Africa e noi: agroecologia e sovranità alimentare
leve politiche per la decolonizzazione e la sopravvivenza di tutti – ne parlano Marinella Correggia e Blandine Sankara
«Produciamo ciò di cui abbiamo bisogno, consumiamo quello che produciamo (…)», esortava il presidente burkinabè Thomas Sankara rivolto agli altri capi di Stato africani nel suo discorso ad Addis Abeba, centrato sull’annullamento del debito estero e sul disarmo. In Burkina Faso, ex Alto Volta, «un concentrato di tutte le disgrazie del mondo» per usare le parole del presidente, la rivoluzione avviata nel 1983 aveva scelto lo sviluppo endogeno che metteva al centro i contadini e le donne, l’economia popolare per fornire cibo, acqua, salute, istruzione e casa a tutti, la lotta alla desertificazione a partire dai villaggi, l’indipendenza culturale, la guerra ai privilegi. E a livello internazionale l’impegno per la giustizia Nord-Sud, la pace, il panafricanismo, il non allineamento. «Osare inventare il futuro». Troppo bello eppure vero.
E troppo scomodo per vivere. Così il 15 ottobre 1987, un colpo di Stato metteva fine a quattro anni di rivoluzione uccidendone l’artefice. Sankara, pioniere di campagne e principi adesso al centro dell’attenzione, vive nell’impegno dei movimenti popolari. Ma 35 anni dopo, è ancora coltivabile la speranza? Il contesto per certi versi è peggiorato in Africa a causa del terrorismo jihadista (frutto velenoso delle bombe della Nato in Libia) e degli eventi estremi figli della crisi climatica, oltre alle varie altre emergenze che impediscono, intanto, quell’accesso al «cibo sano per sistemi alimentari sostenibili» di cui tutti parlano?
Blandine Sankara risponde di sì, con qualche speranza. «J’ose croire que oui». La sorella minore dell’ex presidente è in Italia in questi giorni invitata dalla Ong Cric, per incontri a Roma e, in Calabria, con i lavoratori braccianti provenienti dall’Africa; la città di Caulonia ha conferito in sua presenza la cittadinanza onoraria alla memoria di Thomas Sankara. L’attivista ha creato dieci anni fa in Burkina l’associazione Yelemani (yelemani.org), «cambiamento» in lingua dioula. Cura una fattoria sperimentale in agroecologia su terreni recuperati e risanati a Lumbila – 25 chilometri da Ouagadougou –, e tante attività di sensibilizzazione e formazione rivolte a scuole e consumatori. E poi l’azione rispetto alle istituzioni: «L’agroecologia e la sovranità alimentare non sono solo tecniche ma forme politiche di resistenza e strumenti per la decolonizzazione».
Già: perché lo sfruttamento coloniale non è il passato, è anche il presente, e si somma agli effetti di un disastro climatico di cui altri sono responsabili – una sorta di debito ecologico occidentale: «Le materie prime ci vengono tuttora saccheggiate; il franco Cfa, moneta coloniale imposta ai paesi francofoni e gestita dalla Francia, è un ostacolo agli scambi regionali; gli stessi aiuti allo sviluppo sono perlopiù miliardi che tornano a nord in un circolo vizioso. Ma mi sembra che adesso l’Africa cerchi di trovare un nuovo spazio nel mondo, certo fra enormi difficoltà.»
Cambiamenti politici in un clima panafricano sono in vista? Da pochi giorni il Burkina ha un nuovo leader, che il 15 ottobre si è recato a deporre una corona davanti alla statua del rivoluzionario Sankara. E’ il giovane capitaine Ibrahim Traoré e ha sostituito a furor di popolo l’ex presidente a interim colonnello Paul Henri Damiba che a gennaio 2022 aveva a sua volta rovesciato l’ex presidente Kaboré. Spiega Blandine: «Damiba aveva promesso alla popolazione un’azione forte contro il terrorismo, che da anni oltre a fare tanti lutti fra i civili e i soldati, occupa interi territori e accentua l’insicurezza alimentare, sociale, sanitaria, educativa. Non ha mantenuto le promesse; gli attacchi jihadisti hanno fatto due milioni di sfollati in Burkina… E la Francia, pur avendo una base militare e mezzi tecnologici, non riesce a tenere a bada incursioni visibilissime. Così la popolazione, stremata, è scesa in strada in massa per appoggiare il cambiamento. Adesso la parola è stata liberata, e tutti, nelle campagne e nelle città, sono vigili e partecipanti. Penso e spero che ci sarà spazio per un vero cambiamento. Del resto anche in altri paesi della sub-regione la mobilitazione si espande a macchia d’olio.»
