: 2015 12,21%, 2019 10,41%

L’attenzione degli osservatori e degli addetti ai lavori era però tutta concentrata sul risultato del Movimento 5 stelle in relazione a quello ottenuto in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo 2018.

Principiamo allora da lì l’analisi dell’andamento delle liste, seguendo i passaggi possibili tra l’esito delle Regionali 2014, le Politiche 2018 e le Regionali 2019.

La lista del Movimento 5 stelle alle Regionali 2014 ottenne 141.152 voti, una cifra impennatasi nelle Politiche 2018 fino a 303.006 unità e ridiscesa bruscamente a 117.386 voti nel 2019. La perdita tra le politiche del 2018 e le Regionali del 2019, in meno di dodici mesi, è stata di 185.620 voti e rimane comunque in flessione anche il dato del rapporto i voti del 2014 e quelli del 2019 con un calo di 23.766 suffragi. In percentuale, sempre riferita al totale degli iscritti, il M5S è passato dal 11,64% al 28,99% e ancora al 9,69%. Si può quindi parlare, almeno per quel che riguarda la Regione Abruzzo, di declino incipiente: resta da stabilire quanto abbia pesato un’eventuale debolezza nelle candidature locali oppure quanto stia incidendo la situazione generale caratterizzata dal ruolo di governo assunto dal Movimento Stesso.

L’altro fenomeno fortemente atteso era quello rappresentato dal sicuro, almeno secondo i sondaggi, incremento realizzato dalla Lega.

Anche in questo caso le attese non sono andate deluse: ovviamente il raffronto riguarda soltanto quanto avvenuto nelle politiche 2018 e nelle Regionali 2019. Nelle Regionali 2014, come è già stato ricordato, la Lega non era presente.

Il 10 febbraio 2019 si è verificato, prima di tutto, il rovesciamento nei rapporti di forza all’interno del centro destra tra la Lega e Forza Italia. Se il 4 marzo 1918 Forza Italia, sia pure a fatica, aveva mantenuto una supremazia, il 10 febbraio 2019 si è delineato un quadro completamente diverso.

Forza Italia che alle Regionali 2014 aveva realizzato 112.316 voti mantenendo, nelle politiche del 2018, un dato sufficientemente stabile con 110.427 voti ha praticamente dimezzato con le regionali 2019 scendendo a 54.068 voti.

Dal canto suo la Lega è salita da 105.449 voti nel 2018 a 164.086 nel 2019. In sostanza tra il 2018 e il 2019 Forza Italia ha perso 56.359 voti, mentre la Lega ha incrementato di 58.637 unità, quasi una partita di giro. Se consideriamo nell’ambito del centro destra come FdI sia cresciuto sia pure di un minimo tra il 2018 e il 2019(da 37.605 a 38.412) così come l’UDC (dal 16.688 a 17.179) con 19.406 al movimento civico Azione Politica,si può ben affermare che il successo del centro destra si sia verificato soprattutto in ragione della stabilità del proprio elettorato, spostatosi in quota molto rilevante dal voto a Forza Italia a quello verso la Lega e non soffrendo dell’aumento dell’astensioni ma neppure ricevendo quote significative da altri schieramenti. Il voto alle liste di centro destra (diverso come abbiamo visto il voto rivolto al candidato Presidente) si può definire un voto di conservazione con uno spostamento di leadership. Quanto il voto abruzzese, sotto quest’aspetto, avrà valore al riguardo del quadro nazionale sarà questione da verificare nei prossimi giorni, ma il segnale sembra proprio inequivocabile.

Discorso diverso per quel che concerne il centro sinistra presentatosi con all’interno anche la sinistra di LeU e un tentativo di ripresa di presenza dell’Italia dei Valori.

La perdita rilevante di voti fatta registrare dalla candidatura a Presidente coincide con un calo molto netto da parte della lista del PD.

Nel 2014 la lista del PD aveva fatto registrare 171.520 voti, scesi alle politiche a 108.549 e ridotti alle regionali del 2019 a 66.344. Un calo tra il 2014 e il 2019 di 105.176 unità. In percentuale sul totale degli aventi diritto il PD scende dal 14,15% al 10,38% sino al 5,47%. Si potrebbe affermare che il PD paga, come del resto il Movimento 5 stelle, l’aumento della non partecipazione.

Il fronte del centro sinistra però fa registrare un altro elemento al quale prestare grande attenzione: quello della presenza di liste civiche al fianco della lista principale.

Nelle elezioni 2014 le due liste “Regione Futura” e “Valore Abruzzo” avevano ottenuto complessivamente 47.830 suffragi (voti rivelatisi completamente di natura locale, perché come abbiamo visto la lista PD era poi calata tra le Regionali e le Politiche). In quest’occasione, 2019, tre liste Abruzzo in Comune, Abruzzo Insieme e la lista Legnini Presidente- Abruzzo Futuro hanno ottenuto complessivamente 72.246 voti colmando però solo parzialmente il deficit del PD.

