Afriche: veleni e vel-Eni

Senegal-Mali-oro: l’inchiesta di Sidy Ahamadoubah e Lucia Michelini. Nigeria: un articolo di Matteo Giusti. A seguire: come canta bene (a Sanremo) il cane a 6 zampe

Oro e miseria nell’Africa occidentale

Reportage. Come i grandi colossi estrattivi stranieri saccheggiano, legalmente e in maniera sporca, il sottosuolo tra il Mali e il Senegal. Terre particolarmente ricche del metallo più prezioso e ricercato del mondo

di Sidy Ahamadoubah, Lucia Michelini (*)

Tra il Senegal e il Mali il sottosuolo è estremamente ricco in minerali, fra questi l’oro, che per i due paesi dell’Africa occidentale rappresenta un pilastro delle esportazioni. Ad occuparsi dell’estrazione ci pensano grandi colossi estrattivi, spesso stranieri. Società britanniche, canadesi, sudafricane e australiane

MA NON E’ TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA perché l’attività estrattiva su grande scala provoca profondi impatti sociali e ambientali. La grande quantità di materiale smosso durante le operazioni di scavo causa un notevole inquinamento acustico e atmosferico. In questi siti, inoltre, la richiesta d’acqua per i processi estrattivi è enorme. Un ulteriore problema è la contaminazione della falda freatica e dei corsi d’acqua con cianuro e metalli pesanti usati per separare l’oro dalle pietre, sono infiltrazioni che possono continuare anche molto tempo dopo la chiusura delle miniere.

RECENTEMENTE NELLA REGIONE MALIANA di Kayes si è tenuta una marcia organizzata dal consiglio locale della società civile del circolo di Kéniéba per denunciare la presenza di prodotti chimici derivanti dalla ricerca dell’oro nel fiume Falémé (praticata dai cinesi e dai loro alleati locali). La situazione non è diversa nel «paese dell’accoglienza», così è soprannominato il Senegal nella lingua locale wolof. Anche qui il metallo giallo fa gola a diverse compagnie ben «accolte» dall’estero, come la multinazionale canadese Endeavour Mining che possiede il 90% della miniera di Sabodala-Massawa, la più grande del Senegal.

UNA FONTE, CHE PREFERISCE RESTARE anonima, lavora come responsabile della gestione del rischio ambientale per una cava gestita da una grande società estera. Il sito si trova a Kédougou, regione di grande importanza paesaggistica per la presenza del fiume Gambia e del parco nazionale di Niokolo-Koba, patrimonio Unesco. «Noi ci occupiamo dell’estrazione, dopo di che l’oro è trasportato in Svizzera per la raffinazione». L’uomo spiega che la miniera è in funzione 24 ore su 24 e che all’interno la sicurezza è garantita sia da guardie paramilitari che dalla gendarmeria nazionale. Dal suo racconto sembra che dal punto di vista ambientale tutto vada per il meglio. «Lavorare nella nostra miniera è sicuro», dice l’uomo. «I reflui liquidi sono trattati in conformità alle norme ISO 14000 e anche il trasporto dei prodotti chimici avviene in totale sicurezza. Il cianuro, ad esempio, lo acquistiamo dall’Europa e arriva da noi in appositi container scortati da agenti statali».

UN VIDEO SU YOUTUBE REALIZZATO dalla compagnia mineraria decanta i vantaggi per la popolazione, sostenendo che per attenuare l’impatto causato della miniera sono stati realizzati orti comunitari e piantati alberi da frutta. In soldoni, il vostro oro in cambio di cavoli e patate. In queste terre, il tasso di disoccupazione continua ad essere preoccupante, anche se molti sperano di poter beneficiare di una piccola parte della ricchezza locale l’oro per il momento rimane in mano a poche multinazionali. Ne consegue che I giovani preferiscono tentare la strada verso l’Europa o entrare nel pericoloso circuito dell’estrazione illegale.

PER IL MALI, UNO DEI PIU’ IMPORTANTI paesi africani in quanto a produzione d’oro, questo minerale rappresenta il primo bene d’esportazione. Da un lato le miniere industriali, gestite da grandi società straniere, garantiscono una produzione annua pari a circa 65 tonnellate, e dall’altro quelle tradizionali, che possono annoverarne circa 26. Ma la ricerca «informale» o tradizionale dell’oro è un fenomeno in crescita nell’Africa sub-sahariana, e così molte attività vengono trascurate in favore di quelle estrattive, molto più redditizie.

