Alessandro Taddei: salta la corda

Chi non ha radici a volte può aver radici in tutto il mondo

Le grandi strade portano sempre a grandi costruzioni dove ci si trova immersi a guardare dal basso verso l’alto sovrastati dall’imponenza degli edifici moderni. Quelle secondarie conducono all’interno di questi mondi tutti differenti che nascono dalla bocca e dalle parole della gente e come rivoli tracciano le mappe di nuove città, nascoste e piene di vita.

Non ho voglia di scrivere di abusi e corruzione, dell’occupazione e delle nuove armi strategiche di Israele, della morte del padre di Hariri, attuale primo ministro in carica in Libano, non ho voglia di scrivere di Hezbollah se è colpevole o meno di quell’attentato. Tanti sono i forum, le discussioni e le conferenze sulla questione mediorientale che scelgo di prendere una strada secondaria e soffermarmi sui luoghi nascosti e sulle persone che popolano una parte del Vicino Oriente, città immerse che a poco a poco rischiano di scomparire.

In Africa si dice che puoi restare con i piedi per terra e la testa in cielo per poter sognare e viaggiare senza muoverti. Se la gente non può muoversi perché bloccata da una guerra visibile e invisibile, da un’occupazione visibile e invisibile, se non può viaggiare con il corpo, allora il primo passo è viaggiare con l’immaginazione e saltare la corda di città in città, di paese in paese senza soldati che fermano al checkpoint, senza ambasciate e corridoi della burocrazia “civile”, senza ascoltare i luoghi comuni che nelle teste delle persone diventano peggio dei muri reali.

Saltare la corda e camminare in equilibrio per imparare a conoscere questi Paesi dove non ci sono leggi e codici ben definiti ma solo regole proprie da apprendere subito e velocemente, poco importa se non sono scritte e visibili a occhio nudo.

 

Una bambina, in un pomeriggio di mezzo inverno, salta per prima la corda. Come battiti del cuore i suoi salti sembrano regolare il ritmo delle persone, del canto del muezzin, del passo dei camminatori terrestri, delle auto che sfrecciano per le strade e persino quello dei pescatori che tirano le reti verso il molo.

Da un portone dove passa la luce si intravedono scale di pietra lucida, il fornaio è aperto.

Una donna prende una sportina piena di pane caldo e con la mano indica una mensola piena di dolci di cioccolata con sopra zucchero colorato.

La donna tiene la sportina piena di pane caldo sulla pancia, come una borsa dell’acqua calda, poi attraversa la strada in fretta senza guardare nessuno. Il gancio del cancello stride quando apre il portone sul cortile di casa. In una casa qualunque, di una qualunque città del Vicino Oriente.

 

Salta la corda

La città si risveglia ogni mattino al richiamo della preghiera, prima ancora che il sole sorga e i bambini, piccoli come granelli di sale, corrano a scuola.

Si parla una lingua semplice, una lingua contadina, forte e onesta che sorride ancora ed è capace di prendersi in giro regalandosi in abbondanza dolci e caffè, urla: – “ habibi (amore)” e tutto può partire, giorno dopo giorno.

I vecchi passano per la strada e ti salutano con un cenno del capo e le donne camminano con gli occhi stretti accecati dalla luce del sole.

I palazzi squadrati hanno il colore del cemento grezzo, le strade brulicano di auto e di persone che scendono giù dal marciapiede, pieno di cartacce, di bucce, di gusci di ceci e di semi. Tutto viene sputato all’aperto, il mercato è pieno di bancarelle e carretti mobili, attraversato dai bambini e dalle auto strombazzanti che si osservano una con l’altra, ferme in mezzo alla strada. Traffico bloccato. Poi alle cinque i negozi chiudono, si comincia a raccogliere, a spazzare e lavare. La città ha un altro aspetto, ha risucchiato tutto. Solo qualche market, qualche barbiere e qualche forno aperto. La nuova polizia è dislocata in più punti e osserva, tutto e tutti.

Tutti a casa allora. Si scappa sui tetti per trovare riparo, per pensare, per parlare, per cucinare o anche solamente per fumare una sigaretta. Dall’alto si vedono ancora pochi bambini che giocano a pallone e qualche auto che lentamente passa.

 

Salta la corda

Esiste una piccola città che sembra un filo di colore oro e blu in mezzo alle strade di Israele e della Palestina, appeso sotto le gambe del Libano. Gli alberi hanno limoni che se ne incidi uno, ti rimane l’odore sotto le unghie per una giornata intera e gli abitanti alle volte ti guardano con sospetto perché nel porto esiste il mare ma esiste anche il sospetto.

Le case sono piene di disegni fatti a mano, occhi dipinti sugli spioncini delle porte e sagome colorate di rosa e giallo sulle grondaie.

Ci sono i panni stesi lungo i vicoli e il naso si scontra con il profumo del sale e del bucato. Tutto intorno una quiete non precaria resta solida tra i resti delle mura di antiche battaglie e le gambe di una donna fatte in pietra, aperte in attesa di parto.