Si può però affermare che l’abbassamento nel totale dei voti validi abbia colpito maggiormente il Movimento 5 stelle: senza voler anticipare alcuna affermazione riferita al quadro generale emerge quindi la sensazione evidente di un passaggio di elettrici ed elettori dal M5S alla disaffezione al voto in misura che può essere giudicata tendenzialmente rilevante. Nessuna delle liste presenti, almeno in Abruzzo, sembra essersi avvantaggiata più di tanto dal calo del M5S.

Rimane da esaminare l’esito del voto per quel che ha riguardato la sinistra di LeU.

Nel 2014 SeL aveva ottenuto 16.156 voti (senza contare 11.936 voti avuti da una lista socialista alleata del centro sinistra): Leu alle politiche del 2018 aveva toccato quota 19.793 mentre la lista presente alle Regionali 2019 si è fermata a 14.532 voti. Un segnale di ulteriore difficoltà.

Nell’ambito del centro sinistra erano presenti anche una lista del Centro Democratico (13.975 voti rispetto ai 17.031 del 2014 e i 14.419 di più Europa nel 2018), una lista di “Centristi per l’Europa” (7.860 suffragi) e la lista IDV Avanti Abruzzo (5.603).

In conclusione quali tendenze si possono individuare dal voto abruzzese?

1) Cresce ancora la disaffezione al voto pur tenendo conto della minore appetibilità delle elezioni regionali rispetto a quelle politiche (normalmente però sono le elezioni europee quelle meno frequentate). Questo dato consiglia grande cautela nel considerare le percentuali che, da molte parti, sono avventatamente enfatizzate (come accadde nel 2014 al fantomatico 41% del PD(R))

2) Il calo del M5S potrebbe preludere davvero a un “declino incipiente”;

3) Il PD non trova ragioni di pensare a un arresto del suo declino: anzi.

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La sindrome di Castellamare e la sindrome d’Abruzzo

di Franco Astengo

Il 20 giugno 1976 il PCI raggiunse il massimo della sua espansione elettorale: 12.614.650 voti pari al 34,37% (su di un totale del 93,39% di votanti: particolare non trascurabile).

Di fronte quel PCI si trovò il gigante democristiano risorto come Proteo dalla caduta di 12 mesi prima in occasione delle elezioni amministrative 1975: la DC raccolse, in quello stesso 20 giugno 1976, 14.209.519 voti pari al 38,71%.

Da quel risultato ne sortì, come molti ricordano, il governo Andreotti III basato sulle astensioni: un topolino rispetto alle due montagne che l’avevano partorito.

La Repubblica si stava avviando verso la sua fase più drammatica e convulsa, segnata dal rapimento e dal’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta avvenuto nel momento in cui il PCI passò dall’astensione all’ingresso in maggioranza senza però entrare al governo che restò composto nella formula del monocolore democristiano.

In quella fase però si registrarono le prime avvisaglie della “crisi di sistema”, di distacco di massa da quella che Pietro Scoppola avrebbe definito “la Repubblica dei partiti”.

Il PCI fu il  primo soggetto ad essere colpito da questo fenomeno che poi si sarebbe prolungato nel tempo fino ad assumere le massicce dimensioni della cosiddetta “antipolitica” nelle forme in cui oggi stiamo conoscendola.

Il PCI, infatti, fu vittima di quella che venne definita come “sindrome di Castellamare”.

Accadde questo: il 17 aprile 1977 si tenne un turno di elezioni amministrative. Ci si trovava quindi in pieno “governo delle astensioni” e ben in precedenza del rapimento Moro , anzi proprio l’11 marzo 1977 il presidente della DC aveva pronunciato alla Camera il famoso discorso sul “non ci faremo processare in piazza” a proposito dell’affare Lockheed .

Tra i comuni impegnati in quella tornata c’era anche Castellamare di Stabia, popoloso centro operaio (cantieri navali) della Campania. Il 20 giugno 1976 il PCI aveva ottenuto il 45,81%; percentuale scesa il 17 aprile 1977 al 33,06%.

Quel risultato fu indicato da più parti come un segnale di già incipiente declino elettorale del Partito Comunista in particolare al Sud. Invano Celso Ghini, massimo esperto elettorale del Partito  (cfr. il volume uscito postumo “Itinerari elettorali 1976-1980 Salemi editore) cercò di buttare acqua sul fuoco sostenendo la tesi classica della comparazione da eseguirsi per tipi di elezioni omogenee (dalle precedenti comunali a quelle del 1977 il Pci aveva mantenuto intatto il proprio patrimonio di seggi).