PERCORRENDO LA STRADA che da Bamako porta in Guinea Conakry si trovano vari terreni dove la ricerca avviene ancora artigianalmente: siti abbandonati che non potranno più essere coltivati perché degradati e inquinati e altri in piena attività. Anche se di carattere artigianale, le miniere del Mali si basano su una struttura organizzativa molto articolata. Ai vertici ci sono i proprietari dei pozzi, i capi villaggio e le guide spirituali, consultate per capire quali sacrifici fare prima di cominciare gli scavi. Il lavoro di perforazione spetta agli operai, specialmente maliani e senegalesi, anche se è facile trovare immigrati provenienti dalla Guinea, dalla Sierra Leone o dal Burkina Faso. Per la Camera delle Miniere del Mali l’estrazione dell’oro farebbe vivere più di un milione di persone, ovvero 8o mila famiglie, distribuite in circa 350 siti auriferi.

NEI POZZI I PROPRIETARI VENGONO chiamati patron. Guardie armate proteggono l’area dagli attacchi dei banditi, molto frequenti appena si sparge la voce che è stato trovato un buon filone. Sono i tomboulmas, milizie composte da giovani del posto. Su ogni baracca, pozzo, lavoratore, prostitute comprese, le guardie «riscuotono» una tassa. Ad esempio, a loro spetta l’imposta sulla triste pratica denominata il «piccolo matrimonio», che consiste nell’affittare una donna, con tanto di contratto mensile, a uomini che possono sfruttarla per ogni genere di servizio, dalla cucina alla camera da letto. Per colpa del «piccolo matrimonio» molte ragazze stanno abbandonando la scuola in prossimità dei siti minerari.

PRIMA DEGLI SCAVI AVVIENE LA RICERCA della pista. I tracciatori sondano il terreno in attesa dell’allarme sonoro lanciato dai dispositivi. Al segnale, iniziano le perforazioni, fase chiamata datiguè, il «primo colpo di piccone». Tra gli operai, c’è chi scende nei pozzi (anche fino 60 metri), e chi resta in superficie per tirare su con la corda i compagni in caso di pericolo. Come in un classico western, gli uomini nei cunicoli portano un fiammifero e se questo non si accende avvisano il tiratore di riportarli in superficie. Idem se un pozzo crolla, i tiratori danno l’allarme e le guardie sparano un colpo di pistola in aria per allertare tutti.

NEL PERIODO DELLE PIOGGE molte miniere vengono chiuse perché le gallerie possono cedere sotto il peso dell’acqua, ma spesso i lavori continuano di nascosto e ogni anno si contano i morti. Un proverbio locale recita «l’oro è degli spiriti e gli spiriti hanno bisogno di sacrifici umani, quindi vanno addolciti». Ed è proprio per la certezza di trovare un’abbondante quantità d’oro grazie al sacrificio che in genere le perforazioni ripartono molto più alacremente proprio nei dintorni della zona sinistrata. In questi siti i compiti sono ben ripartiti. C’è chi scava, chi porta l’acqua, chi gestisce le finanze per l’acquisto di materiali e carburante. All’interno delle gallerie ci sono botteghe e ristoranti improvvisati. A Kangaba e a Kéniéba si dice che le persone dentro le miniere siano più numerose di quelle fuori, bambini compresi, come i neonati che accompagnano le madri al lavoro.

OLTRE CHE DALLA TERRA, L’ESTRAZIONE avviene anche dall’acqua. Nonostante il nuovo codice minerario che vieta il dragaggio dei corsi d’acqua per le operazioni di estrazioni, se si naviga il fiume Niger ci si rende conto che il regolamento stenta ad essere rispettato. Ad una cinquantina di chilometri dalla capitale, approfittano della stagione secca quando il livello dell’acqua è ancora basso. I cercatori caricano piccole piroghe di legno con la sabbia raccolta dal fondale, per poi trattarla con prodotti chimici nocivi. Spesso ad occuparsi di questa operazione sono le donne, con i loro bebè legati alla schiena. Parte delle acque di lavaggio ritorna poi nel fiume, dove la gente preparare da mangiare, si pulisce e beve.

