Alberto Di Monte: «Sentieri migranti. Tracce che…

… calpestano il confine». La recensione/provocazione di Giuliano Spagnul. A seguire una nota di db

In un romanzo di Philip K. Dick Scorrete lacrime, disse il poliziotto si racconta di un famoso conduttore televisivo che improvvisamente viene cancellato dalla memoria dell’intero pianeta: nessuno si ricorda di lui e nessun supporto informatico conserva il suo nome. Per una sorta di deformazione professionale, nel bel mezzo di questa tragica esperienza, il protagonista non può far a meno di immaginare il servizio che potrebbe ricavare da ciò che gli sta succedendo: «Poteva quasi sentire la sua voce fuori campo che introduceva il servizio: – Cosa può succedere a un uomo, un brav’uomo, senza precedenti penali, un uomo che un giorno, all’improvviso, perde tutti i suoi documenti e si trova a fronteggiare… – Eccetera. Li avrebbe incollati allo schermo, tutti e trenta i milioni di spettatori. Perché era quello che ognuno di loro temeva. – Un uomo invisibile – avrebbe proseguito, – eppure un uomo persino troppo appariscente. Invisibile nella legalità, appariscente nell’illegalità».

Invisibile, tanto quanto troppo visibile, questa labile dimensione dell’umano può essere ritirata in qualunque momento e con i più svariati pretesti a qualunque dei componenti di quella particolare specie animale autodefinitasi homo sapiens. Il recentissimo romanzo di fantascienza «Sentieri migranti. Tracce che calpestano il confine» di Alberto Di Monte (Mursia 2021, pag. 128, 15 euro) immagina un mondo distopico in cui questa paradossale invisibilità, fin troppo visibile, coinvolge contemporaneamente milioni di individui costringendoli ad attraversare i confini di più territori e nazioni alla ricerca disperata di una nuova patria capace di accoglierli dando loro una identità certa, garante di diritti e libertà. Il difetto di questo libro, va subito detto, è di aver calcato la mano con un immaginario a tinte fosche e, talora, macabre con descrizioni di inaudita violenza e di ostentata stupidità che mal si addicono a una fiction ambientata nel nostro tempo, nella nostra democratica e civilizzata Europa. Non che il nostro continente non abbia visto nel suo ancor abbastanza recente passato una delle più terribili pagine dell’intera storia umana, ma – proprio per questo – alla luce dell’insegnamento di quanto avvenuto ci è impossibile pensare un degrado e una barbarie simile a quella qui raccontata. Ma se proprio vogliamo fare uno sforzo di immaginazione, per quanto difficile, e riusciamo ad entrare nella nera visione dell’autore non possiamo non rimanerne invischiati e la trama di questa allucinante realtà altra è, forse, il modo più incisivo per allertarci contro gli eventuali, per quanto poco probabili, rischi di trovarci in simili situazioni in un futuro prossimo o lontano che sia.

Sentieri migranti si presenta come una vera e propria guida che individua cinque vie diverse ai confini alpini della nostra penisola, percorse da un flusso incessante di migranti provenienti dai vari Sud del mondo (dove per Sud si deve intendere i Paesi poveri o quelli in cui vi sono guerre e persecuzioni, di qualunque latitudine) che cercano di arrivare al ricco Nord, soprattutto Germania, Gran Bretagna e Paesi scandinavi. Se questi umani, non meglio identificati, sono i protagonisti di questa storia, il luogo in cui essa si svolge si situa attorno a un segno: il tracciato di un confine (immaginario quanto concreto nella sua efficacia) disegnato sul terreno. Come in un vecchio film di Anghelopulos Il passo sospeso della cicogna in cui un bravo Mastroianni stava in bilico sulla linea di separazione (tanto inventata quanto efficace e duratura come avverte nella premessa del libro Anna Casaglia) fra due presunte legittimità territoriali e identitarie, i migranti puntano la propria vita in un grande gioco fatto di piccoli avanzamenti, momentanei arretramenti, catastrofici ritorni al punto zero di partenza. Un gioco definito, senza mezzi termini, come “viaggio della morte”. Perché sì, in questi andirivieni, inseguiti da esseri umani in uniforme e da esseri tecnologici sempre più sofisticati, gli esseri migranti soffrono, si feriscono, si separano dai loro cari, muoiono. Per mettere in scena questa rappresentazione i giocatori, quelli veri – che non soffrono, non si feriscono e non muoiono – spendono cifre enormi, come immagina con puntigliosa acribia il nostro immaginifico autore.

