Africa-Francia, cambio di passo

di Achille Mbembe (ripreso da gliasinirivista.org)

 

(Traduzione di Livia Apa)

 

L’ormai celebre discorso di Emmanuel Macron pronunciato nel 2017 a Ouagadougou in cui il presidente francese si impegnava a cambiare il rapporto della Francia con il continente africano, ha dato vita ad una serie di iniziative che hanno avuto come obbiettivo promuovere un’idea dell’Africa e del rinnovato rapporto della Francia con il continente. Sono ovvi i motivi che hanno spinto Macron a questo “cambiamento di rotta”. L’Africa è il continente del futuro come viene ripetuto da più parti, ma è soprattutto un grande e nuovo potenziale mercato che guadagna sempre più spazio nello scacchiere internazionale. Macron ha quindi dal 2017 ad oggi promosso alcune (importanti) azioni che hanno avuto come obbiettivo restituire visibilità al continente. La cultura ha fatto la parte del leone. Il rapporto Sarr-Savoy sulla restituzione delle opere d’arte africane presenti nelle collezioni europee, la kermesse “Afrique2020”, le cui attività sono state però stravolte e travolte dalla congiuntura pandemica e lo stesso Summit di Montpellier che ha avuto luogo nella città francese l’8 ottobre scorso ne rappresentano i momenti più salienti.

Molte critiche sono piovute su Achille Mbembe quando ha accolto l’invito di Macron ad accompagnarlo nella costruzione di un momento di confronto rinnovato tra Francia e il continente africano, ma a prescindere da ogni eventuale valutazione sul suo “entrismo”, ci sono alcuni dati importanti che si possono leggere da questa esperienza. Primo: le teste pensanti provenienti dal mondo della cultura africana possono e devono avere un ruolo politico in senso lato nel cambiamento del continente. Mbembe ha invitato nella sua task force organizzativa figure come quelle di Chimamanda Ngozi Adichie, di Mohamed Mbougar Sarr, premio Goncourt 2021, dell’architetto David Adjaye, dell’economista Kako Nubukpo o ancora il medico Denis Makwege, per pensare un possibile dialogo fra chi vive il continente e chi eventualmente ci vuole continuare ad investire denaro e estrarne risorse. Secondo: la lingua in sé non è più l’unico vettore in grado di gestire e immaginare il rapporto tra antica potenza colonizzatrice ed ex- colonie. Dal punto di vista soprattutto dell’economia, infatti, ci sono blocchi regionali ormai sempre più autonomi che si reggono per dinamiche interne che superano gli assetti e le frontiere imposti dalla colonizzazione. Si tratta di un elemento non trascurabile che può avere ripercussioni anche sulla gestione degli aiuti allo sviluppo e l’azione del mondo delle Ong. Terzo: si può parlare di Africa solo partendo dai territori, ascoltandoli e decolonizzando nei due sensi un rapporto ormai troppe volte tossico. Ma l’elemento più importante e nuovo cavallo di battaglia della politica di Macron post Summit di Montpellier, è quello di valorizzare il ruolo della diaspora come nuova soggettività politica. Si tratta di un passaggio significativo ma delicato per le implicazioni che esso può avere non solo nel rapporto Francia-Africa ma anche nelle dinamiche interne ad entrambe le società, quella europea e quella del continente africano appunto. Stiamo a vedere.

 

 

La tradizione dei “summit disuguali”, non è certo nata oggi. Generalmente essi riuniscono da una parte, una potenza consolidata, e, dall’altra, un insieme di “Stati minori” che godono di diritti teoricamente equivalenti, ma che occupano invece una posizione subordinata nello scacchiere mondiale. È il caso dei paesi africani che partecipano assieme alla Francia, da 27 anni a questo tipo di riunioni. La Francia non è sola però, visto che paesi come la Cina, la Germania, il Giappone, l’India, la Russia sono pronti a praticare lo stesso tipo di esercizio.

Il Nuovo Summit Afrique-France si è appena tenuto a Montpellier. Vi hanno partecipato più di 3000 persone. Ma all’appello questa volta mancava la solita processione dei tiranni: capi di stato a vita, caporali, colonnelli e generali che hanno preso il potere in seguito ad un colpo di stato, presidenti al potere grazie ad un sistema di successione padre-figlio o a brogli elettorali. Costoro, semplicemente, non sono stati invitati.