IL MERCURIO IN MALI E’ USATO in più dell’80% dei siti artigianali. Dieci grammi di piccole sfere metalliche sono vendute a 1.500-2.000 fcfa, ovvero 2-3 euro. La quantità di mercurio utilizzata in un anno a livello nazionale è pari a 33 tonnellate. Considerando che questo metallo pesante è importato in modo illegale, probabilmente dal vicino Burkina Faso, il suo commercio rappresenta un’altra sporca fonte di reddito. Dopo l’estrazione avviene la spartizione, ma non in parti uguali: la parte più grossa del raccolto spetta ai capi villaggio, ai proprietari dei pozzi auriferi, alle guardie e alle autorità amministrative. Quanto rimane è per i minatori che si appoggiano ai grossisti in loco. L’acquirente iniziale, infatti, vive generalmente nel villaggio minerario ed è spesso il rappresentante locale di un commerciante più grande.

L’ORO VIENE SUCCESSIVAMENTE PORTATO a Bamako dove è venduto alle raffinerie oppure esportato all’estero. Emirati Arabi, India, ma anche Europa, Svizzera. Secondo uno studio dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ogni anno almeno 20 tonnellate d’oro estratto artigianalmente lascerebbero l’aeroporto internazionale di Bamako per vie illegali.

(*) ripreso da «Extraterrestre» supplemento del quotidiano «il manifesto» del 9 febbraio.

Corteo di protesta del Forum leader giovanili delle comunità Omuku © Ocylf

Delta inquinato, le comunità Omuku insistono: «Eni rispetti gli accordi»

Petrolio nigeriano. Dopo la dichiarazione di guerra del gruppo armato Bayan-Men all’azienda italiana l’organizzazione giovanile Ocylf condanna «ogni tipo di violenza» e invita al dialogo. Ma bisogna agire subito, «perché la situazione potrebbe peggiorare e colpire pesantemente la produzione petrolifera della regione». La replica: ««la maggior parte degli sversamenti di idrocarburi è dovuta a furti che alimentano raffinerie clandestine»

di Matteo Giusti (*)

In Nigeria, gigante africano e colossale produttore di petrolio, gli attacchi a oleodotti e gasdotti sono sempre più frequenti. Nella ricchissima regione del Delta tutti i grandi produttori mondiali hanno concessioni e infrastrutture che pompano l’oro nero nigeriano. Solo tre settimane fa l’impianto della francese Total è stato oggetto di un sabotaggio mettendo in crisi la fornitura di energia nella capitale Abuja. E a fine novembre quattro uomini, due operai, un autista e un addetto alla sicurezza che stavano lavorando a un oleodotto di proprietà dell’italiana Eni erano stati uccisi da uomini armati appartenenti al gruppo Bayan-Men, che ha subito rivendicato l’attacco.

UN ATTORE NUOVO nello scenario dello stato di Rivers, nell’estremo sud nigeriano. Il portavoce di Bayan-Men, il sedicente generale Agaba, lancia precise accuse all’azienda italiana, che non tratterebbe con le comunità locali, specificatamente con le comunità del clan Omoku. Nelle stesso comunicato i Bayan-Men si definiscono degli intellettuali costretti a sceglier la via della lotta.

Sui rapporti del gigante petrolifero italiano e le comunità locali ha preso posizione anche Ekeuku Pureheart, coordinatore del Forum dei leader giovanili delle comunità Omuku (Ocylf). «La situazione nel Delta è molto complicata perché ci sono tanti equilibri. Gli attacchi alle compagnie sono molto frequenti e vengono fatti da gruppi diversi. Noi condanniamo ogni tipo di violenza, ma Eni deve parlare con le comunità e deve applicare gli accordi sottoscritti con il governo federale. Le 27 comunità del clan Omoku che vivono nella zona si sentono molto trascurate e cresce il malcontento fra di loro. Serve dialogo, servono investimenti e soprattutto serve buona volontà da entrambe le parti. I Bayan-Men sono militanti e attivisti, una specie di crociati per la nostra comunità. Serve subito un accordo perché la situazione potrebbe peggiorare e colpire pesantemente la produzione petrolifera della regione».

