Accade (anche) in Brasile: Zara, Mc Donald’s e il lavoro schiavo

di David Lifodi

Il meglio del blog-bottega /168…. andando a ritroso nel tempo (*)

Il lavoro schiavo rappresenta una piaga per tutto il sud del mondo, e anche l’America Latina, purtroppo, non fa eccezione. Due episodi, avvenuti entrambi in Brasile, hanno fatto discutere negli ultimi mesi: la scoperta di vere e proprie maquiladoras nel settore dell’abbigliamento e della ristorazione fast-food. Storie molto simili tra loro, che segnalano l’impunità dei grandi marchi internazionali. A finire sotto la luce dei riflettori, in negativo, Zara e Mc Donald’s. Per la prima, multinazionale spagnola ormai diffusa ovunque (il suo marchio è presente anche nelle principali città italiane), l’onta di dover ammettere l’utilizzo di manodopera schiava; per la seconda, le cui malefatte sono universalmente note in tutto il mondo, la vergogna di accumulare multe su multe per quotidiane violazioni dei diritti sindacali.

Zara sale agli onori della cronaca tra agosto e settembre di quest’anno, quando la Superintendência Regionaldo Trabalho e Emprego di San Paolo scopre quindici persone costrette a lavorare in condizioni di schiavitù in un laboratorio tessile a nord della capitale paulista. Il programma “A Liga”, della rete tv Bandeirantes, apre una finestra sul degrado di questo capannone clandestino, non l’unico, in cui (soprav)vivono, in condizioni disumane, dei lavoratori adolescenti. Si tratta di migranti, in gran parte boliviani. Arriva il Ministero del Lavoro brasiliano e, grazie anche a Tv Bandeirantes, emerge un quadro drammatico. Zara aveva appaltato i lavoratori, e le loro vite, ad un’impresa locale denominata Aha: per abiti venduti nei negozi delle grandi metropoli del paese ad un prezzo tra i 139 ed i 150 reais (soprattutto felpe per la collezione primavera-estate), il ricavo per questi sarti invisibili era a malapena di 2 reais, poiché 5 se li prendeva il boss della maquiladora. Il copione, in questi casi, è più o meno lo stesso:Zara, che ha come riferimento il brand spagnolo Inditex, dice di non saperne niente, ed il suo presidente Enrique Huerta Gonzalez  rifiuta di presentarsi di fronte alla Commissão de Defesa dos Direitos da Pessoa Humana, da Cidadania, da Participação e das Questões Sociais dell’Assembleia Legislativa dello stato di San Paolo, a cui era tenuto a fornire una spiegazione plausibile in merito alla vicenda. Assenti anche i dirigenti di Aha, la marca che svolgeva un ruolo di intermediazione tra Zara e i laboratori illegali: entrambi hanno addotto come scusa il breve periodo di tempo intercorso tra il ricevimento della convocazione e la data prestabilita per l’udienza. Nel frattempo il nome di Zara viene definitivamente associato a quello del trabalho escravo, come emerge tuttora da una semplice ricerca su Google. Sedici ore di lavoro e assenza di un salario minimo fisso segnano altri due punti di discredito per la multinazionale spagnola. La Costituzione brasiliana stabilisce che il salario minimo per un lavoratore non può scendere sotto i 545 reais, mentre per i lavoratori di Zara la paga oscillava tra i 274 e i 460 reais, ma ancora più grave è quanto hanno scoperto gli inviati del Ministero del Lavoro insieme ai sindacalisti del Sindicato das Costureiras (sarti) ed ai rappresentanti del Núcleo de Enfrentamento ao Tráfico de Pessoas da Secretaria da Justiça e Defesa da Cidadania do Estado de São Paulo: utilizzo del lavoro infantile e proibizione assoluta di lasciare il posto di lavoro. Una lavoratrice ha dichiarato che poteva abbandonare la sua postazione solo in casi urgentissimi, quali, ad esempio, la necessità di portare il figlio dal medico. Quando il Ministero del Lavoro ha evidenziato la presenza di circa 35 laboratori illegali clandestini che lavoravano per Zara, la stessa multinazionale spagnola ed il suo brand di riferimento, Inditex, sono stati costretti ad uscire allo scoperto. In una nota hanno parlato di esternalizzazione del lavoro non autorizzata e, poco più di un mese fa, hanno firmato un patto per combattere il lavoro schiavo in Brasile. Pur riaffermando la loro completa estraneità rispetto a quanto raccontato sopra, Zara e Inditex  si sono impegnate a revocare i contratti di appalto  con imprese che figurano sulla lista nera del Ministero del Lavoro, tra le quali dovrebbe comparire anche Mc Donald’s, gigante della ristorazione e soprattutto impresa planetaria del cibo spazzatura. Più o meno nello stesso periodo in cui esplode lo scandalo Zara, ancora la Commissione per i Diritti Umani dell’Assemblea Legislativa di San Paolo raccoglie le testimonianze di ex dipendenti di McDonald’s, molti dei quali poco più che adolescenti, vittime di umiliazioni e vessazioni. Si va da aggressioni fisiche del capo-negozio ad incidenti sul lavoro per i quali non hanno ricevuto alcun tipo di soccorso. A questo proposito due esempi significativi: il primo riguarda una cameriera scivolata senza ricevere alcun aiuto dei capi-reparto in servizio, preoccupati soltanto di salvare i vassoi pieni di hamburger e merendine, il secondo si riferisce all’obbligo di proseguire il lavoro con una bruciatura ad una mano per una lavoratrice adolescente. Il Sindicato dos Trabalhadores em Hotéis e Restaurantes (Sinthoresp) parla di proroga arbitraria delle giornate di lavoro senza alcun pagamento degli straordinari, secondo un sistema adottato nel 1995 e che obbliga il lavoratore a rimanere per l’intera giornata a disposizione dell’impresa. I turni di lavoro sono modificati continuamente e non viene garantito un periodo minimo di riposo di undici ore tra due giornate lavorative: tutto ciò significa che McDonald’s condiziona fortemente la vita dei suoi dipendenti. Nonostante alcune sentenze favorevoli ai lavoratori da parte del Ministero del Lavoro, che ha imposto pesanti sanzioni pecuniarie alla multinazionale dello junk-food, resta ancora molto da fare.