 

Parole compulsive invece di analisi critiche.
Al centro dei vari dibattiti c’è stata la necessità di fondare su nuove basi il rapporto tra la Francia e il continente africano. Il presidente Emmanuel Macron mi aveva chiesto, nel febbraio del 2020 di “accompagnarlo” in questo pericoloso esercizio. Il rischio dell’equivoco c’era ed era reale. Anche amici a me molto vicini e figure che godono del mio rispetto avrebbero preferito che io gli dicessi un “no grazie”. Voltando però le spalle ai loro consigli io ho invece deciso di dire “presente!”. Una risposta affermativa a una sollecitazione di questo tipo non è necessariamente messa a tacere dal desiderio di compromesso. Rispondere vuol dire anche prendere il testimone, e, all’occasione, fissare una data.
Dopo essermi circondato di un comitato composto di personalità africane e della diaspora la cui celebrità e indipendenza di spirito non potevano essere messe in discussione, per sette mesi ho accompagnato un ciclo di 65 dibattiti in dodici paesi africani (Sudafrica, Angola, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Camerun, Nigeria, Niger, Burkina Faso, Mali, Senegal, Costa D’Avorio e Tunisia). Questi dibattiti hanno messo insieme un gruppo di circa 4000 partecipanti, la maggior parte dei quali hanno tra i 25 e i 40 anni.

Queste discussioni pubbliche si sono incentrate su tutti i temi di un rapporto ben meno caricaturale di quanto viene normalmente descritto. Marchiato a ferro da innominabili contraddizioni, esso è però potenzialmente generativo e, in ogni caso, molto più complesso di quanto ci hanno fatto credere e continuano a farci credere molti cinici, soprattutto se lo si considera non dal punto di vista della potenza e degli interessi, ma delle traiettorie individuali, familiari e professionali, cioè nel senso della sua densità umana.

In effetti, reciprocamente, l’Africa e la Francia si sono messe ad ascoltare, a parlare, a scrivere, a discutere, a pensare perché è impensabile comportarsi come se tutto fosse accaduto per niente, o come se fosse tutto già finito o come se non ci fosse più niente da fare insieme che potesse ormai avere un qualche senso. In verità, oggi succede ancora qualcosa e bisogna dare risposte, anche se per adesso è difficile dare un nome preciso a quanto sta accadendo. I vecchi termini con cui siamo stati abituati a rendere conto dei rapporti tra queste due entità ineguali non funzionano più. Oltre a non spiegare più niente, non permettono ormai di aprire una strada in direzione al futuro. Per far rivivere il linguaggio, forse dovremmo semplicemente iniziare a dire “No, non sta succedendo niente”, facendo notare che non c’è più niente, ma che sta succedendo qualcosa che ci chiede di aprire gli occhi e le orecchie in modo diverso e di imparare ad ascoltare in un nuovo modo. Purtroppo, anche negli ambienti colti e nell’opinione pubblica circola soltanto una parola compulsivamente. Il termine “Françafrique” che tante volte ha permesso di rompere tanti specchi, non sta forse diventando uno slogan privo di senso? Una manifestazione del cinismo inverso che a volte caratterizza molti movimenti di protesta, stimolo per una certa pigrizia intellettuale del giro ci porta ancora a qualcosa di concreto? È come se fosse sufficiente esibire un panno rosso perché tutti i tori mostrino immediatamente le corna. Da questo punto di vista il summit di Montpellier si è nettamente smarcato dall’approccio tradizionale. Non è stato organizzato a immagine dei capi di Stato, ma non è stato neanche fatto contro di loro. Non è stato un summit di opposizione ai governi africani al potere. Non avrebbe avuto alcun senso. È stato invece un incontro di migliaia di persone che vogliono accelerare la trasformazione del rapporto Africa-Francia. Se costoro sono accorsi all’invito di Emmanuel Macron, allora niente impedisce ai dirigenti africani di dialogare nello stesso modo, senza filtro, con la propria gente, nello stesso modo, a casa loro.