UN PORTAVOCE DELL’ENI nega che la società italiana ignori le comunità locali. «Eni ha contribuito costantemente allo sviluppo del territorio, attraverso la fornitura di energia elettrica, acqua, lo sviluppo di infrastrutture come strade, scuole e strutture sanitarie. Nello specifico la comunità Omoku ha beneficiato negli anni di numerose iniziative nei settori dell’accesso all’energia e dello sviluppo. Nei mesi scorsi le operazioni sono state minacciate da un piccolo gruppo terroristico locale autodefinitosi Bayan-Men, a noi sconosciuto, che ha rivendicato due attentati esplosivi. Il gruppo ci ha mosso accuse al fine di ottenere un riconoscimento».

Anche la questione ambientale è un argomento chiave perché le comunità che vivono nel Delta accusano le compagnie petrolifere di aver danneggiato il territorio. Eni respinge anche questa accusa.

«L’INQUINAMENTO ambientale – prosegue il portavoce – è riconducibile alle attività illegali di raffinazione e distribuzione di petrolio che avvengono in impianti rudimentali in aree remote. Vengono illegalmente prelevati decine di migliaia di barili di petrolio al giorno che arricchiscono cartelli criminali senza ricadute positive per le comunità. In Nigeria, negli ultimi 10 anni, la maggior parte degli sversamenti di idrocarburi è dovuta alle cosiddette “interferenze di terze parti”, ossia furti per alimentare reti di raffinerie clandestine o sabotaggi. Eni provvede in ogni caso alla bonifica dei terreni».
Il giornalista nigeriano Tife Owolabi che da anni lavora nel Delta ha le idee chiare sul comportamento ambientale dei colossi. «Generalmente tutte le compagnie petrolifere nei confronti dell’inquinamento tendono sempre ad incolpare qualcun altro per evitare di pagare i danni provocati.
L’inquinamento si presenta sotto molte forme diverse e la giustizia nigeriana tende a colpire chi inquina, ma non cerca mai le cause di quello che è successo. L’Eni non si differenzia dalle altre majors e per quanto riguarda le comunità Omoku nutrono un sospetto reciproco».

SECONDO ANTONIO TRICARICO di Re:Common, che conosce molto bene la realtà nigeriana e quella delle grandi aziende petrolifere, «Eni è in Nigeria da 50 anni e ha accompagnato la storia del Paese. La maggior parte dei cosiddetti sversamenti non sono dovuti a sabotaggi da parte delle comunità locali o da tentativi di furto, ma soprattutto da una cattiva manutenzione degli impianti. C’è grande incuria delle opere infrastrutturali e l’inquinamento del territorio da parte dei giganti petroliferi è confermato anche dal rapporto Unep delle Nazioni Unite».

«Il Delta del Niger – prosegue Tricarico – era un paradiso e oggi è una delle aree più inquinate del mondo. Eni ora vorrebbe lasciare l’area e spostarsi off-shore, subappaltando a compagnie minori perché la Nigeria ha già raggiunto il suo picco di produttività. Spesso le compagnie preferiscono limitarsi a risarcire senza una bonifica del territorio e intere foreste di mangrovie sono andate distrutte riducendo in povertà le comunità che vivevano di pesca. Nello stato di Bayelsa ci sono state fortissime proteste contro Eni che gestisce il grande terminal di Brass a causa dell’inquinamento sistemico del territorio. Ci tengo a ribadirlo: per Eni la stragrande maggioranza degli sversamenti derivano da furti e sabotaggi, ma la realtà è che le loro infrastrutture sono logore e lasciate nella più completa incuria».

(*) pubblicato sul quotidiano “il manifesto” del 4 febbraio

Il teatro Ariston è un luogo perfetto per lo show più in voga del momento: il greenwashing. Nella cittadina ligure di Sanremo il cane a sei zampe promuove Plenitude, la nuova società che integra rinnovabili, vendita al dettaglio e mobilità elettrica e che sarà quotata in Borsa tra un mese. Il tappeto rosso del festival è diventato verde. Una scelta contestata dal mondo ambientalista. La Rai ha scelto di non svelare l’entità della sponsorizzazione

Lo spiega ANDREA TURCO; cfr https://comune-info.net/il-tappeto-rosso-del-greenwashing

 

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