Addio meraviglioso Bradbury

Si fa chiamare Blackstone il Meraviglioso. Un mago fra i tanti. Una sera, in una piccola cittadina, cerca un assistente per qualche trucco. Vede in prima fila un ragazzino e lo chiama sul palco. Siamo nel 1929 e quell’incontro segna per sempre il piccolo (9 anni appena) Ray Bradbury che annuncia ai suoi: «Io diventerò il più grande mago del mondo». Ci è andato vicino: con alcuni racconti e due romanzi – «Cronache marziane» e «Fahrenheit 451» – ha stregato milioni di persone. Senza per questo finire sul rogo – anzi – come capitò a una sua antenata che, alla fine del 1600, era stata accusata di stregoneria in un posticino agitato noto come Salem.

Già 10 anni dopo l’incontro con «il meraviglioso» (sotto le spoglie del mago Blackstone) Bradbury inizia a scrivere e continuerà sino al nuovo secolo. Pur non avendo conoscenze e passioni scientifiche intuisce che la nascente science fiction fa per lui: i sogni e le paure di sempre si incontrano nel ‘900 con il moderno, con tecnologie che ai più sembrano magia.

Maturità e successo arrivano alla fine degli anni ’40 con i 28 racconti di «Cronache marziane». I marziani di Bradbury, all’opposto di Wells, non sono aggressivi e per difendersi dall’invasione terrestre mettono in campo illusioni più che armi. Saranno sterminati dal morbillo, i pochi superstiti si nascondono ma torneranno spesso (ombre o realtà) a inquietare i conquistatori, forti solo della telepatia che consente loro di leggere i desideri dei terrestri. Il popolo sconfitto che non sparisce è un apologo dei pellerossa e molti altri passaggi di «Cronache marziane» rimandano alla colonizzazione dell’America. Choccante all’epoca (negli Usa esisteva ancora l’apartheid) il racconto nel quale i «negri» partono tutti per Marte. Altre pagine restano indimenticabili: la città automatizzata al servizio di abitanti scomparsi, l’incontro fra il cristianesimo dei terrestri e la religione degli Antichissimi, il marziano che impazzisce perchè deve soddisfare troppi desideri altrui.

Nel 1953 arriva «Gli anni della fenice», noto come «Fahrenheit 451» (a quella temperatura la carta prende fuoco). La fama si moltiplica tanto più per il film che nel 1966 ne trae Francois Truffaut. I pompieri del futuro devono spegnere gli incendi, cioè le passioni, che i libri accendono e dunque – per contrappasso – bruciano le biblioteche. Il movimento di resistenza però dispone di un’arma invincibile: tramandarne i contenuti a memoria.

Da allora Bradbury ha continuato a muoversi nei territori del fantastico (ma anche del giallo, della letteratura mainstream, della saggistica) facendo felici gli editori ma senza ritrovare – salvo in alcuni racconti – la vena dei primi anni. Talvolta smielato, almeno secondo i suoi detrattori, spesso ripetitivo ma comunque legato a quel desiderio che aveva espresso a 9 anni.

Circa 50 anni fa in molti Paesi il vento del futuro, di un grande (forse pericoloso) mutamento soffiava impetuoso, dunque la fantascienza era all’apice. Allora si disse che l’Abc del futuro era in Asimov, Bradbury e Clarke. Se ne sono andati tutti e tre, per ultimo Bradbury che fu di certo il meno «scientifico». Anche se il futuro oggi sembra inesistente, l’alfabeto della fantascienza non si è fermato all’Abc. Se proprio si vuole andare per ordine ci sono stati Dick, Ellison (o Evangelisti), Farmer. Ma gli appassionati consigliano di saltare alla S e di correre in edicola (proprio in questi giorni con Urania) a cercare Sawyer. Il fantastico non è morto con il mago Bradbury.

UNA BREVE NOTA

Questo mio pezzo è uscito ieri sul quotidiano «L’unione sarda». Così breve per un autore, importante e complesso, come Bradbury da lasciarmi insoddisfatto almeno un po’ (a mio avviso persino «il manifesto» che giovedì ha dedicato due pagine al “marziano” non è riuscito a fare un ritratto completo, ben inquadrato storicamente). Mi consola sapere che qui in blog in un martedì vicinissimo sarà Fabrizio Melodia, detto Astrofilosofo, a tornare sul buon vecchio Ray. In tutto quel che ha scritto c’era un po’ troppo miele per i miei gusti ma quanta saggezza, poesia e magia. Più volte amici e amiche mi hanno consigliato di leggere un recente, insolito Bradbury cioè «Lo zen e l’arte della scrittura» tradotto in italiano da DeriveApprodi. Non ho trovato il tempo di farlo – ma sto puntando come il “gorilla” di Dazieri a sdoppiarmi in due per fare di notte quel che lascio incompiuto di giorno – però il coro compatto e qualificato mi induce a segnalarlo. ( db)


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