Peraltro, contrariamente a quello che si sente qua e là sono pochi quelli che appartengono all’establishment francese che si augurano davvero di ritornare alla Françafrique o di rivestirla di nuovi orpelli. A chi servirebbe infatti un corpo a pezzi, ormai destinato alla putrescenza? Compiacersene o gioirne, importa davvero poco. La Francia non ha più i mezzi per il tipo di egemonia che crede di avere in Africa. Se l’asimmetria persiste, con tutta la serie di ineguaglianze, paternalismo e a volte di condiscendenza, essa si sposta a colpi di piccole rotture che sarebbe un errore sottovalutare e che hanno bisogno di una nuova griglia di analisi.

 

Alla ricerca di un nuovo blocco storico
La verità è che la bussola sta cambiando direzione. È ormai impossibile parlare d’Africa da lontano, al suo posto e a suo nome, e questo non vale solo per la critica esogena.
Una critica intergenerazionale è in corso all’interno dello stesso continente. A titolo di esempio si pensi a tutte le discussioni intorno alla “decolonizzazione”, rivolte al rifiuto dell’imperialismo contemporaneo nella sua forma neoliberale ma anche all’ordine interno gerontocratico, patriarcale e maschilista. Esistono almeno due tipi di critiche africane alla Francia. La prima, utilizza l’argomento della sovranità e del panafricanismo, a volte nella sua versione razzialista, con la finalità di mantenere lo status quo. La Francia è allora vista come il capro espiatorio dei mali del continente, in primo luogo dalla classe al potere che ha beneficiato della sua protezione, e che si augura che un eventuale cambio di rotta non finisca per nuocere ai propri interessi.
La seconda non intende necessariamente mantenere lo status quo. Si rifà ad una autodeterminazione africana a volte ipostatizzata. Essa tende a chiudere gli occhi sul colonialismo interno, anch’esso responsabile della distruzione dei mezzi di sopravvivenza nel continente.

Ma queste dispute non ci portano a ragionare sul tipo di rapporto che l’Africa dovrebbe avere con il resto del mondo. Su questo piano, si disegna una biforcazione tra quelli che cercano di abbracciare il mondo in un modo diverso e quelli che promuovono una certa autarchia, e tra quelli ai quali occhi l’odio per un capro espiatorio è sufficiente e quelli per cui la rivoluzione consiste nel rimpiazzare questo demonio per un qualunque altro non importa quale (i luogotenenti del “tutti tranne la Francia”).
Ed è per questo che è importante ascoltare bene, e soprattutto capire profondamente le voci che si sono espresse a Montpellier perché loro indicano una terza via. Invece di parlare dei giovani in generale, essi sono espressione di una lotta intergenerazionale su cui si innestano delle considerazioni di classe, sullo sfondo di immaginari contrastanti del mondo e del rapporto dell’Africa con esso. Va detto che le figure presenti alle assise di Montpellier non rappresentavano solo i paesi francofoni.
Alcuni di loro venivano dall’Africa cosiddetta anglofona, lusofona e arabofona, dal mondo associativo e da piccoli collettivi. Qualcuno di loro si trova a capo di imprese che si occupano del digitale, di start up. Altri fanno nuovi mestieri nella comunicazione e nei media. Altri sono dei tecnici, esperti di informatica, o sono a capo di piccole e medie imprese, o di progetti nel settore bancario. Altri sono analisti di dati o specialisti di marketing e finanza, agro-ecologia, salute, servizi post-vendita, assicurazioni. E che dire dell’arte, sport della cultura e degli altri campi della creazione e dell’innovazione?

In fondo un nuovo blocco storico cerca di costituirsi al posto delle mille forme delle pulsioni françafricane, ma anche di un panafricanismo sfrenato, mischiato di incantamento, caporalismo e sovranismo. Gli impegni espressi dalla generazione che ha preso la parola a Montpellier si inscrivono piuttosto nell’orizzonte di un’Africa a multipli fusi orari, pronta a diventare uno dei laboratori più enigmatici del pianeta, ma che rifiuta il ruolo di mendicante universale che gli è stata incollata addosso da troppo tempo. Quest’Africa del futuro è già un tutto, ancorato in modo trasversale a molti mondi diversi.

