Alessandro Ghebreigziabiher: «Formigoni e Watson»

Ho letto su http://alessandroghebreigziabiher.blogspot questa bella storia e ho chiesto all’autore (in coda lui stesso si presenta) se potevo ospitarla qui. Mi ha detto di sì e lo ringrazio.  Per corretezza intelletuale devo precisare che Obi-Wan Kenobi è mio cugino. Buona lettura e che la Forza sia con voi.

La Corte d’Appello di Milano ha deciso di non ammettere alle elezioni regionali la sua Lista per la Lombardia, invalidando più di 500 firme.

Secondo i magistrati, in seguito al ricorso dei Radicali, ben 514 firme sulle 3.953 presentate non sono regolari. Ne rimangono 3.421, una cifra inferiore al minimo previsto dalla legge, ovvero 3.500.

E Formigoni non ci sta.

Questa mattina si è svegliato molto presto.

Anzi, diciamo che non ha dormito affatto.

L’unico momento in cui ha preso sonno ha fatto un incubo in cui Brunetta in tanga e reggicalze tentava di sedurlo e ho detto tutto.

Tuttavia, ha deciso di non rimanere con le mani in mano e reagire con autorevolezza.

Oltretutto i vertici della Lista che porta il suo nome hanno finalmente l’elenco delle firme incriminate e Formigoni vuole vederci chiaro.

Nella sala riunioni del comitato elettorale i suoi più fidati collaboratori lo attendono in silenzio.

Uno di essi ha in mano un ciclostilato.

E’ indubbiamente l’elenco delle firme rigettate.

Formigoni entrando lo scorge immediatamente e senza sedersi lo prende dalla mano del tipo e inizia a leggere, scegliendone una a caso:

“Obi-Wan Kenobi… non vi avevo detto che non volevo extracomunitari?! Questo sicuramente non avrà la cittadinanza…”

“No, presidente…” tenta di intervenire il tizio di prima, evidentemente sorteggiato come portavoce. “Non è proprio così…”

“Silenzio!” lo zittisce Formigoni con veemenza. Ha deciso di reagire con forza e la prima regola è sferzare i propri, come gli ha insegnato Berlusconi. “E poi dicono che siamo noi i razzisti… Ad ogni modo, eccone un altro: Paolo VI… No! Non ditemi che…”

“Sì, presidente…” fa il malcapitato che ha il peso di rappresentare l’assemblea.

“Imbecilli! Non ditemi che avete scritto il cognome Sesto in numeri romani…?!”

“No, quello è proprio il Pa…”

“Silenzio, ho detto! Razza di analfabeti! Ma adesso via aggiusto io… vediamone un altro ancora: Dottor Watson?!”

“Ecco, infatti…” cerca di intervenire il prescelto come capro espiatorio.

“Dico io, ma come si fa? Come si fa a dimenticarsi il nome di battesimo?! Di un medico, poi, un medico che ci ha dato il suo appoggio! Non lo sapete quanto conta la sanità nella nostra regione?”

L’altro, ovviamente l’unico dei collaboratori che è rimasto in piedi, si ammutolisce e assume un’espressione rassegnata.

“Guardate”, fa Formigoni cercando di mantenere la calma, “giusto per togliermi lo sfizio ne voglio leggere un altro: Tu-sai-chi… e cosa vuol dire?”

“Ecco”, fa il collaboratore preposto a rispondere, “sarebbe il modo con il quale viene chiamato Lord Voldemort, che poi è Tom Riddle…”

“Questo è troppo!” grida Formigoni, al colmo dell’ira. “Quante volte ve l’ho detto, eh?”

Nessuno osa proferire parola.

“Quante volte vi ho detto che i soprannomi non valgono? E scrivete Tom Riddle, no?”

Il leader se ne va sbattendo la porta, ciò nonostante l’assemblea emette un collettivo sospiro di sollievo.

In fondo il capo non si è arrabbiato così tanto.

Chi lo sa? Sarebbe potuta andare molto peggio, se fosse arrivato a Gengis Khan o Archimede Pitagorico…

Alessandro Ghebreigziabiher si presenta così

Sono nato a Napoli nel maggio del 1968, tra due sud. Tra quello di mio padre, Araya Ghebreigziabiher, nato nel 1936 ad Asmara, Eritrea, e quello di mia madre, Paola Smiraglia, nata a Napoli nel 1942.

Il sud del mondo e quello italiano si sono incontrati, per mezzo dei miei coraggiosi genitori, alla fine degli anni ’60 a Napoli, divenendo una cosiddetta coppia mista. All’età di soli due anni ho seguito i miei a Roma, che è divenuta la mia città di ieri, di oggi e, molto probabilmente, anche di ogni domani che verrà.

Scrivo e racconto storie. Le scrivo e le racconto da sempre. Un tempo le scrivevo e le raccontavo senza saperlo. Da alcuni anni ne so qualcosina di più. E’ difficile credere che scrivere sia effettivamente la propria strada. Alla fine degli anni ottanta, in occasione degli esami di maturità, feci forse il miglior tema della mia carriera liceale. In tutti i sei anni precedenti – confesso pubblicamente di essere stato bocciato in terzo per due materie – al compito d’italiano a mala pena riuscivo ad ottenere la sufficienza.