Non ci fu nulla da fare: la percezione del calo si fece strada nella mente di militanti e dirigenti e assunse dimensioni evidenti anche sul piano della psicologia di massa all’interno del partito: nacque così la cosiddetta “Sindrome di Castellamare” intesa come segnale di uno spostamento di fondo di un equilibrio, il classico fiocco di neve che diventa valanga.

In realtà la prima vera scossa all’intero sistema dei partiti arrivò (e fu ignorata da analisti e benpensanti) l’11 giugno 1978, a tragedia Moro conclusa e consumata la divisione (irreparabile) tra partito della “fermezza” e partito della “trattativa”.

In quel giorno si votò per due referendum: uno riguardante l’ordine pubblico (la cosiddetta “Legge Reale”) e l’altro sul finanziamento pubblico ai partiti, per chiedere l’abrogazione della legge che dal 1974 faceva sì che ai partiti fossero erogati finanziamenti statali, legge voluta fortemente in particolare dal PRI pensando di ovviare alle magagne scoperchiate dai pretori d’assalto genovesi (Sansa, Almerighi, Brusco) nel merito dello “scandalo dei petroli”.

Ebbene fu dall’esito di quel referendum che vide la legge confermata soltanto dal 56,26% delle elettrici e degli elettori con il NO al 43,74% (votanti l’81,41%) che arrivò quella scossa: infatti fu quella la prima occasione che si potrebbe definire di “disobbedienza di massa” verso le indicazioni dei partiti (nel 1974, in occasione del referendum sul divorzio un fenomeno analogo riguardò esclusivamente il mondo cattolico e la DC). In vista dell’11 giugno 1978, infatti, tutti i partiti della “solidarietà nazionale” escluso il PLI, avevano fornito l’indicazione del “NO” che così avrebbe dovuto superare di gran lunga l’80% dei voti. Contrari infatti e decisi per il SI all’abrogazione erano risultati soltanto i radicali, promotori del referendum, che in quel momento disponevano di 4 (quattro) deputati, il PdUP presente in parlamento con 6 deputati e il MSI.

Tutta questa ricostruzione per arrivare a scrivere dell’Abruzzo di oggi, al riguardo del M5S.

In un quadro di forte disaffezione al voto (alla fine i voti validi per le liste sono stati il 49,17%) il M5S ha fatto registrare un dato di significativo arretramento sia rispetto alle Regionali 2014 (da 141.152 voti a 117.386) sia soprattutto al riguardo delle Politiche 2018 dove il M5S aveva ottenuto 303.006 unità: un calo quindi, in soli 12 mesi, di 185.620 voti in una regione piccola e periferica come l’Abruzzo.

Non siamo in grado ovviamente di prevedere se sorgerà proprio una “Sindrome Abruzzo” come un tempo era emersa una “Sindrome Castellamare”.

Un dato però sarebbe il caso di esplicitare con chiarezza contestando anche l’analisi fornita dall’Istituto Cattaneo: il M5S non sta perdendo a destra e a sinistra, sta perdendo soprattutto e quasi essenzialmente verso l’astensione.

Una astensione che continua ad essere sottovalutata nella sua crescita e che il M5S non ha saputo interrompere, nonostante le proclamazioni verbali legati alle espressioni anti politica e di ribellismo.

Quello dell’astensione è un “ventre molle” che si allarga in un quadro di deficit di offerta politica che ormai dura da troppo tempo e che si cerca- appunto – di coprire con formule vuote come quella della “democrazia diretta”.

Mentre sui media si leggono dichiarazioni di questo tipo:

“A SANREMO IL POPOLO DEVE SENTIRSI RAPPRESENTATO, CORREGGERE IL SISTEMA DI VOTO”

Non si fermano le polemiche sul meccanismo di voto per decretare il vincitore di Sanremo. Tra le voci che si sono levate a favore della prevalenza delle preferenze espresse dal pubblico anche quelle di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E, sulla scia di queste dichiarazioni, interviene anche il presidente Rai, Marcello Foa.”

Mentre si pensa alla democrazia diretta per Sanremo, dalle regionali d’Abruzzo arriva un segnale di ulteriore disaffezione nel riconoscimento politico di massa.

Un sistema , quello politico italiano, che presenta buchi vistosi sempre più evidenti che lo mostrano sempre più fragile a sollecitazioni, più o meno brusche, di restringimento delle forme di democrazia come previste dalla Costituzione.

Le dichiarazioni riguardanti Sanremo non rappresentano quisquilie ma piuttosto  l’ulteriore segnale di una difficoltà del complesso sistema di  articolazione della “relazione pubblica”: da non sottovalutare e sul quale riflettere.

Altro che “sindrome di Castellamare”, nel deficit di rappresentanza politica si aprono spazi per operazioni pericolose.

 

 

Redazione
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