 

Un’Africa a più fusi orari
In questo insieme di rapporti, la Francia e assieme a lei l’Europa, ma anche le Americhe, hanno un posto significativo. In effetti la parte africana dell’Europa e del Nuovo Mondo e la parte europea dell’Africa non emergono solo dal verbo. Che lo si voglia o meno, l’Africa si è fatta carne in Europa, così come l’Europa si è fatta carne in Africa. Questa co-nascita, o questa co-incarnazione, anche se è stata esercitata sulla base di un rapporto di forza asimmetrico, è un fatto oggettivo da cui non abbiamo ancora cominciato a trarre tutte le possibili conseguenze filosofiche, politiche e culturali.

Poco importa questa doppia genesi, che gli si dia o meno il nome di “creolizzazione”, come fece l’antillano Édouard Glissant. D’altra parte quest’intreccio è proprio l’enigma che siamo chiamati a decifrare assieme, in questo nuovo tempo per dargli una dimensione politica.
A questo riguardo, sarà sempre necessario tornare a quelle fonti battesimali che furono la tratta atlantica e la colonizzazione, a condizione di sapere con chiarezza che le significazioni ultime di questo incastro mutuo trascendono entrambi questi eventi. Per questa ragione precisamente risalire all’origine di queste significazioni impone che si ritorni sempre e continuamente a tale memoria, non per compiacersi, ma per ricordare da una posizione vigile come è urgente prendersene cura. Alcuni possono pensare che i problemi di memoria e cura non servono a niente. Eluderli rivelerà semplicemente la loro evidenza e aggraverà ancor più la loro tossicità.

Non esiste alcuna memoria delle sofferenze sterili che possa essere messa al servizio della vita e della responsabilità. Perché le sofferenze del passato siano superate, è necessario un paziente lavoro di verità e riparazione, e questo lavoro è per definizione, interminabile. Sepolti nella profondità di ogni trauma storico si trovano giacimenti di possibilità. Ed essi non possono essere scoperti se non grazie ad un nuovo pensiero e a delle nuove azioni su dei fronti sempre nuovi.

 

Far esistere un altro avvenire
Montpellier ha inoltre rivelato l’esistenza, sempre più affermata, di un’Africa che non aspetta più. Quest’Africa io l’avevo già incontrata nel mio periplo per i dodici paesi che sono serviti come terreno di sperimentazione di questo nuovo summit. Quest’Africa non si fissa su ciò che inciampa, su ciò che urta, sul fatalismo che oggi passa per radicalismo. Essa parte dal presupposto che c’è qualcosa da cogliere dalla parte del varco che si apre, nel nuovo spazio che arriva.
Ha una conoscenza viva di Kwame Nkrumah, di Cheikh Anta Diop, di Patrice Émery Lumumba, di Nelson Mandela, di Thomas Sankara e di molti altri. Ma non sente più il bisogno di inginocchiarsi davanti a loro tutte le mattine, di ripetere i loro nomi mattina e sera. Ha piuttosto gli occhi aperti, dritti verso quello che l’aspetta, che dovrà elaborare e costruire in vista di quello che arriva, per far esistere un avvenire.

In effetti in mezzo alla confusione attuale, un’altra cesura sta prendendo forma. Chi cerca di far esistere un altro avvenire si oppone a quelli che, neutrali o meno, si accontentano del ruolo di semplici commentatori incapaci di pesare sulla storia che si succede sotto i loro occhi.
In questo momento, di fronte all’imprevisto e a volte in condizioni di estremo abbandono, le comunità forgiano pazientemente dei mezzi fragili di esistenza fuori dei circuiti ufficiali. Intorno a questi gesti apparentemente anodini, nascono nuove modalità, altre forme di legittimità, e con esse si creano nuovi spazi autonomi. La maggior parte di questi sforzi hanno luogo negli ambienti che la stessa vita sembra aver disertato, contesti di insicurezza generale caratterizzati da una mancanza strutturale di assicurazioni e garanzie contro i rischi di ogni tipo.