Con l’agroecologia, il focus di Blandine Sankara sono i contadini, i paysans che il presidente Thomas aveva trasformato in una forza politica creando l’Unione nazionale dei contadini del Burkina. «Svolgono l’attività più importante, eppure il termine è quasi un insulto. Per questo occorre sensibilizzare i consumatori urbani, partire da quelli che hanno un certo potere d’acquisto». Anche in Burkina, l’agroecologia come principio guida non si esercita solo nei campi, liberando le sementi, ricorrendo a input naturali locali, ripristinando tecniche colturali sagge e rispettose, ma si prolunga nella filiera corta, nei mercati contadini… Blandine ricorda un episodio risalente all’epoca del presidente Sankara: «Per punire la rivoluzione, a un certo punto la Francia rifiutò di comprare i fagiolini da export la cui coltura era stata imposta al paese. Allora il governo inventò una specie di gruppo d’acquisto solidale: ogni funzionario pubblico dovette comprare un po’ dell’invenduto, per aiutare i produttori le campagne.»
Ma il cambiamento individuale, di produttori e consumatori, non basta. Bisogna esercitare una pressione politica. E può funzionare. Dopo la sollevazione popolare che nel 2014 cacciò il presidente a vita Blaise Compaoré, ecco nel 2015 la lotta contro Monsanto: «Il suo cotone Ogm era sbarcato in Burkina con tante promesse. Ma dopo pochi anni, i raccolti erano diventati scarsi e la fibra era di pessima qualità, perdeva colpi sul mercato mondiale. Così, con l’aiuto di militanti da vari paesi della regione, fu organizzata una marcia a Ouaga, con una forte partecipazione, favorita anche dal palese insuccesso… E il governo dell’epoca divorziò dalla multinazionale chiedendo perfino i danni». Il ritorno alle sementi tradizionali è stato un piccolo, grande trionfo.
Il fatto è che gli stessi africani, dice l’attivista, sono stati «formattati a pensare che “no, quel che è locale non va bene”; anche perché i nostri prodotti non sono mai ritenuti conformi agli standard mondiali. Ma ricordo quando, nelle valli in Svizzera, con fierezza gli abitanti mi dicevano: “Questo cibo è proprio di qua, fatto da noi, di qualità”. Due anni fa veniamo a sapere che al Fespaco, il festival del cinema africano, un orgoglio per i burkinabè, negli stand non sono ammesse le bevande locali, bissap, tamarindo e tante altre a base di frutti. Già: tutto viene curato da un noto gruppo francese. Uno scandalo: grazie al tam tam anche sui social è la rivolta, ci organizziamo per una protesta ma ben presto arriva il via libera. “Il bissap e i suoi cugini sono ammessi al Fespaco”, titolano i giornali». Una piccola vittoria contro un atteggiamento neo-coloniale perdurante.
L’aumento dei prezzi agricoli mondiali può essere paradossalmente una… leva di Damocle (di necessità virtù) per la sovranità alimentare? «Già nel 2008 e nel 2011 con la svalutazione del franco Cfa si era capito di dover puntare il pi possibile su prodotti e merci locali. Vale anche adesso. Non c’è altra via che tornare alle nostre potenzialità, svilupparle, proteggerle. Avevamo dimenticato competenze, perfino piante utili, altre erano sparite con la deforestazione. Cambiare strada non è un’opzione. E’ una necessità. Certo non solo in Africa».
pubblicato anche su “L’extraterrestre” (inserto del quodiano “il manifesto”)