La fantasia si scatena inventando incredibili meccanismi tanto crudeli quanto sostanzialmente inefficaci (ma qui sta l’astuzia del gioco perpetuo che così può non finire mai) e costosi: personale di controllo e repressione, centri di detenzione, voli (costosissimi) per i rimpatri, un grande lavorio di rapporti internazionali per convincere nazioni a riprendersi i loro concittadini evasi illegalmente e, al contempo, un lavorio per mantenere comunque un buon rapporto, indispensabile per l’acquisizione di materie prime che solo loro posseggono. E ancora i miliardi per spingere gli altri (Di Monte immagina la Turchia, ma anche la Libia) a fare il lavoro sporco di trattenere esseri, che chimicamente si aggregano in flussi, entro i loro confini in condizioni disumane. Si potrebbe continuare ma già solo questa veloce sintesi può bastare a dare l’idea di come è strutturata questa specie di macchina celibe, inutile quanto dispendiosa, che però evidentemente dispensa gioia per chi sa usarla a proprio vantaggio e sollievo per chi non si trova coinvolto nei suoi ingranaggi (almeno per questo giro).

Ma forse il pezzo migliore del libro è la parte più avventurosa che si svolge in quei sentieri definiti «per rispetto a quanti sono in viaggio (…) tragitti ‘bruciati’, ma non per questo meno brulicanti di vita». In questi cinque percorsi che partono dal sentiero della speranza (eco del film Il cammino della speranza dei cafoni italiani raccontato da Pietro Germi negli anni Cinquanta) di Ventimiglia, da Bardonecchia, da S. Fermo, dal Brennero, dal Carso. Qui la fantasia si riempie di ingegnosità tecnologiche con il drone militare a infrarossi ADS-95 Ranger che sorvola «invisibile la dorsale verde che dal Monte Bisbino porta al Parco regionale Spina Verde e di lì in direzione Val Cuvia» oppure «vola alto, silenzioso e indifferente, a far la spola notturna tra Chiasso e Lugano». Come invenzioni, fantastiche quanto improbabili, sono le «barriere mobili di quasi quattrocento metri di lunghezza» che «può essere messa in opera in soli due giorni, e reggere l’onda d’urto di migliaia di uomini in fuga… se sostenuta dall’intervento dell’esercito». Una bella fantasia, non c’è che dire, soprattutto con la trovata di un riuso (un po’ di riciclo ecologico non guasta) di un «ex bunker militare di Camorino (allestito durante la guerra fredda e riattivato nel 2014)» che «rappresenta con macabra ironia la via svizzera al trattamento dei migranti non regolari e l’ineccepibilità, invisibilità di una cura che è letteralmente sotterranea». Cura, appunto, dell’«irrecuperabile foresto».

Forse, come dicevamo, l’autore si è fatto prendere un po’ troppo la mano. Un po’ meno morti per cadute o folgorazioni, meno arti amputati per congelamento e meno avveniristiche torture e crudeltà e avrebbe potuto costruire uno scenario narrativo, sì distopico, ma comunque più credibile e meno lontano dalle, anche più funeste, previsioni di un possibile imbarbarimento della nostra vecchia cara Europa. Perché, dobbiamo ben dirlo e ad alta voce, non accetteremmo mai che cose simili possano accadere proprio qui da noi, né ora né mai!

UNA NOTA (di db)

Se siete arrivate/i a leggere fin qui avrete capito la provocazione di Giuliano Spagnul: fingere che nella democratica Europa non accadano (“non possano accadere”) quegli orrori che invece vediamo – se lo vogliamo – ogni giorno sui confini. Le frontiere europee sempre aperte a merci e mercenari ma chiuse a esseri umani in fuga dalle catastrofi che quasi sempre sono provocate proprio da quelle merci e da quei mercenari. Alberto Di Monte ha scritto un libro prezioso – ne riparleremo in “bottega” – che racconta storie non gradite ai nostri tutori/governanti e dunque il suo raccontare deve restare nascosto; o visibile solo in quei giardini zoologici dove alcuni panda “non conformi” sopravvivono. Per una curiosa coincidenza proprio mentre riflettevo sulla provocazione di Spagnul mi è capitato … il suo opposto: nella sua rubrica «storie e notizie» Alessandro Ghebreigziabiher ha viaggiato nel tempo per raccontare la Giornata mondiale contro il razzismo dal futuro … In apparenza Alberto Di Monte e Alessandro Ghebreigziabiher raccontano due mondi (e tempi) opposti, in realtà entrambi ci chiamano a smontare i “simulacri” del potere così che noi possiamo fare i conti con le narrazioni reali: e lì rifiutarci di giocare e guardare scegliendo di modificare i presenti e dunque i futuri. O se preferite dirla in altro modo: noi panda non conformi ci stiamo organizzando. Per i Palazzi la partita non è vinta.

 

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