 

Democrazia e redistribuzione dei mezzi di sopravvivenza.
Oggi la miriade di lotte esistenti riguardo la redistribuzione equa dei mezzi di sopravvivenza ricolloca, poco a poco, la questione della democrazia e della mobilità al primo posto dell’agenda Africa-Francia-Europa. Perché senza democrazia, vale a dire la creazione di ambienti istituzionali, legali economici e culturali capaci di assicurare i mezzi di sopravvivenza al maggior numero di persone, tutto resterà vano e sarà costruito sulla sabbia.
La maggior parte di queste lotte si effettuano attraverso linguaggi che noi non capiamo. Sono portati avanti con “armi miracolose” (Aimé Césaire). Il nostro modo di analisi e le nostre griglie di valutazione non riescono a misurarne il valore. Esse resistano alle nostre logiche contabili. All’improvviso non le vediamo più, non le sappiamo nominare, e soprattutto non sappiamo seguirle come si deve, quando si deve e lì dove si deve. Del resto troppo spesso i progetti che preferiamo e gli investimenti che facciamo, finiscono per distruggere queste piccole infrastrutture, impedendo la necessaria circolazione di ciò che è vivo.
È dunque arrivato il momento di riflettere sulle nostre priorità e sui nostri strumenti, sulle nostre azioni e sui nostri metodi, e soprattutto sui valori su cui poggiare tutto il progetto di ripartenza. La politica della purezza, che consiste in non comunicare che con quelli e quelle che pensano come noi, non ci porta da nessuna parte. Una critica che si accontenta di decostruire per non costruire niente.

Non è il momento solo dell’analisi, ma anche quello delle proposte. Una concezione del politico come lotta mortale in cui l’obbiettivo è sterminare il nemico o sottometterlo, o come un gioco a risultato nullo non è auspicabile. Porta solo al settarismo. La dicotomia tra agire dall’interno delle strutture e mantenere la propria purezza restando fuori è debilitante. Ricreare puramente e semplicemente la Françafrique non è la scommessa che Emmanuel Macron fa sull’Africa. Che si sia d’accordo o meno con lui, gli atti compiuti dopo il 2017 non equivalgono a una rottura completa, certo, ma non sono neanche poca cosa. Del resto, vengono sollevate questioni di fondo che si sbaglierebbe ad eludere. È possibile per esempio minare le fondamenta dell’autoritarismo post-coloniale sulla base di una nuova categoria di attori sociali e su nuove generazioni disposte all’innovazione che vogliono ardentemente approfittare delle opportunità che gli vengono offerte dall’economia di mercato? Se deve aver luogo la rivoluzione dei “cadetti sociali” (le giovani e le donne) ciò non dipende forse da un maggiore accesso a nuove dotazioni in risorse e capitale? Quale nuova generazione di strumenti potrà effettivamente dispensare queste risorse e questo capitale?

In questo scenario non sarà più il ruolo della Francia ad assumere la responsabilità della decapitazione delle élite predatrici che ha sostenuto a forza dopo gli ultimi decenni della colonizzazione o supportare il costo diretto di una trasformazione politica dei paesi africani. In teoria, questo compito tornerà agli stessi africani – e non deve essere impedito con diversi pretesti come la stabilità, la sicurezza e l’aiuto allo sviluppo.
Dopo il 2017, si è scelto di dare la priorità a degli investimenti apparentemente neutri. È il caso del digitale, del mondo imprenditoriale, e poi quello dell’innovazione, i PME, i rapporti di genere, le industrie culturali e creative, lo sport. Questi investimenti permettono alla Francia di salvaguardare se non di estendere i suoi interessi in direzione di nuove nicchie di influenza. Ma la vera questione politica non è solo sapere come finanziare questi nuovi settori. È soprattutto sapere come contribuire all’emergenza di un nuovo blocco storico. Questo non può che emergere quando il rapporto di forza tra lo Stato e la società è profondamente messo in causa. Pensare questo riequilibrio e riorganizzarlo non è forse l’inizio di nuove lotte per la democrazia?

 

Tre vettori del cambiamento di passo.
La Francia ha su questo piano perduto molto tempo e molto credito nel continente. Cercando a qualsiasi prezzo il favore di poteri vecchi e corrotti, ha fatto imputridire troppe situazioni che esigevano invece di essere trattate energicamente, con urgenza e audacia, e non di svegliarsi solo quando tutto ormai è consumato, spesso per ricorrere alla soluzione militare là dove i conflitti sono invece nell’ordine dell’economia morale. Delle situazioni per la maggior parte putride hanno finito per infettare gli spiriti, profondamente. Oggi servono come ricatto nelle mani di più di un ricattatore deciso ad agitare lo spauracchio turco, cinese o russo con l’intenzione di estorcere guadagni, concessioni e vantaggi. Bisogna quindi, costi quel che costi, liquidare una buona volta tutti questi passivi per passare ad altro. Uno degli elementi chiave di un tale lento cambio di passo consisterà nell’accelerare il ritmo della storia africana con una iniezione di velocità. Questo cambiamento di parametro del tempo e dell’azione produrrà inevitabilmente delle nuove dinamiche. I sistemi inerti saranno allora obbligati ad adattarsi cambiando, o saranno soppressi in conseguenza del ciclo naturale delle generazioni.