In una casa in costruzione, donne, uomini e bambini sfogliano rametti di z’atar buttando i fiori dentro un sacchetto di plastica. Odore di timo.

Fra un po’ di tempo si seccheranno e diventeranno spezie.

Nei cantieri artigianali la polvere si alza dispettosa.

 

Salta la corda

Un vecchio vestito di bianco cammina con sua moglie sotto braccio, il giorno prima era seduto su una sedia intento a intrecciare le reti per andare a pesca. In questo modo, dice, le reti dei pescatori si mischiano alle reti invisibili che si creano tra gli uomini e le donne che camminano sul lungomare.

Racconta che il pesce lo trovi a poco prezzo e le verdure hanno ancora il sapore delle verdure, la luce va e viene per i vicoli e quando cammini al buio puoi vedere piccole lucciole di braci per arghile volare via dai contenitori portati dai ragazzi in motorino. Indica un’insegna sopra un edificio dove una volta c’era un cinema, le cinema Rivoli.

La casba musulmana è una piccola scatola dentro la città, si snoda e si richiude e all’alba si schiude, come un fiore prende il sole ma non si riflette mai fuori da sè. Il piccolo antro dei cristiani si butta sul porto, donne dai capelli voluminosi, appariscenti camminano su e giù. Due mondi divisi, un lato e l’altro della strada, in mezzo si respira molta solitudine. Le case costano e molti fanno affari, l’Unifil paga e inonda con mezzi e autocarri mentre i soldati vestiti di grigio verde sono complici di una doppia guerra, visibile e sotterranea.

 

Salta la corda

In mezzo alle rovine del vecchio ippodromo romano, il cimitero del pensiero passa attraverso la grande porta costruita da Tiberio dove si vedono file di palazzi in costruzione schiacciati tra loro, senza alcun rispetto per l’ambiente circostante. Solo un’estensione di cemento e ferro destinata ad una polvere fitta fatta solo di soldi.
Più in fondo, nel cuore del sito archeologico, dove la natura e i fiori posso nascere liberi, non senti più niente, nessun rumore di motori accesi, solo lucertole nei buchi degli alberi e in mezzo alle tombe degli antichi, le memorie delle gesta fenicie.

Salta la corda
Girato l’angolo scopri che dietro ad un grande edificio vivono ancora i bugigattoli ripieni di anticaglie e nel salire e scendere le scale si aprono scorci di una metropoli ricostruita, dove ai balconi antichi si mescolano le luci di Zara o H&M e il canto del Muezzin è confuso dalle tante sirene della polizia. I quartieri sono come pezzi di un mosaico stratificato, per religione e storia, armeni, cristiani, musulmani, maroniti, ultraconservatori, falangisti, i militanti sciiti, i sunniti e le donne, quelle che al velo preferiscono la chirurgia estetica e quelle che invece non hanno mai visto un ginecologo, grandi suv –
simbolo di potenza – e i carretti mobili che tracciano un percorso di mercanzia semplice fatta di frutta e verdura.

Un sarto che per otto ore lavora in uno scantinato, con un quaderno in mano e delle parole arabe scritte sopra con la traduzione in italiano. Dice che Mar Mediterraneo nella sua lingua si chiama mare bianco che sta nel mezzo.

Tutte le notti sta attaccato al computer per studiare parole italiane sognando di potersene andare a Milano, a Roma, con il naso all’insù e un quaderno in mano.

Immersi in una metropoli in espansione, tra le sirene della polizia spiegate a tutto volume, il traffico esorbitante, la turbo folk musique lanciata a palla fuori dai locali alla moda, si ascolta volentieri un sarto che mischia parole l’una con l’altra sognando di saltare la corda e di sentire le cicale cantare anche qui, sul fondo di questa metropoli orientale dove sembra non ti ascolti più nessuno.

In coro poi sarebbe una meraviglia.

 

Salta la corda e così all’infinito.

 

UNA BREVE NOTA

Ogni ultimo venerdì del mese (o giù di lì, i calendari in fondo sono un’opinione e gli orologi un ricatto) troverete i pensieri, le storie, forse le interviste e i link di Alessandro che lavora e/o vagabonda in quell’a noi Vicino Oriente che erroneamente abbiamo preso a chiamare –  non si sa bene se per ignoranza o per scimmiottare gli yankee – Medio. Dunque questo è il primo intervento di una spero lunga serie. Si chiude con la parola “infinito”, il cui simbolo matematico è una sorta di 8 sdraiato, bello acciambellato come un gattone.  Sarebbe stato un bel finale quell’ orizz-otto e/o avrebbe rafforzato il salto alla corda del titolo. Ma … scusate Huston qui sulla navicella Barbieri (da molti anni PERSA nello spazio) , abbiamo un problema: dove diavolo sta il simbolo di infinito sulla tastiera? Rispondete da Huston oppure da Vercelli, da San Miniato o da Termini Imerese. Grazie. Bip-bit-bau. (db)

 

Redazione
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