Solo all’ultimo compito, all’esame finale, ne compresi il perché: il problema erano le tracce. Ho sempre preferito scegliere da solo quale storia raccontare. Alla maturità afferrai la penna e raccontai gli anni trascorsi al liceo Keplero di Roma. Ricordo ancora le parole dell’esaminatrice, la professoressa di lettere. Mi disse che, nonostante fossi uscito totalmente fuori tema, a suo avviso il mio testo era valido e che forse sarebbe stato da pubblicare. Così, mi chiese cosa avessi intenzione di fare dopo il liceo. Ebbene, come molti della mia generazione, con la testa piena di sciocchezze sul pericolo di farsi illudere dai propri sogni, risposi che mi sarei iscritto ad ingegneria, perché così avrei avuto più facilità a trovare lavoro.

“Che peccato”, commentò lei, “sei un giovane portato per le lettere…”

Ad ingegneria ho resistito per ben due anni, riuscendo persino a conseguire cinque esami. Tuttavia, che volete farci, nel frattempo era scoppiata la passione per il teatro e per il sociale. Il matrimonio tra questi due mi condusse nel 1995 alla Comunità di recupero per ex tossicodipendenti San Carlo, del Centro italiano di solidarietà (Ceis), in qualità di obiettore di coscienza. La scelta fra il Servizio civile e quello militare, ancora prima che di principio, fu logica, ovvero realistica: io volevo veramente donare un anno alla mia patria…

Nel frattempo cambiai facoltà e trasferii il mio seppur esiguo bottino di esami a Scienze dell’informazione.

L’anno cruciale è stato il 1998, l’anno della laurea, nondimeno, è il momento delle confessioni.

Mi rivolgo, in questo istante, alla professoressa che mi diede 30 in Analisi II: prof, si ricorda di me? Si rammenta quando, all’orale, mi pose il primo quesito e io rimasi in silenzio? Ricorda che, ingannata dalla mia carnagione, mi domandò se avessi problemi con la lingua e il sottoscritto le rispose di sì?

Ebbene, come si suol dire, ho mentito spudoratamente.

Sempre nel ‘98, come si dice, tornai sul luogo del delitto e mi proposi ufficialmente come “animatore teatrale del disagio” al Centro italiano di solidarietà. Dopo l’estate iniziai a lavorare anche come insegnante di informatica. Ancora in mezzo, stavolta tra le fredde lezioni in una scuola e quelle roventi in una stanza di una comunità. In quello stesso anno scrissi Tramonto, il monologo teatrale che nel 2002 è diventato un libro per ragazzi con la casa editrice Lapis. Tramonto, tra giorno e notte, tra luce e buio, una maschera inevitabilmente in mezzo tra due mondi. Due anni prima dell’uscita di quello che è stato il mio primo libro, nel 2000 compresi che nella vita – unica eccezione la scena – le maschere sono il peggior ostacolo per chi vuole raccontare qualcosa che abbia a che fare con la verità. Se non altro che viaggi nella direzione di quest’ultima, miraggio irraggiungibile per tutti. Così, presi il tanto sospirato pezzo di carta e lo riposi in un metaforico cassetto, per dedicarmi unicamente al lavoro come animatore teatrale, del disagio o meno.

E’ stata una scelta difficile, che mi sono ritrovato spesso a rinnegare e poi riconfermare con ulteriore convinzione.

Nel 2005 un altro anno estremamente significativo ha condizionato il mio viaggio. In maggio il programma del Ceis nel quale avevo lavorato nei precedenti cinque anni, all’improvviso si vede tagliati i fondi e il sottoscritto, alla veneranda età di 37 anni, rimane disoccupato e con un figlio di un anno, sebbene condiviso con una meravigliosa compagna. Se tutto ciò non bastasse, nell’agosto seguente vengo a sapere che mio padre ha il cancro ai polmoni e che i medici gli hanno prescritto al massimo sei mesi di vita.

Una parte di me era a pezzi. Come scrittore tanti manoscritti e un solo libro pubblicato. Come professionista del sociale non avevo alcun titolo di studio vendibile, tipo educatore o psicologo. Tanta esperienza sul campo e nessun pezzo di carta coerente. Certo, mi direte voi, avevo ancora una laurea in informatica. In quell’anno ho inviato migliaia di curriculum, senza alcuna fortuna. Perciò, mi convinsi che non avevo altra strada davanti oltre a quella che avevo scelto di coltivare. Durante l’estate di quello sfortunato 2005 buttai giù l’idea del Laboratorio interculturale di narrazione teatrale, che fece il suo debutto a novembre dello stesso anno.

All’inizio del 2006 uno dei due Sud perde il suo ambasciatore: Araya Ghebreigziabiher, dall’Africa all’Europa, dall’Eritrea all’Italia, da Napoli a Roma, Buio, il padre di Tramonto, viene sepolto nella capitale. Da quel giorno, le pochissime cose che faccio di buono so che sono anche per lui.

Dal 2006 ad oggi sono arrivati altri libri, spettacoli di narrazione teatrale, rassegne e, soprattutto, incontri con tante persone, ciascuna degna di essere ascoltata.

Tuttavia, la cosa migliore che ho rimangono la mia compagna e i miei figli.

La mia speranza è che riuscirò ad aiutarli a realizzare i loro sogni.

Redazione
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