La strategia del lento cambio di passo non vuole dunque creare il caos né aggravare l’instabilità, ma introdurre piuttosto complessità nel gioco moltiplicando le variabili. Il cambiamento potrà allora organizzarsi sulla base di una coalizione à la carte, che sia a scala di un paese o di una regione.

È da questo punto di vista significativo che Emmanuel Macron guarda all’equazione africana a partire da tre angolazioni. Innanzi tutto si è sforzato di accelerare la conversione verso un nuovo tempo del mercato, della finanza e degli affari. La salvaguardia e il proseguimento degli interessi francesi in Africa esigono un’espansione oltre il vecchio perimetro francofono.

A testimoniare il graduale riorientarsi del flusso di scambi verso le zone anglofone e lusofone, l’accento messo sull’imprenditoria, ma anche le riflessioni in corso riguardo la ridefinizione dello sviluppo, il ruolo delle banche pubbliche d’investimento i partenariati pubblico privato la creazione di nuovi modelli di finanziamento il ruolo del debito e la sua gestione attraverso nuovi dispositivi, e più globalmente il ruolo dell’Africa nella governance mondiale degli istituti finanziari internazionali.
L’altro vettore del lento cambio di passo è il nuovo tempo tecno-numerico. Su questo piano la politica di Emmanuel Macron sarà portata avanti da una generazione inedita di investimenti nell’economia digitale. Molte speranze sono in effetti riposte in questo settore, e le sfide finanziarie occupano la parte più in vista della scena.

Ora, l’innovazione tecnologica deve essere vista in modo storico. Essa non è solo un vettore di trasformazione economica ma anche di cambiamenti culturali estremamente profondi. Può essere una leva per la creazione di nuove piattaforme economiche ma di fronte a sistemi chiusi e inerti, può generare anche altre modalità di rapporti e di organizzazione più adatta al carattere aperto, poroso, elastico delle società africane.
Una delle ultime infrastrutture del lento cambio di passo è da cercare nel campo di quello che viene chiamato creazione generale. Questo tempo ci è stato mostrato dalla Africa2020. Là si trovano cose relativamente inesplorate e dal forte potenziale d’innovazione e di redditività: cinema, cucina, moda, letteratura, musica, sport, danza, fotografia, architettura, musei, patrimonio, ecc.ecc.

E bisogna ancora una volta che questo tempo di creazione generale non sia solo considerato dal punto di vista della finanza, ma anche e soprattutto dal punto di vista della produzione dei beni pubblici e del senso e del valore, dal punto di vista dei giacimenti critici, senza i quali non è possibile costruire società durabili. Bisogna ancora creare una specie di istituzione- laboratorio, luogo permanente e autonomo, capace di stimolare questa creazione e di migliorarne la visibilità.
Sbloccare mobilità e circolazione permetterà di legare gli uni agli altri questi tre vettori del lento cambio di passo. Resterà allora da trasformare radicalmente le forme della presenza militare e le modalità di proiezione della forza sul continente.

Sulla base delle sole risorse la Francia non è più capace di imporsi da sola per molto tempo sull’ampio teatro del continente africano. A breve o a medio termine sarà obbligata a cambiare direzione. Il momento della grande occasione con il continente è dunque arrivato. Tanto vale prenderne coscienza e organizzarsi senza indugio.

 

Proponiamo questo articolo per gentile concessione della rivista francese AOC che lo ha pubblicato in versione originale il 13 ottobre 2021 (L.A.)