In Brasile, come in tutto il continente, sono migliaia le grandi corporations che non solo violano i diritti dei lavoratori ma addirittura riescono a soggiogarli e a tenerli in condizioni disumane in barba a qualsiasi regola. Per una multinazionale come Zara, che alla fine ha sottoscritto un accordo teoricamente rispettoso dei diritti dei lavoratori (forse solo in considerazione del danno d’immagine che ne è derivato), sempre nel settore dell’abbigliamento, per non parlare delle catene della grande distribuzione (vedi corazzate quali Wall Mart e Tesco) o delle transnazionali nel settore agro-industriale, i diritti dei lavoratori continuano ad essere un optional.

(*) Anche quest’anno la “bottega” recupera alcuni vecchi post che a rileggerli, anni dopo, sono sembrati interessanti. Il motivo? Un po’ perché 14mila articoli (avete letto bene: 14 mila) sono taaaaaaaaaaanti e si rischia di perdere la memoria dei più vecchi. E un po’ perché nel pieno dell’estate qualche collaborazione si liquefà: viva&viva il diritto alle vacanze che dovrebbe essere per tutte/i. Vecchi post dunque; recuperati con l’unico criterio di partire dalla coda ma valutando quali possono essere più attuali o spiazzanti. Il “meglio” è sempre soggettivo ma l’idea è soprattutto di ritrovare semi, ponti, pensieri perduti… in qualche caso accompagnati dalla bella scrittura, dall’inchiesta ben fatta, dalla riflessione intelligente: con le firme più varie, stili assai differenti e quel misto di serietà e ironia, di rabbia e speranza che – speriamo – caratterizza questa blottega, cioè blog-bottega. [db]

 

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

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