 

https://gliasinirivista.org/italia-francia-cambio-di-passo/

Redazione
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Un commento

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    in esso vi sottolineo che PURTROPPO nella recente intervista con Le Monde, Achille Mbembe sembra dimenticare quello che lui stesso ha chiamato brutalismo e la necropolitica.
    La domanda cruciale è: quali potrebbero essere i giusti risarcimenti e perdoni che gli stati coloniali dovrebbero assumersi di fronte alle popolazioni vittime della loro colonizzazione e di fronte agli Stati dei paesi ex coloniali senza negoziare l’abolizione del neocolonialismo?
    Nell’intervista a Le Monde Achille Mbembe adotta osservazioni, diciamo vaghe e oltremodo moderate, soprattutto rispetto a quanto ha scritto sul Brutalismo (2020). Forse anche perché ha accettato di essere nominato da Macron per preparare il vertice Africa-Francia previsto per ottobre 2021 a Montpellier. Non discuteremo qui questa scelta che appare alquanto inopportuna se non poco coerente visto che di fatto la Francia (di Macron) da tempo non lesina consulenze con le quali pretende edulcorare la sua storia sia rispetto all’Algeria (con il criticato rapporto del celebre storico Benjamin Stora (https://www.internazionale.it/opinione/pascal-blanchard/2021/01/26/francia-algeria-stora) giustamente criticato dallo storico critico del colonialismo Olivier Le Cour Grandmaison (https://blogs.mediapart.fr/olivier-le-cour-grandmaison/blog/280121/sur-le-rapport-de-benjamin-stora-le-conseiller-contre-l-historien), per non parlare della celebrazione di Napoleone che oltre ad essere fanatico guerrafondaio, fra altro ripristinò la schiavitù che era stata abolita dalla rivoluzione insieme alla discriminazione razziale nelle colonie il 28 marzo del 1792e il 4 febbraio del 1794. Fu il primo Stato al mondo ad abolire completamente la tratta degli schiavi, grazie all’opera grandiosa di Toussant Louverture; ma Bonaparte non tardò a ristabilirla nel 1802.
    Allora, oltre al contenuto dell’intervista rilasciata da Mbembe a Le Monde si pone anche la questione se sia corretto che un intellettuale critico del potere accetti proposte da un potere che palesemente vuole riverniciare se non addirittura rendere onore al suo passato e soprattutto nega totalmente la sua continuità nel presente. Non riprendiamo qua la lunghissima serie di orrori che la Francia ha commesso dopo la fine ufficiale del colonialismo sia nei rapporti coi paesi suoi ex-colonie, sia nelle operazioni finanziarie e militari in Centrafrica durante i governi delle destre e durante i due settennati di Mitterrand, quello di Hollande e ora quello di Macron.
    La questione più importante è: quali potrebbero essere i giusti risarcimenti e perdoni che gli Stati coloniali dovrebbero assumersi nei confronti delle popolazioni vittime della loro colonizzazione e nei confronti degli Stati dei paesi ex coloniali? Si tratta quindi di due questioni distinte perché è fuorviante equiparare la popolazione e le vittime e gli Stati. E’ risaputo che questi ultimi possono cavarsela negoziando risarcimenti monetari e accordi commerciali.

    La domanda fondamentale che Mbembe purtroppo non pone (disgraziatamente dimentica di porre?) è che il colonialismo non è affatto finito! Siamo in pieno nel contesto di un neocolonialismo imposto dalla gigantesca asimmetria tra i dominanti (i paesi più ricchi, ma anche i gruppi finanziari e le multinazionali) e i dominati. Questo neocolonialismo è praticato non solo dai paesi ex coloniali e dai loro gruppi dominanti su scala planetaria, ma anche dai paesi che non erano coloniali (ad esempio Cina, Israele, Arabia Saudita ecc.). La ripartizione della ricchezza mondiale mostra che i paesi dominati soprattutto in Africa, in America Latina e Centro America e in Asia sono di fatto ancora più impoveriti, oltre a essere colpiti dall’alta mortalità per fame e assenza di cure elementari e dalle guerre “locali” istigate dai paesi dominanti. Si pensi anche alla diffusione del land e water grabbing. Le delocalizzazioni diffuse in tutti i paesi terzi sono notoriamente realtà di neo-schiavitù e spesso di disastri (ricordiamo fra altri quelli emblematici di Bhopal nel 1984 e quello del Rana Plaza a Dacca nel 2013).

    Allora che senso ha parlare solo di riparazione e memoria? Il «debito della vita, della verità e della memoria» – e questo Mbembe lo sa benissimo – questo triplo debito si riproduce ogni giorno a causa del neocolonialismo!

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